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Argomenti
La presenza cronica del buio nei
romanzi di Kafka. Viceversa: il culto del Sole.
K ascolta il cappellano delle
carceri che, dal pulpito del duomo, racconta la parabola dell’uomo di campagna
davanti alla porta della legge.
Ho commentato questo racconto con il
mito di Er della Repubblica di Platone e con diversi testi di
altri autori.
L’antitesi di questa storia del
proprio destino mancato è la prescrizione di Pindaro: “Diventa quello che sei!”
K deve mostrare il duomo della città
a un cliente italiano della banca, un uomo dai folti baffi corvini.
Il corvo è un uccello sinistramente
ominoso.
Ma i baffi erano pure profumati,
sicché veniva quasi voglia di avvicinarsi ad annusarli (210). Velato segno
di una possibile omosessualità.
Questo parla con K che capisce poco
perché il cliente turista parla in dialetto, un idioma del sud. Prendono
comunque un accordo. Quindi il cliente esce.
Leni telefona a K dicendo che gli
danno la caccia.
K si avvia al duomo. La piazza
antistante era buia, fredda, umida e vuota.
La mancanza di luce e di calore è il
correlativo atmosferico della mente e del cuore dei personaggi di Kafka.
Il culto del Sole in Platone.
Ricordo e rimpianto di Carlo Flamigni
Alla moda attuale calunniatrice del
caldo presentato come foriero di mali rispondo, da adoratore del Sole, che la
nostra stella favorisce la vita. Tra giugno e luglio al culmine della sua
altezza e potenza nel nostro emisfero aveva fatto retrocedere il virus.
Nel romanzo Il processo di
Kafka non si vede mai il sole
Questa assenza del sole che è nel
visibile quello che è Dio nell’intelligibile è l’impossibilità di vedere il
Bene.
Dobbiamo dunque considerare il Sole figlio
del Bene to;n tou' ajgaqou' e[gkonon, che il Bene generò analogo a se stesso o{n tajgaqo;n
ejgevnnhsen ajnavlogon eJautw'/, e quello che è il Bene ejn tw'/ nohtw'/ nell’intelligibile, è il
sole ejn tw'/ oJratw'/, nel visibile (Platone, Repubblica 508b.
L’idea del Bene conferisce verità
alle cose ed è causa di conoscenza e di verità.
Chi non vede il Sole non vede
il Bene, che è il mevgiston mavqhma, la massima scienza. Questa è dunque è hJ tou'
ajgaqou' ijdeva l’idea, la visione del Bene, Dio stesso che
si rende visibile nel Sole (Platone, Repubblica, 505). Quanti possiedono tutta
l’erudizione del mondo ma non hanno la visione e la conoscenza del Bene che
avvalora tutti i saperi, ebbene costoro sanno molte cose ma le sanno tutte
male.
Cfr. Alcibiade II di
Platone.
Fece una citazione di questo dialogo
il compianto Carlo Flamigni la notte del Capodanno 2019, a casa di un amico
comune.
Gli avevo domandato, conoscendo la
sua bella carriera e competenza scientifica, se la medicina fosse una scienza
esatta. Mi rispose che non è nemmeno una scienza.
Quindi mi citò queste parole: poll¦ mn
ºp…stato
œrga, kakîj dš, fhs…n, ºp…stato p£nta.
Gliele seppi tradurre, naturalmente,
ma non fui capace di contestualizzarle. Fu lui, da umanista di alta levatura
quale era, a indirizzarmi sull’Alcibiade II. Arrivato a casa
molto tardi andai a vedermi questo dialogo che colpevolmente non conoscevo.
Ricordo questo episodio per affetto
e gratitudine all’amico che mi manca come presenza fisica ma è rimasto nei miei
pensieri e credo che mi aiuti ancora. Ne sono sicuro. Mi è stato appena
rinnovato l’invito al prestigioso festival dei Filosofi lungo l’Oglio.
