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Allora intervenivano uomini a[grioi,
diapuvroi ijdei`n (615
e) selvaggi, infuocati a vedersi che afferravano tali delinquenti e li
portavano via. I pessimi come Ardieo , venivano legati mani, piedi e testa,
buttati a terra, scorticati, trascinati fuori strada su piante spinose e
gettati nel Tartaro.
Dopo sette giorni passati nel prato
dunque, le anime dovevano viaggiare per quattro giorni finché giungevano in un
luogo da dove vedevano dall’alto una luce diritta (fw`~ euquv) distesa per tutto il cielo e la
terra (dia; panto;~ tou` oujranou` kai; gh`~) come una colonna (oi|on kivona, 616c), molto simile
all’arcobaleno, ma più fulgida e pura. Questa è l’anima del mondo.
Le anime degli umani camminavano un
altro giorno e, arrivati a metà della luce, vedevano teso dalle due estremità
il fuso di Ananche (ejk de; tw`n a[krwn tetamevnon jAnavgkh~ a[trakton), l’asse dell’universo attraverso
cui avvengono tutti i movimenti circolari. Il fuso aveva otto fusaioli (ojktw; ga;r
ei\nai tou;~ xuvmpanta~ sfonduvlou~, 616d), i contrappesi del fuso, racchiusi gli uni
negli altri.
Questi fusaioli rappresentano il
cielo delle stelle fisse e i sette pianeti. Partendo dall’esterno: Stelle fisse,
Saturno, Giove, Marte, Mercurio, Venere, Sole, Luna. Così nel Timeo.
E’ l’ordine pitagorico.
Il fuso si volgeva sulle ginocchia di Ananche.
Su ognuno dei fusaioli circolari che
rotavano lentamente incedeva in alto una Sirena sumperiferomevnhn (617b) tratta anch’essa nel moto
circolare mentre emetteva una voce in armonia con quella delle altre sette.
Le anime dunque vedevano l’asse
dell’universo.
Le Moire
Sedevano in trono tre persone
diverse dalla folla: le figlie di Ananche, le Moire vestite di bianco e con dei
serti (stevmmata, 617c) sul
capo.
Queste sono Lachesi, Cloto e Atropo
che cantavano sull’armonia delle sirene.
Lachesi cantava ta; gegonovta, il passato, Cloto ta; o[nta, il presente, Atropo ta; mevllonta, il futuro.
Le tre Moire[3] accompagnavano con la mano i moti
del fuso.
Le anime dovettero presentarsi a
Lachesi, quella che dà le sorti.
Quindi un portavoce (profhvth~) dispose in fila la folla, poi prese
delle sorti, dei modelli di vita dalle ginocchia di Lachesi.
Infine il profhvth~ , salito su un’alta tribuna,
diede voce al pensiero di Lachesi, la vergine figlia di Ananche ( jAnagkh"
qugatro;" kovrh" Lacevsew" lovgo~).
Disse: “Questo è l’inizio di
un altro ciclo di mortalità della razza mortale.
, e non sarà il demone a sorteggiare
voi, bensì voi sceglierete il demone
( “ oujc
uJma'" daivmwn lhvxetai, ajll j uJmei'" daivmona aiJrhvsesqe" (617 e).
Chi è sorteggiato a scegliere per
primo, prenda per primo la vita cui sarà congiunto”.
La parola di Lachesi aggiunge che la
virtù è senza padrone (ajreth; de; ajdevspoton, 617e) e ciascuno ne avrà di più o di meno, a seconda
che la apprezzi o la disprezzi. Responsabile è chi ha fatto la scelta[4], non la divinità” (aijtiva
eJlomevnou: qeo;~ ajnaivtio~ (617 e).
Riferite queste parole, il portavoce
di Lachesi gettò le sorti con il turno della scelta, e ognuno tirò su quella
che aveva vicino. Er non poté farlo.
Quindi il prfhvth~ mise in terra davanti a loro
svariati modelli di vite: umane e di animali.
C’erano vite di tutti i tipi, e
anche mescolanze di tipi.
Il profhvth~ aggiunse che anche chi
sceglieva per primo non doveva essere negligente e l’ultimo non doveva
scoraggiarsi ma scegliere con senno: mhvte oJ a[rcwn aiJrevsew~
ajmeleivtw mhvte oJ teleutw`n ajqumeivtw (619b).
