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Argomento
La disumanità del padre padrone. Ancora su l’ Arbitrato di
Menandro
Sempre per
quanto riguarda la comprensione e la commedia di Menando, è interessante quello
che dice la giovane sposa Panfile al padre Smicrine:
"se non riesci a persuadermi mentre mi vuoi
salvare
potresti essere giudicato un padrone invece che un padre (oukevti path;r
krivnoi j ajlla; despovth")"(L’arbitrato, 510 - 511).
Un'affermazione
moderna che ha avuto un seguito fino ai nostri giorni (penso al libro di G.
Ledda, e al film derivatone, Padre padrone) ed ha un riscontro
puntuale in Terenzio che
negli Adelphoe fa dire al buon educatore Micione:
"Hoc
patriumst, potiu' consuefacere filium
sua sponte
recte facere quam alieno metu:
hoc pater ac dominus interest. Hoc qui nequit
fateatur nescire
imperare liberis "(74
- 77), questo è dovere del padre, abituare il figlio a comportarsi bene per
volontà sua piuttosto che per paura degli altri: in questo il padre differisce
dal padrone. Chi non sa fare questo, ammetta di non saper guidare i figlioli.
“Si richiede
tatto psicologico non solo nei confronti del prossimo, ma anche verso stessi.
Nella commedia più delicata e più bella di Menandro, gli Epitrepontes, il cui intreccio può
essere in qualche modo ricostruito, tutto si svolge in modo che infine un
giovane si renda conto del misfatto che ha commesso. Ubriaco, ha usato violenza
a una fanciulla che poi sposa senza sapere di averla già incontrata. Quando
nasce un figlio prima del tempo, com’egli crede, si adira contro la moglie
finché deve scoprire che l’unica persona meritevole della sua indignazione
morale è lui stesso. Come Admeto in Euripide, Carisio acquista coscienza della
propria situazione e riconosce che le sue grosse parole non erano altro che
parole. Così osserva a suo modo l’antico ammonimento delfico: conosci te
stesso. Ma non è un Tantalo che nella sua hybris selvaggia ha
ignorato il confine tra potere umano e divino, né un Edipo, che confidava
troppo nel proprio sapere, e neppure un Admeto, che non riconosceva un
imperativo a lui posto: è un giovane
borghese innocuo che senza un proposito, senza un’idea, a anzi senza vera
coscienza, essendo ubriaco, è caduto vittima della debolezza umana. La
grandezza di Menandro sta nello sviluppare caratteri umani, con le loro
reazioni psicologiche, da temi così inconsistenti (…) i poeti più antichi erano
spinti a comporre da motivi di contenuto: conservare vivo il ricordo di grandi
gesta, scoprire una verità, indagare la virtù ecc (…) Dopo l’intermezzo
democratico, con la fioritura ateniese della tragedia e della commedia, i poeti dovevano di nuovo dimostrare il loro
talento alle corti dei monarchi (…) E come Menandro essi rinunciano al pathos, ai programmi morali,
all’impegno politico, e osservano con sorridente comprensione il
comportamento degli uomini”[1].
[1] B. Snell, Poesia e società,
pp. 156 - 157.
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