NUOVE DATE alla Biblioteca «Ginzburg»: Protagonisti della storia antica

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venerdì 30 ottobre 2020

Kafka, "Il processo". Capitolo IX. Nel duomo

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Argomenti

La presenza cronica del buio nei romanzi di Kafka. Viceversa: il culto del Sole.

K ascolta il cappellano delle carceri che, dal pulpito del duomo, racconta la parabola dell’uomo di campagna davanti alla porta della legge.

Ho commentato questo racconto con il mito di Er della Repubblica di Platone e con diversi testi di altri autori.

L’antitesi di questa storia del proprio destino mancato è la prescrizione di Pindaro: “Diventa quello che sei!”

 

K deve mostrare il duomo della città a un cliente italiano della banca, un uomo dai folti baffi corvini.

Il corvo è un uccello sinistramente ominoso.

Ma i baffi erano pure profumati, sicché veniva quasi voglia di avvicinarsi ad annusarli (210). Velato segno di una possibile omosessualità.

Questo parla con K che capisce poco perché il cliente turista parla in dialetto, un idioma del sud. Prendono comunque un accordo. Quindi il cliente esce.

Leni telefona a K dicendo che gli danno la caccia.

K si avvia al duomo. La piazza antistante era buia, fredda, umida e vuota.

La mancanza di luce e di calore è il correlativo atmosferico della mente e del cuore dei personaggi di Kafka.

 

Il culto del Sole in Platone. Ricordo e rimpianto di Carlo Flamigni

Alla moda attuale calunniatrice del caldo presentato come foriero di mali rispondo, da adoratore del Sole, che la nostra stella favorisce la vita. Tra giugno e luglio al culmine della sua altezza e potenza nel nostro emisfero aveva fatto retrocedere il virus.

 

Nel romanzo Il processo di Kafka non si vede mai il sole

Questa assenza del sole che è nel visibile quello che è Dio nell’intelligibile è l’impossibilità di vedere il Bene.

Dobbiamo dunque considerare il Sole figlio del Bene to;n tou' ajgaqou' e[gkonon, che il Bene generò analogo a se stesso o{n tajgaqo;n ejgevnnhsen ajnavlogon eJautw'/, e quello che è il Bene ejn tw'/ nohtw'/ nell’intelligibile, è il sole ejn tw'/ oJratw'/, nel visibile (Platone, Repubblica 508b. 

 

L’idea del Bene conferisce verità alle cose ed è causa di conoscenza e di verità.

 Chi non vede il Sole non vede il Bene, che è il mevgiston mavqhma, la massima scienza. Questa è dunque è hJ tou' ajgaqou' ijdeva l’idea, la visione del Bene, Dio stesso che si rende visibile nel Sole (Platone, Repubblica, 505). Quanti possiedono tutta l’erudizione del mondo ma non hanno la visione e la conoscenza del Bene che avvalora tutti i saperi, ebbene costoro sanno molte cose ma le sanno tutte male.

Cfr. Alcibiade II di Platone.

 

Fece una citazione di questo dialogo il compianto Carlo Flamigni la notte del Capodanno 2019, a casa di un amico comune.

Gli avevo domandato, conoscendo la sua bella carriera e competenza scientifica, se la medicina fosse una scienza esatta. Mi rispose che non è nemmeno una scienza.

Quindi mi citò queste parole: poll¦ mn ºp…stato

œrgakakîj dšfhs…nºp…stato p£nta.

 

Gliele seppi tradurre, naturalmente, ma non fui capace di contestualizzarle. Fu lui, da umanista di alta levatura quale era, a indirizzarmi sull’Alcibiade II. Arrivato a casa molto tardi andai a vedermi questo dialogo che colpevolmente non conoscevo.

 

Ricordo questo episodio per affetto e gratitudine all’amico che mi manca come presenza fisica ma è rimasto nei miei pensieri e credo che mi aiuti ancora. Ne sono sicuro. Mi è stato appena rinnovato l’invito al prestigioso festival dei Filosofi lungo l’Oglio.

