NUOVE DATE alla Biblioteca «Ginzburg»: Protagonisti della storia antica

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sabato 31 ottobre 2020

Kafka, "Il processo". Capitolo X. Excursus

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Allora intervenivano uomini a[grioi, diapuvroi ijdei`n (615 e) selvaggi, infuocati a vedersi che afferravano tali delinquenti e li portavano via. I pessimi come Ardieo , venivano legati mani, piedi e testa, buttati a terra, scorticati, trascinati fuori strada su piante spinose e gettati nel Tartaro.

Dopo sette giorni passati nel prato dunque, le anime dovevano viaggiare per quattro giorni finché giungevano in un luogo da dove vedevano dall’alto una luce diritta (fw`~ euquv) distesa per tutto il cielo e la terra (dia; panto;~ tou` oujranou` kai; gh`~) come una colonna (oi|on kivona, 616c), molto simile all’arcobaleno, ma più fulgida e pura. Questa è l’anima del mondo.

Le anime degli umani camminavano un altro giorno e, arrivati a metà della luce, vedevano teso dalle due estremità il fuso di Ananche (ejk de; tw`n a[krwn tetamevnon jAnavgkh~ a[trakton), l’asse dell’universo attraverso cui avvengono tutti i movimenti circolari. Il fuso aveva otto fusaioli (ojktw; ga;r ei\nai tou;~ xuvmpanta~ sfonduvlou~, 616d), i contrappesi del fuso, racchiusi gli uni negli altri.

Questi fusaioli rappresentano il cielo delle stelle fisse e i sette pianeti. Partendo dall’esterno: Stelle fisse, Saturno, Giove, Marte, Mercurio, Venere, Sole, Luna. Così nel Timeo. E’ l’ordine pitagorico.

 Il fuso si volgeva sulle ginocchia di Ananche.

Su ognuno dei fusaioli circolari che rotavano lentamente incedeva in alto una Sirena sumperiferomevnhn (617b) tratta anch’essa nel moto circolare mentre emetteva una voce in armonia con quella delle altre sette.

Le anime dunque vedevano l’asse dell’universo.

Le Moire

Sedevano in trono tre persone diverse dalla folla: le figlie di Ananche, le Moire vestite di bianco e con dei serti (stevmmata, 617c) sul capo.

Queste sono Lachesi, Cloto e Atropo che cantavano sull’armonia delle sirene.

 Lachesi cantava ta; gegonovta, il passato, Cloto ta; o[nta, il presente, Atropo ta; mevllonta, il futuro.

Le tre Moire[3] accompagnavano con la mano i moti del fuso.

Le anime dovettero presentarsi a Lachesi, quella che dà le sorti.

Quindi un portavoce (profhvth~) dispose in fila la folla, poi prese delle sorti, dei modelli di vita dalle ginocchia di Lachesi.

Infine il profhvth~ , salito su un’alta tribuna, diede voce al pensiero di Lachesi, la vergine figlia di Ananche ( jAnagkh" qugatro;" kovrh" Lacevsew" lovgo~).

 Disse: “Questo è l’inizio di un altro ciclo di mortalità della razza mortale.

, e non sarà il demone a sorteggiare voi, bensì voi sceglierete il demone 

( “ oujc uJma'" daivmwn lhvxetai, ajll j uJmei'" daivmona aiJrhvsesqe" (617 e).

Chi è sorteggiato a scegliere per primo, prenda per primo la vita cui sarà congiunto”.

La parola di Lachesi aggiunge che la virtù è senza padrone (ajreth; de; ajdevspoton, 617e) e ciascuno ne avrà di più o di meno, a seconda che la apprezzi o la disprezzi. Responsabile è chi ha fatto la scelta[4], non la divinità” (aijtiva eJlomevnou: qeo;~ ajnaivtio~ (617 e).

Riferite queste parole, il portavoce di Lachesi gettò le sorti con il turno della scelta, e ognuno tirò su quella che aveva vicino. Er non poté farlo.

Quindi il prfhvth~ mise in terra davanti a loro svariati modelli di vite: umane e di animali.

C’erano vite di tutti i tipi, e anche mescolanze di tipi.

Il profhvth~ aggiunse che anche chi sceglieva per primo non doveva essere negligente e l’ultimo non doveva scoraggiarsi ma scegliere con senno: mhvte oJ a[rcwn aiJrevsew~ ajmeleivtw mhvte oJ teleutw`n ajqumeivtw (619b).

 

 Socrate che fa questo racconto dice a Glaucone che bisogna studiare soprattutto come scegliere la migliore tra le vite possibili.