SW. `Or´j oân, Óte g' œfhn
kinduneÚein tÒ ge tîn ¥llwn
™pisthmîn ktÁma, ™£n
tij ¥neu tÁj toà belt…stou ™pist»mhj
kekthmšnoj Ï, Ñlig£kij mn
çfele‹n, bl£ptein d t¦
ple…w
tÕn œconta aÙtÒ, «r' oÙcˆ tù Ônti
Ñrqîj ™fainÒmhn lšgwn;
vedi dunque, dice Socrate ad
Alcibiade: quando dicevo che il possesso delle altre scienze se
uno non possiede la scienza di quanto è ottimo (l'idea del Bene), di
rado giova, mentre per lo più danneggia chi ce l'ha, non ti sembra che
io parlavo dicendo quanto è sostanzialmente corretto?
Alcibiade dà ragione a Socrate il
quale aggiunge
Ð d d¾ t¾n kaloumšnhn polumaq…an te kaˆ polutecn…an
kekthmšnoj, ÑrfanÕj d ín taÚthj tÁj ™pist»mhj, ¢gÒ -
menoj d ØpÕ mi©j ˜k£sthj tîn ¥llwn, «r' oÙcˆ tù Ônti
dika…wj pollù ceimîni
cr»setai, ¤te omai ¥neu
kubern»tou
diatelîn ™n
pel£gei, crÒnon oÙ
makrÕn b…ou qšwn; éste
sumba…nein moi
doke‹ kaˆ ™ntaàqa tÕ toà poihtoà, Ö lšgei
kathgorîn poÚ
tinoj, æj ¥ra poll¦
mn ºp…stato
œrga, kakîj dš, fhs…n, ºp…stato p£nta. (Alcibiade secondo,
147b)
e chi possiede la cosiddetta
conoscenza enciclopedica e politecnica , ma sia privo di questa scienza (del
Bene), e venga spinto da ciascuna delle altre, non farà uso
sostanzialmente di una grande tempesta senza un nocchiero, continuando a correre
sul mare, non a lungo del resto? Sicché mi sembra che anche qui capiti a
proposito quello che dice il poeta criticando uno che effettivamente sapeva molte
cose ma le sapeva tutte male
K dunque entra nel Duomo che, pure,
era vuoto. Si fece vivo un sacrestano zoppo. Faceva cenni con la mano e il
capo. - che cosa vuole costui? Vorrà una mancia? Si domandò K (214). Stava per
porgergli delle monete ma l’inserviente fece un gesto di rifiuto, si strinse
sulle spalle e si allontanò zoppicando. Quell’affrettato arrancare fece venire
in mente a K quando da ragazzo cercava di imitare chi cavalcava.
Nella letteratura greca la zoppia
caratterizza il tiranno: la tirannide è una monarchia claudicante.
“Puerile quel vecchio - pensò - La
sua intelligenza basta appena per il servizio in chiesa”.
K vede tutto in termini di posizione
e potere sociale.
Il sacrestano gli indica qualche
cosa, fa un segno.
I segni devono essere capiti:
“generatio mala et adultera signum quaerit; et signum non dabitur ei, nisi
signum Ionae prrophetae. Et relictis illis, abiit” (N. T. Matteo,
16, 4). Chi non li capisce è fuori dal Bene e dalla Grazia.
K comunque pensò che il sacrestano
poteva tornargli utile se l’italiano fosse arrivato. C’è sempre la ricerca
del sumfevron.
Si vide un sacerdote passare e salre
sul pulpito. Chiamò Josef K e gli domandò: “sei tu K?” . Il prete disse di
essere il cappellano della prigione.
“Lo sai che il tuo processo va
male?” fece. “Ti considerano colpevole”
K rispose: “come è possibile che un
uomo sia colpevole? Qui siamo tutti uomini, l’uno come l’altro”.
“Giusto confermò il prete, ma così
parlano solo i colpevoli!”
Che cosa intendi fare ancora per la
tua causa?”
“Andrò ancora a cercare aiuto - rispose
K, ci sono ancora troppe possibilità che non ho sfruttato”
“Cerchi troppi aiuti altrui” disse
il sacerdote disapprovando - specialmente ta le donne. Non ti accorgi che
questo non è il vero aiuto”.218
K obietta che le donne sono molto
potenti. “Specialmente in questo tribunale che è quasi tutto composto di
donnaioli”. 219
Un tribunale del genere si trova nel
romanzo Resurrezione di Tolstoj.
