Inferno - G. Stradano, Ruffiani e seduttori |
Argomento
Testimonianze di Dante, Ovidio, Stazio e Kierkegaard
Giasone dunque nel corso di questo
viaggio sedusse Issipile prima di Medea.
Dante mette questo antico don
Giovanni nella prima bolgia dell’VIII cerchio dove si trovano i seduttori e i
ruffiani. In fondo i seduttori sono ruffiani di se stessi.
Questi peccatori vengono frustati da
“demon cornuti con gran ferze,/che li battìen crudelmente di retro” (Inferno, XVIII,
35 - 36)
Virgilio lo presenta a Dante con
queste parole:
“mi disse: “Guarda quel grande che
vene,
e per dolor non par lagrima spanda
quanto aspetto reale ancor ritene!
(vv. 83 - 85).
il seduttore in genere è bello e
comunque i tanti successi avuti con le donne lo hanno reso sicuro di sé.
Ma procediamo con Dante:
“Quelli è Iasòn, che per cuore e per
senno
li Colchi del monton privati féne.
Ello passò per l’isola di Lemno,
poi che l’ardite femmine spietate
tutti li maschi loro a morte dienno.
Ivi con segni e con parole ornate
Isifile ingannò, la giovinetta
Che prima avea tutte l’altre
ingannate.
Lasciolla quivi, gravida, soletta;
tal colpa a tal martiro lui
condanna;
e anche di Medea si fa vendetta” (
vv. 86 - 96).
Il cuore e il senno, ossia il pathos
e il logos con le “parole ornate” ci dicono che Giasone non solo è bello e ha
lo stile noncurante tipico di chi ha avuto successo, ma sa pure parlare
seduttivamente.
Kierkegaard sostiene che “una
bellezza maschile, un aspetto lusinghevole eccetera, sono ottimi mezzi. Con
essi si può anche giungere a varie conquiste, ma non mai a una vittoria
completa. Perché? Perché con essi si porta guerra a una fanciulla nel suo stesso
campo, e proprio nel campo dove ella è sempre la più forte.
Con tali mezzi si può spingere una
fanciulla ad arrossire, ad abbassare gli occhi, ma mai si arriva a ingenerarle
quell’ansia soffocante e indescrivibile che rende interessante la bellezza” (Diario
del seduttore, p. 75).
Kierkegaard suggerisce che il
seduttore può anche non essere bello, citando un distico Ovidio nel Diario del seduttore [1]:
: "Non formosus erat, sed erat facundus Ulixes
et tamen aequoreas torsit amore deas "
(Ars amatoria II, 123 - 124)
bello non era,
ma era bravo a parlare Ulisse, e pure fece struggere d'amore le dee del mare.
Nei versi precedenti Ovidio
consiglia di imparare bene il latino e il greco, per potenziare lo spirito e
controbilanciare l'inevitabile decadimento fisico della vecchiaia:"Iam
molire animum qui duret, et adstrue formae:/solus ad extremos permanet ille
rogos./Nec levis ingenuas pectus coluisse per artes/cura sit et linguas
edidicisse duas" (Ars amatoria II, vv. 119 - 122), oramai
prepara il tuo spirito a durare, e aggiungilo all'aspetto: solo quello rimane
sino al rogo finale. E non sia leggero l'impegno di coltivare la mente
attraverso le arti liberali, e di imparare bene le due lingue.
Ovidio immagina una lettera Hypsipyle Iasoni
La donna abbandonata lamenta rinfaccia al suo ex amante di essere sparito
senza nemmeno mandarle una riga scritta da lui. Ella ha ricevuto notizie dei
successi di Giasone da altri, non dall’amante che l’ha lasciata. Ha saputo dei
tori domati, dei seminati uccisi e del vello d’oro sottratto al vigile drago.
Sa anche della - barbara venefica - (Heroides, VI, 21) Medea,
raccolta nella parte del letto promessa a me
Quindi il lamento di Hypsypile: “Heu! Ubi pacta fides? Ubi coniugalia
iura? (…) Non ego sum furto tibi cognita; pronuba Iuno” (vv. 43 e 45) dove
è la lealtà concordata? Dove i diitti coniugali? Non sono stata da te
conosciuta attraverso un adulterio: Giunone fu testimone del fidanzamento e
Imeneo, ma poi la tristis Erīnys sanguinolenta praetulit infaustas
faces ( 47 - 48).
Giasone potrebbe ribattere citando Kierkegaard: “Di tutte le cose ridicole
è dunque il fidanzamento la più ridicola. Il matrimonio ha pure un senso, anche
se questo senso a me risulta fastidioso. Il didanzamento è una pura invenzione
dell’uomo e certamente non fa onore al suo inventore. Non è né carne né pesce,
e sta all’amore come l’uniforme del bidello sta alla cattedra professorale” (Diario
del seduttore, 3 agosto).