SW`Or´j oânÓte gœfhn kinduneÚein tÒ ge tîn ¥llwn

™pisthmîn ktÁma™£n tij ¥neu tÁj toà belt…stou ™pist»mhj

kekthmšnoj ÏÑlig£kij mn çfele‹nbl£ptein d t¦ ple…w

tÕn œconta aÙtÒ«roÙcˆ tù Ônti Ñrqîj ™fainÒmhn lšgwn;

vedi dunque, dice Socrate ad Alcibiade: quando dicevo che il possesso delle altre scienze se uno non possiede la scienza di quanto è ottimo (l'idea del Bene), di rado giova, mentre per lo più danneggia chi ce l'ha, non ti sembra che io parlavo dicendo quanto è sostanzialmente corretto? 

Alcibiade dà ragione a Socrate il quale aggiunge

Ð d d¾ t¾n kaloumšnhn polumaq…an te kaˆ polutecn…an

kekthmšnojÑrfanÕj d ín taÚthj tÁj ™pist»mhj¢gÒ -

menoj d ØpÕ mi©j ˜k£sthj tîn ¥llwn«roÙcˆ tù Ônti

dika…wj pollù ceimîni cr»setai¤te omai ¥neu kubern»tou

diatelîn ™n pel£geicrÒnon oÙ makrÕn b…ou qšwn; éste

sumba…nein moi doke‹ kaˆ ™ntaàqa tÕ toà poihtoàÖ lšgei

kathgorîn poÚ tinojæj ¥ra poll¦ mn ºp…stato

œrgakakîj dšfhs…nºp…stato p£nta. (Alcibiade secondo, 147b)

 e chi possiede la cosiddetta conoscenza enciclopedica e politecnica , ma sia privo di questa scienza (del Bene), e venga spinto da ciascuna delle altre, non farà uso sostanzialmente di una grande tempesta senza un nocchiero, continuando a correre sul mare, non a lungo del resto? Sicché mi sembra che anche qui capiti a proposito quello che dice il poeta criticando uno che effettivamente sapeva molte cose ma le sapeva tutte male 

 

K dunque entra nel Duomo che, pure, era vuoto. Si fece vivo un sacrestano zoppo. Faceva cenni con la mano e il capo. - che cosa vuole costui? Vorrà una mancia? Si domandò K (214). Stava per porgergli delle monete ma l’inserviente fece un gesto di rifiuto, si strinse sulle spalle e si allontanò zoppicando. Quell’affrettato arrancare fece venire in mente a K quando da ragazzo cercava di imitare chi cavalcava.

Nella letteratura greca la zoppia caratterizza il tiranno: la tirannide è una monarchia claudicante.

“Puerile quel vecchio - pensò - La sua intelligenza basta appena per il servizio in chiesa”.

K vede tutto in termini di posizione e potere sociale.

Il sacrestano gli indica qualche cosa, fa un segno.

 

 I segni devono essere capiti: “generatio mala et adultera signum quaerit; et signum non dabitur ei, nisi signum Ionae prrophetae. Et relictis illis, abiit” (N. T. Matteo, 16, 4). Chi non li capisce è fuori dal Bene e dalla Grazia.

K comunque pensò che il sacrestano poteva tornargli utile se l’italiano fosse arrivato. C’è sempre la ricerca del sumfevron.

 

Si vide un sacerdote passare e salre sul pulpito. Chiamò Josef K e gli domandò: “sei tu K?” . Il prete disse di essere il cappellano della prigione.

“Lo sai che il tuo processo va male?” fece. “Ti considerano colpevole”

K rispose: “come è possibile che un uomo sia colpevole? Qui siamo tutti uomini, l’uno come l’altro”.

“Giusto confermò il prete, ma così parlano solo i colpevoli!”

Che cosa intendi fare ancora per la tua causa?”

“Andrò ancora a cercare aiuto - rispose K, ci sono ancora troppe possibilità che non ho sfruttato”

“Cerchi troppi aiuti altrui” disse il sacerdote disapprovando - specialmente ta le donne. Non ti accorgi che questo non è il vero aiuto”.218

K obietta che le donne sono molto potenti. “Specialmente in questo tribunale che è quasi tutto composto di donnaioli”. 219

Un tribunale del genere si trova nel romanzo Resurrezione di Tolstoj.