Socrate che fa questo racconto
dice a Glaucone che bisogna studiare soprattutto come scegliere la migliore tra
le vite possibili.
Buona è la vita che tende alla
giustizia, cattiva quella che va verso l’ingiustizia. Bisogna essere refrattari
a lasciarsi colpire dalle ricchezze e da simili malanni come la tirannide.
Bisogna fuggire tutti gli eccessi in entrambi i sensi (feuvgein ta;
ujperbavllonta eJkatevrwse, 619).
Er raccontò che il primo scelse la
tirannide senza accorgersi che questa racchiude il destino di mangiare i propri
figli e altre sciagure. Poi se ne avvide e si mise a piangere. Quest’uomo
veniva dall’apertura nel cielo poiché aveva vissuto la vita precedente in uno
Stato bene ordinato praticando la virtù, per abitudine, senza filosofia (e[qei a[neu
filosofiva~, 619d).
Era più facile che scegliessero
precipitosamente e sbagliassero quelli scesi dal luogo beato, in quanto
inesperti di travagli (a{te povnwn ajgumnavstou~), mentre quelli che venivano dalla
terra, siccome erano tribolati e avevano visto altri soffrire, non facevano la
scelta ejx ejpidromh`~ in modo affrettato.
Di nuovo il tw`/ pavqei
mavqo~.
Così c’era una permuta di beni e di
mali.
Ma se uno in vita filosofa, poi la
sua scelta non cade tra le ultime, è facile che quest’uomo abbia due buone vite
di seguito.
Comunque, dice Er, lo spettacolo era
degno di essere visto, uno spettacolo pietoso, ridicolo e meraviglioso (qevan ajxivan
ijdei`n kai; geloivan kai; qaumasivan, 620).
Notiamo che la scelta però non è del
tutto libera siccome è condizionata dalle quantità di sorti rimaste disponibili
quando tocca scegliere a ciascuno secondo il numero d’ordine raccolto in
precedenza. Inoltre le anime erano condizionate dalle esperienza fatte nella
vita precedente.
Vediamo come.
.
Aiace Telamonio scelse la vita di un
leone poiché rifuggiva dal nascere uomo in quando ricordava il giudizio delle
armi (620b).
Agamennone, per avversione al genere
umano, scelse la vita di un’aquila. Orfeo, scelse
la vita di un cigno non volendo nascere da grembo di donna mivsei tou`
gunaikeivou gevnou~ , in odio del genere femminile per la morte sofferta
dalle donne[5].
Il buffone Tersite scelse la natura di una scimmia.
L’anima di Odisseo, prese la sorte per ultimo e, guarito da ogni ambizione
per il ricordo dei travagli precedenti, scelse la vita di un uomo privato e
amante del quieto vivere ("bivon ajndro;" ijdiwvtou
ajpravgmono"", Repubblica 620c).
La trovò messa da parte e negletta dagli altri, ma disse che l’avrebbe
presa anche se avesse dovuto fare la scelta per primo.
Quindi Lachesi diede a ciascuno come custode (fuvlaka) il demone (daivmona, 620d) che si
era scelto. Poi Cloto Atropo e Ananche confermavano le scelte e le rendevano
immutabili.
In seguito le anime venivano portate attraverso una terribile calura e
arsura fino al fiume Amelete perché ne bevessero l’acqua. Una certa misura era
obbligatoria. Ci non era preservato dalla prudenza beveva più della misura (plevon tou`
mevtrou, 621) e bevendo in continuazione si scordava di
tutto – to;n de; ajei; piovnta pavntwn
ejpilanqavnesqai . Infine si addormentavano, scoppiava un tuono e le
anime venivano spinte a una nuova nascita cui si lanciavano come stelle
cadenti.
Faccio notare di nuovo che scordare, scordare in particolare il ritorno - novstou
laqevsqai - è il verbo più negativo dell’Odissea (
IX, 97)
A Er era stato impedito di bere e non sapendo come, si era trovato il
mattino sulla pira. Socrate commenta il mito con poche parole dicendo che per
entrare nell’apertura e nella via che va in alto bisogna praticare sempre la
giustizia in modo da essere cari a noi stessi e agli dèi qui in terra e dopo,
nel viaggio millenario di cui si è detto (621d)
Questo mito è un’immagine concentrata del nostro destino di mortali. A me
piace molto, e pur essendo una fantasia, credo che la sua bellezza contenga
anche una verità: che noi dobbiamo vivere in sintonia con il nostro daivmwn che è il destino ed è pure il carattere.