“Ma non vedi niente, gridò il prete
- non vedi a due passi davanti a te?”
Era il grido di un uomo che vede
precipitare un altro e urla per lo spavento.
Segue la storia del guardiano che
non fa entrare un uomo di campagna per la porta della legge.
E’ questa una parabola con un paraklausivquron anomalo, quasi rovesciato: si tratta infatti di un'attesa ansiosa e
querula davanti a una porta aperta, quella della legge, aperta proprio per
colui che attende ma non ha il coraggio di entrare.
Il cappellano delle carceri dunque racconta: "Davanti alla legge
c'è un guardiano. A lui viene un uomo di campagna e chiede di entrare nella
legge. Ma il guardiano dice che ora non gli può concedere di entrare. L'uomo
riflette e chiede se almeno potrà entrare più tardi. "Può darsi" risponde
il guardiano, "ma per ora no". Siccome la porta che conduce alla
legge è aperta come sempre e il custode si fa da parte, l'uomo si china per
dare un'occhiata nell'interno. Il guardiano, quando se ne accorge, si mette a
ridere:"Se ne hai tanta voglia, prova pure a entrare nonostante la mia
proibizione. Bada, però: io sono potente, e sono soltanto l'infimo dei
guardiani. Davanti a ogni sala sta un guardiano, uno più potente dell'altro.
Già la vista del terzo non riesco a sopportarla nemmeno io".
L'uomo di campagna non aspettava tali difficoltà; la legge, pensa, dovrebbe
pur essere accessibile a tutti e sempre, ma a guardar bene il guardiano avvolto
nel cappotto di pelliccia, il suo lungo naso a punta, la lunga barba tartara,
nera e rada, decide di attendere piuttosto finché non abbia ottenuto il
permesso di entrare. Il guardiano gli dà uno sgabello e lo fa sedere di fianco
alla porta. Là rimane seduto per giorni e anni. Fa numerosi tentativi verbali
per passare e stanca il guardiano con le sue richieste. Il guardiano istituisce
più volte brevi interrogatori, gli chiede notizie della sua patria e di molte
altre cose, ma sono domande prive di interesse come le fanno i gran signori,
e alla fine gli ripete sempre che non può farlo entrare. L'uomo, che per
il viaggio si è provveduto di molte cose, dà fondo a tutto per quanto prezioso
sia, tentando di corrompere il guardiano. Questi accetta ogni cosa, ma osserva:
"Lo accetto soltanto perché tu non creda di aver trascurato
qualcosa". Durante tutti quegli anni l'uomo osserva il guardiano quasi
senza interruzione. Dimentica gli altri guardiani e solo il primo gli sembra
l'unico ostacolo all'ingresso nella legge. Egli maledice il caso disgraziato,
nei primi anni ad alta voce, poi quando invecchia si limita a brontolare tra
sé. Rimbambisce e, siccome studiando per anni il guardiano, conosce ormai
anche le pulci nel suo bavero di pelliccia, implora anche queste di
aiutarlo e di far cambiare opinione al guardiano. Infine il lume degli occhi
gli si indebolisce ed egli non sa se veramente fa più buio intorno a lui o se
soltanto gli occhi lo ingannano. Ma ancora distingue nell'oscurità uno
splendore che erompe inestinguibile dalla porta della legge. Ormai non vive più
a lungo. Prima di morire, tutte le esperienze di quel tempo si condensano nella
sua testa in una domanda che finora non ha rivolto al guardiano. Gli fa un
cenno poiché non può più ergere il corpo che si sta irrigidendo. Il guardiano è
costretto a piegarsi profondamente verso di lui, poiché la differenza di statura
è mutata molto a sfavore dell'uomo di campagna. "Che cosa vuoi sapere
ancora?" chiede il guardiano, "sei insaziabile". L'uomo
risponde:"Tutti tendono verso la legge, come mai in tutti questi anni
nessun altro ha chiesto di entrare?". Il guardiano si rende conto che
l'uomo è giunto alla fine e per farsi intendere ancora da quelle orecchie che
stanno per diventare insensibili, grida:"Nessun altro poteva entrare qui
perché questo ingresso era destinato soltanto a te. Ora vado a chiuderlo"[1].
Identico è il di Kafka Davanti alla Legge.
