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Il terzo monologo di Medea. Il fiore
mostruoso nato dal sangue di Prometeo. La radice (rJivza) era simile a carne appena tagliata ( sarki;
neotmhvtw/ ejnaligkivh e[pleto rjivza v.
857). Medea ne ha
ricavato il filtro che porta a Giasone per renderlo invincibile. L’incontro tra
l’uomo seduttivo e la ragazza. Bellezza e stupidità di Giasone
Segue il terzo monologo (771 - 801),
un’anticipazione del monologo interiore: “povera me, tra quali sventure mi
trovo!
Dappertutto i pezzi della mia anima
sono impotenti. Non c’è rimedio alla forza della pena ajlkh,
phvmato" (771 - 773)
che brucia costante flevgei e[mpedon.
Vorrei essere morta, uccisa dalle
frecce di Artemide, prima di averlo visto (Cfr. Saffo)
Un dio o un’Erinni li ha portati qui
per il mio dolore e il mio pianto.
Ma muoia lui se deve morire. Però
nemmeno da morto mi lascerà in pace, quindi vada in malora il pudore, vada
in malora l’orgoglio, e Giasone vada via salvo per mio volere dove lo
desidera il cuore.
ejrrevtw aijdwvς, - ejrrevtw ajglai?h. Poi mi ucciderò
impiccandomi o avvelenandomi. Comunque verrò giudicata male, come quella che ha
disonorato i genitori cedendo alla lussuria. Sarebbe meglio morire subito”.
Cercò il cofanetto dove erano polla; favrmaka, alcuni buoni, altri distruttivi (803). Voleva ingerire quelli mortali. Ma
poi pensò alle attenzioni che rallegrano l’esistenza, ai piaceri che toccano ai
vivi e la luce del sole divenne più dolce a vedersi (815).
E desiderava che venisse l’alba per dare il filtro a Giasone e vederlo in
volto.
Un fiore mostruoso. Apollonio Rodio e Pascoli
Quando vide la prima luce, Medea raccolse con le mani i biondi capelli
della chioma che cadevano senza cura, si unse la pelle, indossò uno splendido
peplo e si mise un velo bianco sul capo, scordando il dolore. Chiamò le 12
ancelle vergini e fece aggiogare i muli al carro per recarsi al tempio di
Ecate. Prese un favrmakon chiamato
Prometeo: chi se ne unge, diventa invulnerabile alle armi e al fuoco. Si formò
quando l’aquila crudivora fece sprizzare il sangue di Prometeo: ne nacque un
fiore alto un cubito (44 cm), giallo con due steli. La radice (rJivza) era simile a carne appena tagliata ( sarki;
neotmhvtw/ ejnaligkivh e[pleto rjivza - Argonautiche III,
857).
Medea ne aveva raccolto l’umore in una conchiglia del Caspio per farne un
filtro, e aveva invocato Ecate nella notte nera, coperta di abiti neri.
Quando tagliò la radice titanica, la terra muggì e il figlio di Giapeto
gemette angosciato.
Un fiore mostruoso probabilmente ricordato da Pascoli nella Digitale
purpurea (1898):
“In disparte da loro agili e sane,
una spiga di fiori, anzi di dita
spruzzolate di sangue, dita umane,
l’alito ignoto spande di sua vita” (47 - 50)
Medea dunque prese il filtro e lo mise nella fascia profumata che le
cingeva il petto. Poi salì sul carro, lo guidava e le fanciulle correvano
dietro sollevando le tuniche sopra le ginocchia.
La pincipessa dei Colchi viene paragonata ad Artemide che procede sul carro
tirato da cerbiatte seguita dalle ninfe (cfr. Nausicaa nel VI dell’Odissea).
Poi Medea parla alle ancelle mentendo: dice che darà a Giasone un farmaco
cattivo e chiede di lasciarla sola con lui. Alle ragazze piacque l’abilità
simulatrice (ejpivklopoς mh'tiς, 912)
Era intanto rese Giasone splendidissimo nell’aspetto e nella parola. Gli
stessi compagni si meravigliavano osservandolo brillare per il fascino. (925).
Mopso, l’indovino è contento e si dispone ad accompagnare il bellissimo, ma una
cornacchia loquace lo schernisce dicendo che pure i bambini sanno che la
presenza di persone impedisce il corteggiamento. Lo chiama kakovmanti (936). Mopso considera divina la parola della cornacchia e suggerisce
a Giasone di andare da solo. Medea aspetta piena di ansia e quando Giasone le
appare, sembra Sirio che sorge dall’Oceano nitido e bello ma porta infinite
sciagure alle greggi, così l’uomo sorgeva come un amore travagliato e
tormentoso (kavmaton dusivmeron, 961).
Allora il cuore le cadde dal petto, gli occhi si oscurarono, un caldo
rossore le prese le guance, non aveva la forza di sollevare le ginocchia né
avanti né indietro, ma era come inchiodata nei piedi (pavgh povdaς). Cfr - Saffo.
I due erano senza voce articolata come le querce e i grandi pini nei
monti, che poi però per il vento cominciano a sussurrare, così Giasone le
rivolse parole come carezze, parole carnèe.
Giasone dice alla ragazza che non deve avere paura: sono ospite e supplice:
senza di te non posso vincere la durissima prova. Ti sarò grato in futuro (990)
e tutti gli eroi della spedizione ti celebreranno dando gloria al tuo nome.
Anche le madri ti saranno riconoscenti. Pure Teseo venne salvato da una nipote
del Sole: Arianna, figlia di Pasife, figlia del sole e ora è una costellazione.
“Così anche per te ci sarà grazia da dio - w{" kai; soi qeovqen
cavri" e[ssetai - se salverai un così grande stuolo di eroi” 1005 - 1006.
Stupidità di Giasone: Arianna venne abbandonata da Teseo quando il principe
ateniese non ebbe più bidogno di lei.
Cfr. l’idiozia di Admeto nell’Alcesti di Euripide.
"E se io avessi la lingua e il
canto di Orfeo,357
così da poterti strappare all'Ade
affascinando
con i canti o la figlia di Demetra o
lo sposo di quella,
vi scenderei e il cane di Plutone né
Caronte, il traghettatore di anime
curvo sul remo
potrebbero trattenermi, prima che
avessi riportato la tua vita alla luce"(362).
In questa evocazione del cantore
tracio, Kott trova dell'ironia:"anche il più ignorante degli spettatori
sapeva che Orfeo non era riuscito a portare Euridice fuori dagli inferi".
Egli infatti non seppe aspettare: si girò indietro e la perdette.
Non solo: qualche decennio dopo l'Alcesti ,
Platone nel Simposio racconta che Orfeo non piacque agli dèi e non
riebbe l'amata Euridice" o{ti malqakivzesqai ejdovkei...kai; ouj tolma'n e{neka
tou' e[rwto" ajpovqnh/skein w{sper [Alkhsti"".(179d) poiché sembrava essere
vile e non osare morire per amore come Alcesti.
“Euripide è stato straordinariamente
perfido”, commenta Kott, "Admeto non solo dimentica che il cantore trace
non è riuscito a recuperare la moglie, ma non gli viene in mente di
assomigliargli per la sua codardia"(p.133).
giovanni ghiselli
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