domenica 25 ottobre 2020

Kafka, "Il processo". Capitoli II e III

Goya, Il tribunale dell'Inquisizione
Argomenti

Il tribunale di corrotti e di pezzenti. L’assurdo portato a sistema. La caverna platonica. I labirinti. 

 

Capitolo II Primo interrogatorio

K fu avvertito per telefono che la domenica successiva doveva presentarsi in tribunale per l’inchiesta che lo riguardava.

 

Il vicedirettore lo invita a una gita in barca da fare domenica, ma K deve rifiutare per andare dai suoi inquisitori. Però non gli avevano detto a che ora. Decise di andare alle nove. Il tempo era grigio. Si mise a correre nonostante non sapesse quando doveva arrivare (Una serie di fatti contrari alla logica).

 

 La Jiulius Strasse, una remota via dei sobborghi, era formata ai due lati da case quasi uniformi, alte grigie, abitate da povera gente.

Alle finestre stavano affacciati uomini in maniche di camicia che fumavano o tenevano, con cautela e tenerezza, dei bambini appoggiati sul davanzale (p. 80). 

Cfr. Eliot Il canto d’amore di Alfred Prufrock (1917): “Dirò, ho camminato al crepuscolo per strade strette e ho osservato il fumo che sale dalle pipe di uomini solitari in maniche di camicia affacciati alle finestre? (of lonely men in shid - sleeves, leanig out of windows? )

Avrei potuto essere un paio di ruvidi artigli che corrono sul fondo di mari silenziosi” (70 - 74). Non osa dare un senso dinamico alla sua vita. Vorrebbe essere del tutto irrazionale.

Cfr. anche Buzzati Il deserto dei Tartari (1940) “Non più alle finestre si affaccenderanno ridenti figure, ma volti immobili e indifferenti. E se lui domanderà quanta strada rimane, loro faranno sì ancora cenno all’orizzonte, ma senza alcuna bontà e letizia (…) Le giornate si fanno sempre più brevi, i compagni di viaggio più radi, alle finestre stanno apatiche figure pallide che scuotono il capo ” (cap. VI. p. 53).

 

Un grammofono emerito proveniente da quartieri migliori cominciò a sonare in modo orrendo. C’erano varie rampe di scale e lui ne infilò una ricordando le parole di Willem: “il tribunale è attirato dalla colpa”.

Passò in mezzo a dei bambini pensando: la prossima volta porterò caramelle per conquistarli o un bastone per prenderli a legnate.

Indecisione e confusione. Mai un’espressione di affetto disinteressato: atteggiamento pragmatico, senza logica e senza carità.

 

 Due bambini con facce da vagabondi adulti cercarono di trattenerlo per i calzoni. Guarda dentro tante stanze con malati di corpo o di mente

Finché entra in uno stanzone affollato da un’assemblea. Attraversa la sala e arriva a un tavolino. Gli dissero che era arrivato con un’ora e cinque minuti di ritardo. Si levò un brontolio ostile. K. Disse: sarò arrivato tardi ma ora sono qui. La parte destra della sala applaudì. L’ala sinistra si ammutolì, tranne qualche singolo applauso. Pensò come fare per conquistare tutti.

Il giudice istruttore lo interroga. Gli chiede se sia un pittore

K. dice che riconosce il procedimento per compassione. Si affacciò la lavandaia che l’aveva fatto entrare.

K sollevò con le punta delle dita il quadernino lercio del giudice e lo mostrò con disprezzo al pubblico

Quindi parla all’assemblea. Racconta del suo arresto da parte di custodi senza morale.

Il processo è una farsa (come quelli fatti ora in televisione).

 

Ed è una farsa quello intentato nell’Asino d’oro a Lucio “otricida”.

La padrona di Fotide, Panfile, minacciava il sole perché non tramontava in fretta. Aveva visto un bel giovane dal barbiere e aveva chiesto alla serva di raccoglierne i capelli ma il tonsor l’aveva cacciata. Quindi Fotide aveva raccolto dei peli biondi tosati da otri caprini. Panfile con quei peli e gli strumenti della sua feralis officina aveva infuso spirito umano in quegli otri (3, 17). La feralis officina è la solita delle streghe: pezzi di cadaveri e altri ingredienti.

Quindi Panfila recita formule e getta i peli sui carboni. In seguito Lucio, impazzito come Aiace, pugnala gli otri diventa un otricida (3, 18).

 

La folla era divisa. K. Parla, e la folla lo ascolta con una viva attenzione di cui l’oratore fu contento (p. 89).

