giovedì 15 ottobre 2020

"Filosofi lungo l'Oglio" XI

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Argomento

La disumanità del padre padrone. Ancora su l’ Arbitrato di Menandro

 

Sempre per quanto riguarda la comprensione e la commedia di Menando, è interessante quello che dice la giovane sposa Panfile al padre Smicrine:

"se non riesci a persuadermi mentre mi vuoi salvare

potresti essere giudicato un padrone invece che un padre (oukevti path;r krivnoi j ajlla; despovth")"(L’arbitrato, 510 - 511).

 

 Un'affermazione moderna che ha avuto un seguito fino ai nostri giorni (penso al libro di G. Ledda, e al film derivatone, Padre padrone) ed ha un riscontro puntuale in Terenzio che negli Adelphoe fa dire al buon educatore Micione:

"Hoc patriumst, potiu' consuefacere filium

sua sponte recte facere quam alieno metu:

hoc pater ac dominus interest. Hoc qui nequit

fateatur nescire imperare liberis "(74 - 77), questo è dovere del padre, abituare il figlio a comportarsi bene per volontà sua piuttosto che per paura degli altri: in questo il padre differisce dal padrone. Chi non sa fare questo, ammetta di non saper guidare i figlioli.

 

“Si richiede tatto psicologico non solo nei confronti del prossimo, ma anche verso stessi. Nella commedia più delicata e più bella di Menandro, gli Epitrepontes, il cui intreccio può essere in qualche modo ricostruito, tutto si svolge in modo che infine un giovane si renda conto del misfatto che ha commesso. Ubriaco, ha usato violenza a una fanciulla che poi sposa senza sapere di averla già incontrata. Quando nasce un figlio prima del tempo, com’egli crede, si adira contro la moglie finché deve scoprire che l’unica persona meritevole della sua indignazione morale è lui stesso. Come Admeto in Euripide, Carisio acquista coscienza della propria situazione e riconosce che le sue grosse parole non erano altro che parole. Così osserva a suo modo l’antico ammonimento delfico: conosci te stesso. Ma non è un Tantalo che nella sua hybris selvaggia ha ignorato il confine tra potere umano e divino, né un Edipo, che confidava troppo nel proprio sapere, e neppure un Admeto, che non riconosceva un imperativo a lui posto: è un giovane borghese innocuo che senza un proposito, senza un’idea, a anzi senza vera coscienza, essendo ubriaco, è caduto vittima della debolezza umana. La grandezza di Menandro sta nello sviluppare caratteri umani, con le loro reazioni psicologiche, da temi così inconsistenti (…) i poeti più antichi erano spinti a comporre da motivi di contenuto: conservare vivo il ricordo di grandi gesta, scoprire una verità, indagare la virtù ecc (…) Dopo l’intermezzo democratico, con la fioritura ateniese della tragedia e della commedia, i poeti dovevano di nuovo dimostrare il loro talento alle corti dei monarchi (…) E come Menandro essi rinunciano al pathos, ai programmi morali, all’impegno politico, e osservano con sorridente comprensione il comportamento degli uomini”[1].



[1] B. Snell, Poesia e società, pp. 156 - 157.

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