"Nella natura nessuna
creatura è più squallida e ripugnante dell'uomo che è sfuggito al suo genio e
adesso sbircia a destra e a sinistra, indietro e ovunque. Alla fine non è più
lecito attaccare un tal uomo, perché egli è tutto esteriorità senza nocciolo, una
veste logora, tinta, rigonfia, uno spettro agghindato, che non può suscitare
paura e certo neppure compassione"[2].
Cfr. il mito di Er nella Repubblica di
Platone
Excursus
Il mito di Er. La scelta del destino
Voglio rivedere e illustrare questo
mito che mi sta molto a cuore poiché insegna che dobbiamo restare fedeli al
nostro carattere una volta che l’abbiamo scelto, ossia individuato tra le varie
possibilità.
Er, Panfilio di stirpe, era morto in
guerra, ma al dodicesimo giorno, quando si trovava già sulla pira, tornò in
vita e raccontò quello che aveva visto nell’aldilà (Platone, Repubblica,
614b).
Er disse che l’anima, quando esce
dal corpo, si incammina, con molte altre, verso un luogo soprannaturale eij~ tovpon
tina; daimovnion , un prato, dove ci sono due
voragini (cavsmata. 614c) contigue, nella terra, e altre due nel cielo di
fronte, in alto.
In mezzo a queste aperture siedono
dei giudici i quali ordinano ai giusti di procedere in alto a destra attraverso
il cielo (eij~ dexiavn te kai; a[nw dia; tou` oujranou`) e agli ingiusti di precipitare in
basso a sinistra.
A Er i giudici dissero che doveva
osservare e divenire nunzio agli uomini delle cose dell’aldilà (a[ggelon
ajnqrwvpoi~ genevsqai tw`n ejkei`, 614d).
Er dunque vedeva parte delle anime
giudicate che salivano verso il cielo per una delle due voragini volte in alto,
parte scendevano nella terra attraverso la voragine aperta verso il basso,
mentre dalle altre due aperture contigue scendevano dall’alto anime pure, e
salivano dal basso anime piene di lordura e di polvere (ejk th`~ gh`~
mesta;~ aujcmou` te kai; kovnew~).
Le anime giunte sul prato (eij~ to;n
leimw`na, 614e) vi
si attendavano come per un consesso festoso e si salutavano, quante si
conoscevano.
Quelle che venivano da sotto terra
rievocavano piangendo il loro viaggio ipogeo di mille anni (ei\nai de; th;n
poreivan cilievth, 615).
Quelle che venivano dal cielo invece
facevano un racconto di delizie e di spettacoli straordinari per la bellezza (eujpaqeiva~
dihgei`sqai kai; qeva~ ajmhcavnou~ to; kavllo~).
I puniti raccontavano che di ogni
ingiustizia avevano pagato il fio dieci volte tanto, ossia avevano subito
dolori dieci volte maggiori di quelli inflitti, e i premiati corrispettivamente
ricordavano che pure i benefici erano stati ricompensati in misura dieci volte
maggiore.
Più grandi erano le retribuzioni per
l’empietà e la pietà verso gli dèi e i genitori e per le uccisioni di propria
mano.
Un esempio negativo molto evidente
di cui Er aveva sentito dire era quello del grande criminale Ardieo ( jArdiai`o~ oJ
mevga~, 615
c). Costui era diventato tiranno in una città della Pamfilia, mille anni prima,
e aveva ucciso padre, fratello, non senza molte altre scelleratezze. Chi
l’aveva incontrato disse che quell’orribile criminale non sarebbe mai arrivato
nel prato del consesso festoso. Infatti era uno di quelli così inguaribilmente
malvagi (ti~ tw`n ou{tw~ ajniavtw~ ejcovntwn eij~ ponhrivan, 615c) che non potevano risalire.
La maggior parte di questi incurabili erano tiranni. Quando si avvicinavano
alla bocca d’uscita, questa emetteva un muggito (ejmuka`to).
-----------------------------
[1]F. Kafka, Il processo (1914 - 1915)
, IX capitolo, pp. 220 - 221.
[2] F. Nietzsche, Considerazioni inattuali
III, Schopenhauer come educatore, p. 166.
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