Eraclito con il suo stile ieratico e lapidario insegna che l’uomo e il suo
destino coincidono: “ h\qo~
ajnqrwvpw/ daivmwn[6]”.
Se davvero noi abbiamo scelto sia pure con delle limitazioni, il verso di
questa vita prima di nascere, non lo so. So però che ciascuno di noi eredita
delle predisposizioni e che sta in ciascuno di noi assecondarle o contrastarle
secondo la direzione (trovpo~) che
intendiamo dare alla nostra vita. Voglio fare notare che la parola greca trovpo~ significa tanto “verso”, “direzione”, quanto carattere.
Il nucleo dell’infelicità è tradire il proprio destino. Se veniamo
rinnegati dal nostro demone, non c’è scampo all’infelicità.
"Qui, proprio qui, sta
l'origine dell'infelicità… Avvertiamo allora lo squilibrio tra il nostro essere
in potenza e il nostro essere in atto. E questa, questa è l'infelicità"[7].
"Molti provavano, per un
istante, una penosa tristezza perché tra la loro vita e i loro istinti c'era un
tale dissidio, un tal conflitto che la loro vita non era affatto una danza,
bensì un faticoso e affannato respirare sotto i pesi: pesi che in fin dei conti
essi stessi si erano accollati"[8].
Nell’ultimo libro dell’Asino
d’oro di Apuleio, Lucio prega la Regina del cielo, la luna che
gli è apparsa con uno straordinario splendore sulla riva del mare, vicino a
Corinto, e le chiede la fine delle fatiche e dei pericolo corsi nella sua vita
asinina, una vita senza Iside: “sit satis laborum, sit satis periculorum”.
Quindi la prega di restituirlo alla forma umana, ai suoi affetti e, dopo tutto
a se stesso, al Lucio che è:” Depelle quadripedis diram faciem, redde
me conspectui meorum, redde me meo Lucio” (XI, 2), stacca da me l’orribile
aspetto di quadrupede, rendimi alla vista dei miei, rendimi al Lucio che
sono.
"Qui, proprio qui, sta
l'origine dell'infelicità…Avvertiamo allora lo squilibrio tra il nostro essere
in potenza e il nostro essere in atto. E questa, questa è l'infelicità"[9].
"Di tutte le offese, quelle
arrecate alla mia vocazione - quando ho mancato di rispondere con passione
all'immagine del cuore - sono le più dolorose. Con i suoi attacchi implacabili,
la contrizione denuncia le insufficienze del cuore"[10].
"Florentino Ariza…l'aveva
convinta che uno viene al mondo con le sue polveri contate, e quelle che non
vengono usate per qualsiasi motivo, proprio o estraneo, si perdono per
sempre"[11].
Per diventare se stessi è necessario
prendere le distanze anche dai genitori: lo insegna il Vangelo di
Giovanni nel quale il Cristo dice alla madre: " tiv ejmoi; kai;
soiv, guvnai; - Quid
mihi et tibi mulier? " [12] (2, 4), che cosa ho da fare con
te, donna?
Ancora più esplicito è il Cristo nel Vangelo di Matteo: “non
veni pacem mittere sed gladium. Veni enim separare
Hominem adversus patrem suum
Et filiam adversus matrem suam” (10, 34 - 35),
non sono venuto a portare pace ma una spada. Sono venuto infatti a separare
l’uomo dal padre suo e la figlia dalla madre.
Nell’Achilleide di Stazio il giovanissimo Pelide deve
ribellarsi alla madre, che ne aveva fatto un travestito, per recarsi alla
guerra di Troia: “Paruimus, genetrix, quamquam haud toleranda
iuberes,/paruimus nimium: bella ad Troiana ratesque/Argolicas quaesitus eo”
(II, 17 - 19), ho obbedito, madre, sebbene tu ordinassi cose non tollerabili,
ti ho obbedito troppo: vado alla guerra di Troia sulle navi dei Greci che mi
hanno cercato.
Si ricordi[13] quanto afferma Esiodo dei
bambini ritardati, potenzialmente violenti, che vivevano fino a cento anni con
la madre.