Torniamo al lamento di Issipile come lo racconta Ovidio
Giasone partendo aveva promesso:
“vir tuus hinc abeo, vir tibi semper ero” (Heroides, VI, 62)
Giasone disse anche di volere il figlio che aspettavano pur se lui
piangeva dare vela coactus (59) costretto a partire
“Quod tamen e nobis gravida celatur in alvo,
vivat, et eiusdem simus
uterque parens” (63 - 64).
Intanto lacrime scendevano sul suo volto ingannevole
Ipsipile sale su una torre per vedere l’orizzone e piange per
lacrimas specto (73). Anche Odisseo piangeva guardando il mare ma lui
perché Calipso non gli piaceva più e lo costringeva a rimanere nell’isola di
lei. Invece Issipile piange siccome Giasone è scappato lasciandola sola
nell’isola.
Poi l’abbandonata menziona gli atti di Medea, la strega nemica della vita:
il mostro che cerca di tirare giù dal cielo la luna riluttante, erra tra le
tombe e raccoglie le ossa tra i roghi. Compie fatture infilando aghi miserum
in iecur nel misero fegato di simulacri di cera. Scelleratamente cerca
per sé l’amore con erbe invece che con la virtù e la bellezza come sarebbe
doveroso moribus et forma conciliandus amor (96)
Non ti approva tua madre Alcimède, continua Issipile, né a tuo padre va
bene a gelido axe nurus una nuora boreale.
Tu sei mobilis vernaque incertior aura (111)
Ipsipile ricorda la propria stirpe: figlia di Toante, nipote di Minosse e
discendente da Bacco. Ho messo al mondo due gemelli che riproducono le tue
fattezze. Li ho mandati da te ma la saeva noverca non li ha
fatti arrivare. Anzi Medea è plus noverca, è un’assassina: ha
sparso per i campi il corpo del fratello Absirto.
Turpiter illa virum cognovit adultera virgo (135) e a noi due ha lasciato un a torcia pudica, un matrimonio senza
sesso.
Medea ha tradito il padre Eeta, mentre io, scrive Ipsipile “rapui de
caede Toante” 138. Nella chiusura della lettera l’abbandonata di Lemno
maledice Medea: Nec male parta diu teneat peiusque relinquat 159
non tenga a lungo quello che ha acquistato male e lo perda peggio di me; che
sia con il marito e con i figli quello che è stata con il padre e il fratello:
“erret inops, expes, caede cruenta sua”, vada errando priva di mezzi e
di speranza, insanguinata dalla sua strage.
Io, figlia di Toante coinugio fraudata, vi maledico
Vivite devoto nuptaque virque toro (166) possiate
vivere moglie e marito in un letto maledetto.
Nel V libro della Tebaide di
Stazio Ipsipile racconta la sua storia. Era la principessa figlia del re
Toante di Lemno, poi, rapita e venduta dai pirati, era diventata schiava di
Licurgo, re di Nemea. Racconta i fatti i Lemno, con l’uccisione dei maschi e
gli amori con gli Argonauti.
Il bambino figlio di Licurgo
affidato a Ipsipile morì siccome la sua nutrice l’aveva dimenticato. Tideo la
protegge. Quindi arrivano i figli avuti da Giasone i quali riconoscono la
madre. Il figlio di Licurgo Ofelte sarà divinizzato dice Anfiarao, l’indovino
dei Sette contro Tebe.
Il destino non può essere cambiato.
Recto descendunt limite Parcae (736), le
Parche scendono senza deviare.
Ma torniamo alle Argonautiche
Arrivano a Samotracia, poi alla
punta del Chersoneso seguendo le correnti di Elle. Poi Abido e percorsero
l’Ellesponto.
Quindi la Propontide, tra
l’Ellesponto e il Bosforo.
Poi l’Arctonneso, l’isola degli orsi (cfr. a[rkto", ursus) abitato
dai Gegeneve~, i
figli della terra (943, cfr. il Sofista di Platone) violenti e
selvaggi con sei braccia possenti, due attaccate alle spalle, quattro ai
terribili fianchi. L’istmo che collegava l’isola alla pianura era abitato
dai Dolioni sui quali regnava Cizico. Poseidone li proteggeva dai tellurici.
Cizico e i Dolioni ricevono
amichevolmente gli Argonauti. Sacrificano ad Apollo, il dio degli sbarchi.
Cizico aveva avuto un oracolo che ordinava di accogliere cortesemente lo stuolo
di eroi. Per cortesia i due capi si facevano a vicenda domande (980)
Cizico si era sposato da poco, ma lasciò
la sposa nel talamo per gli ospiti. Anche qui c’è la polarità amore - guerra
presente in tutto il poema.
Bologna 22 ottobre ore 18,30
giovanni ghiselli
p. s.
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[1] 3 giugno (p. 75).
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