NUOVE DATE alla Biblioteca «Ginzburg»: Protagonisti della storia antica

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mercoledì 14 ottobre 2020

"Filosofi lungo l'Oglio" II

Oglio
Stralcio dal percorso preparato per il convegno “Filosofi lungo l’Oglio”.

Tema del convegno: Essere umani

 

Esporrò la mia lectio il 20 ottobre a Erbusco (Brescia) dalle 21 alle 22

 

Titolo della lectio: Essere umani significa amare l’umanità.

Umanesimo è amore degli esseri umani 

 

L'amore maturo significa un'uscita dalla gelosia e dalla possessività cui subentrano il “rispetto” Anche questo è umanesimo

 

Ovidio adotta poi ripudia l’odi et amo di Catullo.

Il Sulmonese dunque negli Amores scrive: "Odi, nec possum cupiens non esse quod odi " (II, 4, 5) odio e non posso non desiderare quello che odio.

 

Nei successivi Remedia amoris però il poeta di Sulmona rinnega questo atteggiamento tipico di anime poco fini: "sed modo dilectam scelus est odisse puellam;/exitus ingeniis convenit iste feris./ Non curare sat est odio qui finit amorem,/aut amat aut aegre desinet esse miser " (vv. 655 - 658), ma è un delitto odiare una ragazza amata fino a poco tempo prima;/una conclusione del genere si addice ad animi rozzi./Basta non curarsene; chi vuole finire l'amore con l'odio/o ama o con fatica smetterà di essere disgraziato.

Su questo poemetto torneremo, a lungo, tra poco, nella prossima stazione.

 

Alla fine dell'amore di Swann troviamo un suggerimento per la guarigione. Vediamo:" appena Swann se la poteva raffigurare senza orrore, appena rivedeva bontà nel suo sorriso (...) il suo amore ridiventava soprattutto un gusto delle sensazioni dategli dalla persona di Odette, del piacere che provava nell'ammirare come uno spettacolo o nell'interrogare come un fenomeno, l'alzarsi di uno sguardo, il formarsi d'un suo sorriso, l'emissione d'un tono di voce" (Proust, Dalla parte di Swann, p. 322).

Amare una persona dunque significa osservarla senza la pretesa di cambiarla, rispettarla, osservarla come si può fare con un paesaggio o un tramonto.

 

Una soluzione del genere si trova pure in La Noia di Moravia: "insomma, lei non volevo più possederla bensì guardarla vivere, così com'era, cioè contemplarla, allo stesso modo che contemplavo l'albero attraverso i vetri della finestra"[1].

 

Anche il protagonista di Un Amore di Buzzati arriva alla comprensione e alla compassione per la ragazza che l'aveva fatto soffrire, quando c’erano stati dei conflitti tra loro, osservandola sine ira et studio :" dal sonno di lei così abbandonato e confidente viene a lui un senso di pietà e di pace, una specie di invisibile carezza"[2].

 

La Zambrano suggerisce di uscire dalla caverna del proprio io per il superamento dell'amore come invidia dell'altro. "ben presto nell'amore l'altro si trasforma in uno. L'invidia, invece, conserva ostinatamente l'alterità dell'altro, senza permettergli di raggiungere la purezza dell'uno. E mantenendo l'altro, l'avidità aumenta sino alla frenesia (…) la differenza tra l'invidia e l'amore sembra trovarsi nella visione: l'amore vede l'altro come uno; l'invidia vede ciò che potrebbe essere uno come l'altro (…) L'invidioso, che sembra vivere fuori di sé, è un individuo immerso nel proprio intimo: invidere, già nella sua composizione, dichiara il dentro che c'è in quel guardare l'altro. Guardare e vedere un altro non fuori, non dove l'altro sta realmente, ma in un dentro abissale, un dentro allucinato che si confonde con la solitudine, dove non trova il segreto che ci fa sentire noi stessi"[3].

L'invidia si supera trovando la propria identità: "se cerchiamo l'identità di essere qualcuno al di sopra e al di là di quello che ci accade e di quello che viviamo, allora non potrà nascere l'invidia. Perché l'invidia è passione dell'altro, passione dell'identità dell'altro, passione della libertà dell'altro, nella propria vacillante unità e libertà"[4]Invidere è guardare di malocchio.

 

Umanesimo e pietas.

La publica salus deve importare al re assolutamente. Nell'Edipo re il figlio di Laio dice: "ma se ho salvato questa città, non mi importa" (v. 443). Qui sta la sua grandezza e questo è il significato più vero e utile della tragedia sofoclea: l'impiego del dolore per il vantaggio, la bellezza, la salvezza propria e della comunità. Chi riesce a fare questo è un uomo, e chi assiste alla metamorfosi del pavqo" in mavqo" diventa migliore. Il poeta scrive per tale risultato che dà senso alle sue parole e alle danze del coro. Sofocle asserisce che il compito del drammaturgo è condurre chi ascolta e vede le tragedie a una visione religiosa dell’esistenza: Edipo e Giocasta in una fase dell’Edipo re sono i rappresentanti di quel pensiero laico - sofistico cui Sofocle si oppone con tutta la sua produzione poetica, e più che mai con questo dramma, dove il coro, portavoce dell'autore, durante il secondo stasimo, domanda: "Se infatti tali azioni sono onorate,/ perché devo eseguire la danza sacra?"(vv.895 - 896). Se gli oracoli vanno in malora e Apollo è dimenticato, tutti gli dei tramontano (v.910); allora la stessa rappresentazione tragica, che fa parte della liturgia religiosa, perde ogni significato e diviene assurda.

 

La formulazione latina del dovere di adoperarsi per gli altri si trova in un'epistola di Seneca: "Vivit is qui multis usui est, vivit is qui se utitur "[5], vive chi si rende utile a molti, vive chi si adopera.

 

Bologna 14 ottobre 2020 ore 20,05

giovanni ghiselli



[1] Moravia, La Noia , Bompiani, Milano, 1984, p. 345.

[2] D. Buzzati, Un Amore , Mondadori, Milano, 1965, p. 250.

[3] L'uomo e il divino pp. 258 - 259.

[4] M. Zambrano, L'uomo e il divino p. 264.[5] Epist. 60, 4.

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