 

Un’attenzione verso il prossino di cui spesso K difetta: “Il suo peccato più grave è la mancanza di attenzione: non possiede la delicata e molecolare pazienza, la mite passività che sola ci assiste nelle cose dello spirito” (Citati, Kafka, p. 142)

Invero l’attenzione non manca, però è intermittente, ed è priva di carità, poiché K ha premura solo di se stesso -

K. parla criticando l’organizzazione persecutoria del tribunale. Un’organizzazione di folli criminali corrotti. Non senza carnefici. Un giovane stringeva la lavandaia e a bocca spalancata guardava il soffitto e strillava.

 K. si accorse che i componenti la folla avevano il medesimo distintivo del giudice. Era la masnada corrotta del tribunale e lui si era illusa di accattivarsela. Se ne andò gridando “pezzenti!”, mentre il giudice lo minacciava: andando via perdeva il diritto di essere interrogato (p. 91). Ma K gridò che faceva ameno di tutti gli interrogatori. Alle sue spalle scoppiò un baccano

 

Capitolo III Nella sala delle udienze deserta . Lo studente. Le cancellerie

La settimana successiva K aspettava una nuova chiamata, ma l’invito non viene. Allora torna nello stesso posto di domenica. Incontra la lavandaia che gli dice: “oggi non c’è seduta. E lui: “perché non dovrebbe esserci?

E’ l’assurdo innalzato a sistema.

 

Il nonsense

Nel Satyricon. il disorientato Encolpio domanda all'anicula :"mater, numquid scis ubi ego habitem?" mamma, sai dirmi dove abito? e la vecchia delectata est illa urbanitate tam stulta et: quidni sciam? inquit consurrexitque et coepit me praecedere. divinam ego putabam (7)

 

Questa domanda assurda può accostarsi a quanto chiede uno degli occupati del De brevitate vitae[1] di Seneca. Costoro sono dei maniaci impegnati in attività che, secondo l'autore, sono quanto meno futili e vane. Ebbene riguardo a uno di questi, un delicatus, per giunta, un raffinato, il filosofo riferisce di avere sentito "cum ex balneo inter manus elatus et in sella positus esset, dixisse interrogando ' iam sedeo'?" (12, 7), che sollevato a braccia dal bagno e posto su una sedia sembra abbia fatto questa domanda: "sono già seduto?". Seneca sottolinea l'irrazionalità di certi personaggi, Petronio fa risaltare piuttosto l'incongruenza che è fondamentale per l'umorismo[2] anticipando addirittura alcuni aspetti del nonsense di Edward Lear (1812 - 1888) che con i limericks[3] del suo A Book of Nonsense (del 1846) eleverà a sistema l'enunciazione dell'incongruo. "Il nonsense dei limericks è un territorio fuori legge della letteratura, una piccola catastrofe del cosiddetto razionale", sostiene Ottavio Fatica[4]. Carlo Izzo invece suggerisce che il " nonsense avanti lettera…è una costante nelle opere della letteratura inglese più lontane dall'influsso delle letterature continentali" e ne indica un esempio in "almeno una tra le filastrocche delle streghe" del Macbeth, quella che fa: "una moglie di marinaio aveva nel grembiale delle castagne, e masticava, masticava, masticava. "Dammi qua" feci io. "Vai via strega !" grida quella carogna rimpinzata. Il marito è andato ad Aleppo, capitano della Tigre. Ma io farò vela per colà imbarcata in uno staccio. And like a rat without a tail - I'll do, I'll do and I'll do" (I, 3), come un topo senza coda io farò e farò e farò".

 Oltre che al nonsense del resto questa scarsa logica delle streghe può ascriversi a una certa primitività che comporta un uso ossessivo della paratassi.

Questo è tipico dei demoni della mitologia inferiore: nelle Eumenidi di Eschilo, quando le Erinni non ancora placate si svegliano con mugolìi e gemiti, la corifèa le aizza contro il matricida gridando:" labe; labe; labe; labev : fravzou", prendilo prendilo prendilo prendilo; stai attenta!"(v. 130).

 

K biasima la donna che si era fatta abbracciare quando lei dice di essere la moglie dell'usciere, ma la donna aggiunge che che il marito lo permette perché quello è uno studente e si prevede che un giorno potrà comandare. Questo corrisponde a tutto il resto, dice K. La donna lo elogia per il discorso che ha fatto anche se non ha potuto sentirlo bene perché era stesa a terra con lo studente.

 

L’assurdo e il tragico confinano con il comico.

 

K chiede di vedere i libri sulla tavola del giudice e nota una figura indecente fatta male: un uomo e una donna nudi su un divano si volgevano l'uno verso l'altro ma solo faticosamente" Il libro era intitolato Le tribolazioni di Grete inflitte da Hans suo marito. "Dovrei farmi giudicare da questa gente?" La donna comincia a corteggiarlo: Lei ha dei begli occhi scuri, li ho notati appena è entrato" K pensò che fosse corrotta come tutto lì intorno. La donna gli promette aiuto con il giudice che le fa la corte: le ha regalato belle calze di seta. Arriva poi lo studente che è piccolo e con le gambe storte, ma la lavandaia deve andare con lui. Comunque promette a K che tornerà da lui e potrà fare di lei quello che vuole. K pensa che la donna sia sincera e che gli possa essere utile, e immagina pure che potrebbe spezzare tutto intero il meccanismo della legge se avesse fiducia.