Sentiamo di nuovo Fromm: "
Rimanendo legato alla natura, alla madre o al padre, l'uomo riesce quindi a
sentirsi a suo agio nel mondo, ma, per la sua sicurezza, paga un prezzo
altissimo, quello della sottomissione e della dipendenza, nonché il blocco del
pieno sviluppo della sua ragione e della sua capacità di amare. Egli resta un
fanciullo mentre vorrebbe diventare un adulto"[14].
"La capacità d'amare dipende
dalla propria capacità di emergere dal narcisismo e dall'attaccamento
incestuoso per la propria madre e il proprio clan; dipende dalla propria
capacità di crescere, di sviluppare un orientamento produttivo nei rapporti col
mondo e se stessi"[15].
"E' forse questo che si cerca
attraverso la vita, null'altro che quello, la più grande sofferenza possibile
per diventare se stessi prima di morire"[16].
Per questo l'Adriano
della Yourcenar ha conquistato il potere sul mondo:"Volevo il
potere. Lo volevo per imporre i miei piani, per tentare i miei rimedi, per
instaurare la pace. Lo volevo soprattutto per essere interamente me stesso,
prima di morire…Ho compreso che ben pochi realizzano se stessi prima di morire:
e ho giudicato con maggior pietà le loro opere interrotte. Quell'ossessione di
una vita mancata concentrava i miei pensieri su di un punto, li fissava come un
ascesso"[17].
Altrettanto l’imperatore Giuliano
nella commedia di Ibsen: “E che cos’è la felicità se non il vivere in
conformità a se stesso? L’aquila chiede forse delle penne d’oro? Il leone
ambisce avere artigli d’argento? O forse ilmelograno desidera che i suoi chicchi
siano altrettante pietre preziose?”[18].
Diventare quello che si è costituisce una forma particolare di virtù:
“esiste una virtù particolare, che altro non è se non la fedeltà assoluta alla
nostra natura, al nostro destino e alle nostre inclinazioni”[19].
“ Gli esseri umani non sono, nella
loro gran maggioranza, così fortemente egoisti. Pressappoco all’età di
trent’anni abbandonano le ambizioni personali - in molti casi abbandonano
addirittura il senso di possedere un’esistenza individuale - e vivono principalmente
per gli altri, oppure sono semplicemente schiacciati dalla dura routine del
lavoro quotidiano. Ma esiste anche una minoranza di persone dotate,
caparbie e ben decise a vivere la propria vita fino in fondo: gli scrittori
appartengono a questa categoria”[20].
L’opposto della dimenticanza deleteria del proprio destino è il “diventa
quello che sei” prescritto da Pindaro gevnoio oi|o~ ejssiv" (Pitica II v.
72),
Fine dell’excursus
Infine il guardiano va a chiudere l’ingresso. Il prete suggerisce a K di
non badare troppo alle opinioni e commenta il tutto dicendo: “non si deve
credere che tutto è vero, si deve credere che tutto è necessario” p. 226 .
Nell'Agamennone si
legge:"to; mevllon hJvxei"(1240), "quello
che deve accadere accadrà", ossia quello che avviene, avviene
necessariamente.
Nell'Edipo re Tiresia avvisa
Edipo che la sua ira da tiranno davanti alle parole profetiche è
inutile:" infatti esse si compiranno (hJvxei) anche se io le copro con il silenzio" (v. 341).
K chiede al prete: “cerca di capirmi.
Il prete risponde: “cerca di capire chi sono io””
“Tu sei il cappellano delle carceri”
“Io dunque faccio parte del tribunale” spiegò il sacerdote - “perché dovrei
volere qualcosa da te?. Il tribunale non ti chiede nulla. Ti accoglie quando
vieni, ti lascia andare quando vai”.
La legge nascosta dietro la porta dunque attendeva quell’uomo e attende
tutti. Il processo è una specie di invito e “il peccato senza nome, il senso di
colpa di cui Josef K e gli altri sono colpevoli, è in raltà un’elezione divina:
questo peccato li rende belli, mentre tutti gli altri uomini che non vivono
sotto questa ombra non esistono agli occhi di Dio. Dio ha accusato e fatto
arrestare dai suoi loschi messaggeri : ma quest’accusa è il segno della sua
ricerca” (Citati, Kafka, p. 157).
Interpretazione discutibile che a parer mio risente di quella di T. S.