 

“Ma non vedi niente, gridò il prete - non vedi a due passi davanti a te?”

Era il grido di un uomo che vede precipitare un altro e urla per lo spavento.

Segue la storia del guardiano che non fa entrare un uomo di campagna per la porta della legge. 

 E’ questa una parabola con un paraklausivquron anomalo, quasi rovesciato: si tratta infatti di un'attesa ansiosa e querula davanti a una porta aperta, quella della legge, aperta proprio per colui che attende ma non ha il coraggio di entrare.

 Il cappellano delle carceri dunque racconta: "Davanti alla legge c'è un guardiano. A lui viene un uomo di campagna e chiede di entrare nella legge. Ma il guardiano dice che ora non gli può concedere di entrare. L'uomo riflette e chiede se almeno potrà entrare più tardi. "Può darsi" risponde il guardiano, "ma per ora no". Siccome la porta che conduce alla legge è aperta come sempre e il custode si fa da parte, l'uomo si china per dare un'occhiata nell'interno. Il guardiano, quando se ne accorge, si mette a ridere:"Se ne hai tanta voglia, prova pure a entrare nonostante la mia proibizione. Bada, però: io sono potente, e sono soltanto l'infimo dei guardiani. Davanti a ogni sala sta un guardiano, uno più potente dell'altro. Già la vista del terzo non riesco a sopportarla nemmeno io".

L'uomo di campagna non aspettava tali difficoltà; la legge, pensa, dovrebbe pur essere accessibile a tutti e sempre, ma a guardar bene il guardiano avvolto nel cappotto di pelliccia, il suo lungo naso a punta, la lunga barba tartara, nera e rada, decide di attendere piuttosto finché non abbia ottenuto il permesso di entrare. Il guardiano gli dà uno sgabello e lo fa sedere di fianco alla porta. Là rimane seduto per giorni e anni. Fa numerosi tentativi verbali per passare e stanca il guardiano con le sue richieste. Il guardiano istituisce più volte brevi interrogatori, gli chiede notizie della sua patria e di molte altre cose, ma sono domande prive di interesse come le fanno i gran signori, e alla fine gli ripete sempre che non può farlo entrare. L'uomo, che per il viaggio si è provveduto di molte cose, dà fondo a tutto per quanto prezioso sia, tentando di corrompere il guardiano. Questi accetta ogni cosa, ma osserva: "Lo accetto soltanto perché tu non creda di aver trascurato qualcosa". Durante tutti quegli anni l'uomo osserva il guardiano quasi senza interruzione. Dimentica gli altri guardiani e solo il primo gli sembra l'unico ostacolo all'ingresso nella legge. Egli maledice il caso disgraziato, nei primi anni ad alta voce, poi quando invecchia si limita a brontolare tra sé. Rimbambisce e, siccome studiando per anni il guardiano, conosce ormai anche le pulci nel suo bavero di pelliccia, implora anche queste di aiutarlo e di far cambiare opinione al guardiano. Infine il lume degli occhi gli si indebolisce ed egli non sa se veramente fa più buio intorno a lui o se soltanto gli occhi lo ingannano. Ma ancora distingue nell'oscurità uno splendore che erompe inestinguibile dalla porta della legge. Ormai non vive più a lungo. Prima di morire, tutte le esperienze di quel tempo si condensano nella sua testa in una domanda che finora non ha rivolto al guardiano. Gli fa un cenno poiché non può più ergere il corpo che si sta irrigidendo. Il guardiano è costretto a piegarsi profondamente verso di lui, poiché la differenza di statura è mutata molto a sfavore dell'uomo di campagna. "Che cosa vuoi sapere ancora?" chiede il guardiano, "sei insaziabile". L'uomo risponde:"Tutti tendono verso la legge, come mai in tutti questi anni nessun altro ha chiesto di entrare?". Il guardiano si rende conto che l'uomo è giunto alla fine e per farsi intendere ancora da quelle orecchie che stanno per diventare insensibili, grida:"Nessun altro poteva entrare qui perché questo ingresso era destinato soltanto a te. Ora vado a chiuderlo"[1].