Il mostriciattolo come lo chiama la donna è andata a prenderla per portarla dal giudice istruttore. I due se ne vanno, e K sente di avere subìto la prima sconfitta. Ma pensa pure che poteva non andare in quel posto dove ha visto che l'interno di quel macchinario giudiziario era ripugnante quanto l'esterno. Vide che il ragazzo portava la donna in un solaio dove difficilmente poteva abitare il giudice. Ma in un cartello lesse: scala di accesso alla cancelleria. Forse il denaro veniva rubato dagli impiegati: per questo gli uffici erano miserrimi. Pensò che la sua vita era migliore di quella del giudice.

 Arriva il marito della lavandaia, l'usciere, che dice di subire tutto per non perdere il posto. La donna ha le sue colpe. K entra nel solaio e vede degli imputati, suoi "colleghi". Fa domande a uno che lo teme, K gli prende un braccio e quello si mette a gridare come se l'avessero afferrato con due tenaglie incandescenti. K ha paura di perdersi nel labirinto e vuole andarsene accompagnato dall'usciere.

Il labirinto significa un andirivieni faticoso e senza progresso e addirittura spaventoso, come quello tipico degli incubi.

 

I labirinti

Sono quelli che Eliot in Gerontion, assumendo una visione cosmica del labirinto, chiama i corridoi artificiosi della Storia:" Think now/History has many cunning passages, contrived corridors./And issues, deceives us with whispering ambitions, Guides us by vanities " (vv. 34 - 37), pensa ora, la Storia ha molti anditi ingannevoli, corridoi artificiosi e varchi, ci inganna con sussurranti ambizioni, ci guida con cose vane.

 

Nel Satyricon gli scholastici Encolpio e Ascilto tentano di scappare dal banchetto, ma, terrorizzati dal cane di guardia, cadono nella piscina. Vengono tratti in salvo dal portiere che, però, non permette loro di uscire. Segue la riflessione di Encolpio:"quid faciamus homines miserrimi et novi generis labyrintho inclusi, quibus lavari iam coeperant votum esse? " (73), cosa possiamo fare uomini disgraziatissimi e rinchiusi in un labirinto di nuovo tipo, per i quali lavarsi già cominciava ad essere un miracolo ?

Il labirinto significa assenza di progresso e il lavarsi come votum sembra alludere a una purificazione sempre più desiderabile e difficile

 

K si sente male per l'aria irrespirabile. Una ragazza aprì un finestrino per aiutarlo ma entrò una nube di fuliggine (p. 107).

Interviene un altro personaggio, l'informatore, l'unico ben vestito perché deve fare una buona impressione. Però tende a ridere e dà fastidio. Risate offensive. K si avvia sorretto dalla ragazza e dall'informatore. A K sembrava di avere il mal di mare. Si sentiva come su una nave in una tempesta.

 

Cfr. le metafore nautiche come povliς (…) a[gan - h[dh saleuvei dell’Edipo re di Sofocle

"la città infatti, come anche tu stesso vedi, troppo/già ondeggia e non è più capace di sollevare il capo /dai gorghi del fluttuare insanguinato (vv. 22 - 24).

 

Lo accompagnano all'uscita e K si riprende ma l'informatore e la ragazza non sopportavano l'aria relativamente fresca che veniva dalla scala. Erano stati troppo a lungo nella caverna.

Cfr. La caverna platonica.

Vediamo dunque questo mito (VII libro della Repubblica)

Socrate parla a Glaucone e gli dice: considera gli uomini rinchiusi in una specie di abitazione sotterranea, cavernosa, a grotta (ejn katageivw/ oijkhvsei sphlaiwvdei, 514). L’ingresso è aperto alla luce ma poi scendendo si trovano uomini che sono prigionieri fin da fanciulli, incatenati nel collo e nelle gambe in modo che possano guardare solo verso il fondo della caverna. Dietro di loro c’è un muro, poi dietro ancora una strada. Su questa strada passano uomini che hanno sulle spalle arnesi di ogni genere che sporgono oltre il muro: statue, animali di pietra e di legno (zw`/a livqinav te kai; xuvlina).

Ancora dietro questi c’è la luce di un fuoco alto e lontano fw`````" puro;" a[nwqen kai; povrrwqen (514b).

I prigionieri vedono solo le ombre delle cose riflesse dal fuoco sulla parete di fondo.