Eliot nel dramma Riunione di Famiglia: Harry infine ha capito e ha vinto la
paura. Quando le Eumenidi appaiono per l’ultima volta, il giovane si rivolge a
loro con queste parole: «You cannot think that I am surprised to see you», “non
crediate che io sia sorpreso di vedervi”, «and you shall not think that I am
afraid to see you», “e non crediate che abbia paura di vedervi”. “Questa volta siete reali, siete fuori di me e perciò sopportabili”, «this
time you are real, this time you are outside me, and just endurable». “Pensavo di sfuggirvi venendo qui
dove voi invece mi aspettavate 6 (II, 2). Ora finalmente vedo che vi
sto seguendo”, «now I see at last that I am following you», “e che può esserci
un solo itinerario e una sola destinazione”. «Let us lose
no time. I will follow».
«I must follow the bright angels», “io devo seguire gli angeli splendenti”.
Le Erinni
sono diventate Eumenidi.
Pure Oreste, giunto sull’acropoli di
Atene, non ha più paura delle Erinni: le affronta senza rinnegare le proprie
azioni, compreso il matricidio con il quale ha vendicato il proprio padre
(Eschilo, Eumenidi 588): ἔκτεινα. τούτου δ’ οὔτις ἄρνησις πέλει, “l’ho uccisa e di questo non c’è
negazione”.
giovanni ghiselli
[3] Cfr. lagcavnw “ricevo in sorte”, klwvqw, “filo” e trevpw “volgo” preceduto da aj - privativo, quindi l’inflessibile.
[4] E’ l’afferrmazione della
responsabilità degli uomini, già fatta da Zeus nel primo canto dell’Odissea:"Ahimé, come ora davvero i mortali incolpano gli dèi! Da noi infatti dicono che derivano i
mali, ma anzi essi stessi per la loro stupida presunzione hanno dolori oltre il
destino. Così anche ora Egisto oltre il destino si prese la
moglie legittima dell’Atride, e lo ammazzò appena tornato,
pur sapendo della morte scoscesa, poiché gliela predicemmo noi,
mandando Ermes, l’Argifonte dalla vista acuta,
di non ammazzarlo e di non corteggiarne la sposa:
infatti da Oreste ci sarà la vendetta dell’Atride,
quando sia adulto e desideri la sua terra.
Così diceva Ermes, ma non persuadeva la mente
Di Egisto, pur pensando al suo bene; e ora tutto insieme ha pagato” (vv. 32
- 43).
[5] Cfr. Virgilio, Georgica IV: spretae
Ciconum quo munere matres - inter sacra deum nocturnique orgia Bacchi - discerptum
latos iuvenem sparsere per agros” ( vv. 520 - 522) spregiate da questa
fedeltà (a Euridice)) le donne dei Ciconi fra riti religiosi e le orge di Bacco
notturno, sparsero per i vasti campi il giovane fatto a pezzi.
[6] Fr. 91 Diano, il carattere è il
destino dell’uomo
[7] J. Ortega y Gasset, Meditazioni
sulla felicità, p. 42.
[8] H. Hesse, Klein e
Wagner, p. 126.
[9] J. Ortega y Gasset, Meditazioni
sulla felicità, p. 42.
[10] Hillman, La forza del carattere,
p. 183
[11] G. G. Márquez, L’amore ai tempi del
colera, p. 162.
[12] T. Mann commenta queste parole,
da par suo, nel Doctor Faustus:"In fondo, per una
madre, il volo di Icaro del figlio eroe, la sublime avventura virile dell'uomo
che non è più sotto la sua protezione è un'aberrazione tanto colpevole quanto
incomprensibile, donde ella sente risuonare, con segreta mortificazione, le
parole lontane e severe: "Donna, io non ti conosco". E così ella
riprende nel suo grembo la povera, cara creatura caduta e annientata, tutto
perdonando e pensando che questa avrebbe fatto meglio a non staccarsene
mai" (p.691).
[13] Cap. 58.
[14]E. Fromm, La rivoluzione della
speranza , p. 80.
[15]E. Fromm, L'arte d'amare ,
p. 153.
[16] L. F. Céline, Viaggio al
termine della notte, p. 249.
[17] M. Yourcenar, Memorie di
Adriano, p. 84.
[18] L’imperatore Giuliano, Atto
III, quadro primo.
[19] S. Màrai, La recita di
Bolzano, p. 97.
[20] G. orwell, Perché scrivo, “Gangrel”,
n. 4, estate 1946, in Romanzi e Saggi, I Meridiani, p. 1288.
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