Identico è il di Kafka Davanti alla Legge.

 

 "Nella natura nessuna creatura è più squallida e ripugnante dell'uomo che è sfuggito al suo genio e adesso sbircia a destra e a sinistra, indietro e ovunque. Alla fine non è più lecito attaccare un tal uomo, perché egli è tutto esteriorità senza nocciolo, una veste logora, tinta, rigonfia, uno spettro agghindato, che non può suscitare paura e certo neppure compassione"[2].

Cfr. il mito di Er nella Repubblica di Platone

 

Excursus

Il mito di Er. La scelta del destino

  

Voglio rivedere e illustrare questo mito che mi sta molto a cuore poiché insegna che dobbiamo restare fedeli al nostro carattere una volta che l’abbiamo scelto, ossia individuato tra le varie possibilità.

 

Er, Panfilio di stirpe, era morto in guerra, ma al dodicesimo giorno, quando si trovava già sulla pira, tornò in vita e raccontò quello che aveva visto nell’aldilà (Platone, Repubblica, 614b).

Er disse che l’anima, quando esce dal corpo, si incammina, con molte altre, verso un luogo soprannaturale eij~ tovpon tina; daimovnion , un prato, dove ci sono due voragini (cavsmata. 614c) contigue, nella terra, e altre due nel cielo di fronte, in alto.

In mezzo a queste aperture siedono dei giudici i quali ordinano ai giusti di procedere in alto a destra attraverso il cielo (eij~ dexiavn te kai; a[nw dia; tou` oujranou`) e agli ingiusti di precipitare in basso a sinistra.

A Er i giudici dissero che doveva osservare e divenire nunzio agli uomini delle cose dell’aldilà (a[ggelon ajnqrwvpoi~ genevsqai tw`n ejkei`, 614d).

 

Er dunque vedeva parte delle anime giudicate che salivano verso il cielo per una delle due voragini volte in alto, parte scendevano nella terra attraverso la voragine aperta verso il basso, mentre dalle altre due aperture contigue scendevano dall’alto anime pure, e salivano dal basso anime piene di lordura e di polvere (ejk th`~ gh`~ mesta;~ aujcmou` te kai; kovnew~).

 

Le anime giunte sul prato (eij~ to;n leimw`na, 614e) vi si attendavano come per un consesso festoso e si salutavano, quante si conoscevano.

 

Quelle che venivano da sotto terra rievocavano piangendo il loro viaggio ipogeo di mille anni (ei\nai de; th;n poreivan cilievth, 615).

Quelle che venivano dal cielo invece facevano un racconto di delizie e di spettacoli straordinari per la bellezza (eujpaqeiva~ dihgei`sqai kai; qeva~ ajmhcavnou~ to; kavllo~).

 

I puniti raccontavano che di ogni ingiustizia avevano pagato il fio dieci volte tanto, ossia avevano subito dolori dieci volte maggiori di quelli inflitti, e i premiati corrispettivamente ricordavano che pure i benefici erano stati ricompensati in misura dieci volte maggiore.

Più grandi erano le retribuzioni per l’empietà e la pietà verso gli dèi e i genitori e per le uccisioni di propria mano.

Un esempio negativo molto evidente di cui Er aveva sentito dire era quello del grande criminale Ardieo ( jArdiai`o~ oJ mevga~, 615 c). Costui era diventato tiranno in una città della Pamfilia, mille anni prima, e aveva ucciso padre, fratello, non senza molte altre scelleratezze. Chi l’aveva incontrato disse che quell’orribile criminale non sarebbe mai arrivato nel prato del consesso festoso. Infatti era uno di quelli così inguaribilmente malvagi (ti~ tw`n ou{tw~ ajniavtw~ ejcovntwn eij~ ponhrivan, 615c) che non potevano risalire. La maggior parte di questi incurabili erano tiranni. Quando si avvicinavano alla bocca d’uscita, questa emetteva un muggito (ejmuka`to).


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[1]F. Kafka, Il processo (1914 - 1915) , IX capitolo, pp. 220 - 221.

[2] F. Nietzsche, Considerazioni inattuali III, Schopenhauer come educatore, p. 166.

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