Costoro credono che quelle ombre (skiav") siano la realtà (to; ajlhqev").

Se uno di loro venisse slegato e costretto ad alzarsi e a guardare la luce del fuoco e gli oggetti, rimarrebbe abbagliato e riterrebbe le ombre più vere degli oggetti che tornerebbe a guardare perché gli farebbero male gli occhi.

Se poi venisse portato fuori pieno di riluttanza non riuscirebbe a vedere niente. Ma poi un poco alla volta si abituerebbe a individuae prima le ombre, quindi i riflessi nell’acqua, infine gli oggetti stessi, poi il cielo notturno, la luna e le stelle. Infine il sole. E capirebbe che il sole che produce le stagioni e gli anni, e sovrintende a tutto quanto c’è nel mondo visibile (pavnta ejpitropeuvwn ta; ejn tw'/ oJrwmevnw/ ) è anche la causa di tutto quanto gli occhi vedono.

A questo punto si ricorderà dei compagni di schiavitù e li commisererà.

E penserebbe quello che dice Achille a Odisseo nell’Ade (Odissea XI, 489). Se tornasse nella caverna, gli occhi gli si riempirebbero di tenebra.

Gli ottenebrati direbbero che l’ottenebrato è lui e se qualcuno cercasse li liberarli per farli uscire, lo ammazzerebbero.

Questo mito, spiega Socrate, significa che il mondo dove viviamo è una prigione e il sole è quel fuoco e noi vediamo solo ombre.

 

Secondo alcuni autori noi stessi siamo ombre.

 

Pindaro chiama l'uomo "sogno di ombra" (skia'" o[nar/a[nqrwpo"", Pitica VIII, vv. 95 - 96).

 

Nell'Aiace di Sofocle Odisseo esprime la convinzione che l'ombra sia la quintessenza dell'uomo e manifesta la compassione del poeta per tutte le creature umane cadute sulle spine della vita:"oJrw' ga;r hJma'" oujde;n o[nta" a[llo plh;n - - ei[dwl j o{soiper zw'men h] kouvfhn skiavn", io infatti vedo che non siamo se non immagini quanti viviamo, o muta ombra (Aiace, vv.125 - 126).

 

Pulvis et umbra sumus, “polvere e ombra siamo”, secondo Orazio (Odi, 4.7.16). Amleto dice che l’uomo è quintessenza di polvere. «Alexander died, Alexander was buried, Alexander returned into dust», “Alessandro morì, Alessandro fu se­polto, Alessandro ridivenne polvere” (Shakespeare, Amleto, V, 1). Alessandro era un uomo, ossia «quintessence of dust», “quintessenza di polvere” (Shakespeare, Amleto, II, 2). Shakespeare nel Macbeth (V, 5) fa dire al protagonista prossimo alla fine: «Life is but a walking shadow; a poor player, / That struts and frets his hour upon the stage, / And then is heard no more: it is a tale / Told by an idiot, full of sound and fury, / Signifyng nothing», “la vita è solo un’ombra che cammina; un povero attore che si pavoneggia e si agita sulla scena nella sua ora e poi non se ne parla più: è la storia raccontata da un idiota, piena di frastuono e di furia, che non significa nulla”.

In La terra desolata di T. S. Eliot leggiamo (v. 30): «I will show you fear in a handful of dust», “in un pugno di polvere vi mostrerò la paura”.

La ragazza sarebbe precipitata se K non avesse chiuso rapidamente la porta 110.

 



[1] Del 49 d. C. circa.

[2] Un'interessante definizione del punto di partenza dellumorismo si trova ne Il lupo della steppa di H. Hesse:"Ebbene, ogni superiore umorismo incomincia col non prendere sul serio la propria persona" (p. 231).

[3] "Così comunemente si chiama la forma strofica usata dal Lear. Sembra derivi da un coro, in quel metro, nel quale figurava il nome della città irlandese di Limerick. Un "limerick" si compone di cinque versi (aabba), dei quali gli "a" sono tripodie e i "b" dipodie anapestiche. I "limericks" sono popolarissimi, e ne esiste un'incalcolabile quantità di anonimi". Do un paio di esempi di limerick, tratti dall'antologia del caro maestro C. Izzo:"C'era un vecchio sannita - disgustato della vita: - gli cantarono una ballata, - lo cibarono d'insalata, - e guarirono quel vecchio sannita". "C'era un vecchio dal mento barbuto - che disse:"l'ho sempre temuto! - Due gufi e un pollastrello, - quattro allodole e un fringuello - han fatto il nido nel mio mento barbuto" Storia della letteratura inglese, 2, p. 594 n. 1; 595 n. 2 e n. 3.

[4] Curatore della recente (2002) pubblicazione Einaudi.

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