Stralcio dal percorso preparato per il convegno “Filosofi
lungo l’Oglio”.Oglio
Tema del convegno: Essere
umani
Esporrò la mia lectio il 20 ottobre a
Erbusco (Brescia) dalle 21 alle 22
Titolo della lectio: Essere
umani significa amare l’umanità.
Umanesimo è amore degli esseri umani
L'amore maturo significa
un'uscita dalla gelosia e dalla possessività cui subentrano il “rispetto” Anche
questo è umanesimo
Ovidio adotta poi ripudia l’odi
et amo di Catullo.
Il Sulmonese dunque negli Amores scrive:
"Odi,
nec possum cupiens non esse quod odi " (II, 4, 5) odio e non
posso non desiderare quello che odio.
Nei successivi Remedia
amoris però il poeta di Sulmona rinnega questo atteggiamento tipico di
anime poco fini: "sed
modo dilectam scelus est odisse puellam;/exitus ingeniis convenit iste feris./
Non curare sat est ; odio
qui finit amorem,/aut amat aut aegre desinet esse miser " (vv.
655 - 658), ma è un delitto odiare una ragazza amata fino a poco tempo
prima;/una conclusione del genere si addice ad animi rozzi./Basta non
curarsene; chi vuole finire l'amore con l'odio/o ama o con fatica smetterà di
essere disgraziato.
Su questo poemetto
torneremo, a lungo, tra poco, nella prossima stazione.
Alla fine dell'amore di
Swann troviamo un suggerimento per la guarigione. Vediamo:" appena
Swann se la poteva raffigurare senza orrore, appena rivedeva bontà nel suo
sorriso (...) il suo amore ridiventava soprattutto un gusto delle sensazioni
dategli dalla persona di Odette, del piacere che provava nell'ammirare come uno
spettacolo o nell'interrogare come un fenomeno, l'alzarsi di uno sguardo, il
formarsi d'un suo sorriso, l'emissione d'un tono di voce" (Proust, Dalla
parte di Swann, p. 322).
Amare una persona dunque
significa osservarla senza la pretesa di cambiarla, rispettarla, osservarla
come si può fare con un paesaggio o un tramonto.
Una soluzione del genere si
trova pure in La
Noia di Moravia:
"insomma, lei non volevo più possederla bensì guardarla vivere, così
com'era, cioè contemplarla, allo stesso modo che contemplavo l'albero
attraverso i vetri della finestra"[1].
Anche il protagonista di Un
Amore di Buzzati arriva
alla comprensione e alla compassione per la ragazza che l'aveva fatto soffrire,
quando c’erano stati dei conflitti tra loro, osservandola sine
ira et studio :" dal sonno di lei così abbandonato e confidente
viene a lui un senso di pietà e di pace, una specie di invisibile carezza"[2].
La Zambrano suggerisce
di uscire dalla caverna del proprio io per il superamento dell'amore come
invidia dell'altro. "ben presto nell'amore l'altro si trasforma in uno.
L'invidia, invece, conserva ostinatamente l'alterità dell'altro, senza
permettergli di raggiungere la purezza dell'uno. E mantenendo l'altro,
l'avidità aumenta sino alla frenesia (…) la differenza tra l'invidia e l'amore
sembra trovarsi nella visione: l'amore vede l'altro come uno; l'invidia vede
ciò che potrebbe essere uno come l'altro (…) L'invidioso, che sembra vivere
fuori di sé, è un individuo immerso nel proprio intimo: invidere,
già nella sua composizione, dichiara il dentro che c'è in quel guardare
l'altro. Guardare e vedere un altro non fuori, non dove l'altro sta realmente,
ma in un dentro abissale, un dentro allucinato che si confonde con la
solitudine, dove non trova il segreto che ci fa sentire noi stessi"[3].
L'invidia si supera
trovando la propria identità: "se cerchiamo l'identità di essere qualcuno
al di sopra e al di là di quello che ci accade e di quello che viviamo, allora
non potrà nascere l'invidia. Perché l'invidia è passione dell'altro, passione
dell'identità dell'altro, passione della libertà dell'altro, nella propria
vacillante unità e libertà"[4]. Invidere è
guardare di malocchio.
Umanesimo e pietas.
La publica salus deve importare
al re assolutamente. Nell'Edipo
re il figlio di Laio dice: "ma se ho salvato questa città, non mi
importa" (v. 443). Qui sta la sua grandezza e questo è il significato più
vero e utile della tragedia sofoclea: l'impiego del dolore per il vantaggio, la
bellezza, la salvezza propria e della comunità. Chi riesce a fare questo è un
uomo, e chi assiste alla metamorfosi del pavqo" in mavqo" diventa
migliore. Il poeta scrive per tale risultato che dà senso alle sue parole e
alle danze del coro. Sofocle asserisce che il compito del drammaturgo è condurre
chi ascolta e vede le tragedie a una visione religiosa dell’esistenza: Edipo e
Giocasta in una fase dell’Edipo
re sono i rappresentanti di quel pensiero laico - sofistico cui
Sofocle si oppone con tutta la sua produzione poetica, e più che mai con questo
dramma, dove il coro, portavoce dell'autore, durante il secondo stasimo,
domanda: "Se infatti tali azioni sono onorate,/ perché devo eseguire la
danza sacra?"(vv.895 - 896). Se gli oracoli vanno in malora e Apollo è
dimenticato, tutti gli dei tramontano (v.910); allora la stessa
rappresentazione tragica, che fa parte della liturgia religiosa, perde ogni
significato e diviene assurda.
La formulazione latina del
dovere di adoperarsi per gli altri si trova in un'epistola di Seneca: "Vivit
is qui multis usui est, vivit is qui se utitur "[5],
vive chi si rende utile a molti, vive chi si adopera.
Bologna 14 ottobre 2020 ore 20,05
giovanni ghiselli
[1] Moravia, La
Noia , Bompiani, Milano, 1984, p. 345.
[2] D. Buzzati, Un
Amore , Mondadori, Milano, 1965, p. 250.
[3] L'uomo e il divino pp. 258
- 259.
[4] M. Zambrano, L'uomo e il divino p. 264.[5] Epist. 60, 4.
Nessun commento:
Posta un commento