Buona è la vita che tende alla giustizia, cattiva quella che va verso l’ingiustizia. Bisogna essere refrattari a lasciarsi colpire dalle ricchezze e da simili malanni come la tirannide. Bisogna fuggire tutti gli eccessi in entrambi i sensi (feuvgein ta; ujperbavllonta eJkatevrwse, 619).

Er raccontò che il primo scelse la tirannide senza accorgersi che questa racchiude il destino di mangiare i propri figli e altre sciagure. Poi se ne avvide e si mise a piangere. Quest’uomo veniva dall’apertura nel cielo poiché aveva vissuto la vita precedente in uno Stato bene ordinato praticando la virtù, per abitudine, senza filosofia (e[qei a[neu filosofiva~, 619d).

Era più facile che scegliessero precipitosamente e sbagliassero quelli scesi dal luogo beato, in quanto inesperti di travagli (a{te povnwn ajgumnavstou~), mentre quelli che venivano dalla terra, siccome erano tribolati e avevano visto altri soffrire, non facevano la scelta ejx ejpidromh`~ in modo affrettato.

Di nuovo il tw`/ pavqei mavqo~.

Così c’era una permuta di beni e di mali.

Ma se uno in vita filosofa, poi la sua scelta non cade tra le ultime, è facile che quest’uomo abbia due buone vite di seguito.

Comunque, dice Er, lo spettacolo era degno di essere visto, uno spettacolo pietoso, ridicolo e meraviglioso (qevan ajxivan ijdei`n kai; geloivan kai; qaumasivan, 620).

Notiamo che la scelta però non è del tutto libera siccome è condizionata dalle quantità di sorti rimaste disponibili quando tocca scegliere a ciascuno secondo il numero d’ordine raccolto in precedenza. Inoltre le anime erano condizionate dalle esperienza fatte nella vita precedente.

 

 Vediamo come.

.

Aiace Telamonio scelse la vita di un leone poiché rifuggiva dal nascere uomo in quando ricordava il giudizio delle armi (620b).

Agamennone, per avversione al genere umano, scelse la vita di un’aquila. Orfeo, scelse la vita di un cigno non volendo nascere da grembo di donna mivsei tou` gunaikeivou gevnou~ , in odio del genere femminile per la morte sofferta dalle donne[5]

Il buffone Tersite scelse la natura di una scimmia.

L’anima di Odisseo, prese la sorte per ultimo e, guarito da ogni ambizione per il ricordo dei travagli precedenti, scelse la vita di un uomo privato e amante del quieto vivere ("bivon ajndro;" ijdiwvtou ajpravgmono"", Repubblica 620c).

La trovò messa da parte e negletta dagli altri, ma disse che l’avrebbe presa anche se avesse dovuto fare la scelta per primo.

 

Quindi Lachesi diede a ciascuno come custode (fuvlaka) il demone (daivmona, 620d) che si era scelto. Poi Cloto Atropo e Ananche confermavano le scelte e le rendevano immutabili.

In seguito le anime venivano portate attraverso una terribile calura e arsura fino al fiume Amelete perché ne bevessero l’acqua. Una certa misura era obbligatoria. Ci non era preservato dalla prudenza beveva più della misura (plevon tou` mevtrou, 621) e bevendo in continuazione si scordava di tutto – to;n de; ajei; piovnta pavntwn ejpilanqavnesqai . Infine si addormentavano, scoppiava un tuono e le anime venivano spinte a una nuova nascita cui si lanciavano come stelle cadenti.

 

Faccio notare di nuovo che scordare, scordare in particolare il ritorno - novstou laqevsqai - è il verbo più negativo dell’Odissea ( IX, 97)

 

A Er era stato impedito di bere e non sapendo come, si era trovato il mattino sulla pira. Socrate commenta il mito con poche parole dicendo che per entrare nell’apertura e nella via che va in alto bisogna praticare sempre la giustizia in modo da essere cari a noi stessi e agli dèi qui in terra e dopo, nel viaggio millenario di cui si è detto (621d)

Questo mito è un’immagine concentrata del nostro destino di mortali. A me piace molto, e pur essendo una fantasia, credo che la sua bellezza contenga anche una verità: che noi dobbiamo vivere in sintonia con il nostro daivmwn che è il destino ed è pure il carattere.

Eraclito con il suo stile ieratico e lapidario insegna che l’uomo e il suo destino coincidono: “ h\qo~ ajnqrwvpw/ daivmwn[6]”.

 

Se davvero noi abbiamo scelto sia pure con delle limitazioni, il verso di questa vita prima di nascere, non lo so. So però che ciascuno di noi eredita delle predisposizioni e che sta in ciascuno di noi assecondarle o contrastarle secondo la direzione (trovpo~) che intendiamo dare alla nostra vita. Voglio fare notare che la parola greca trovpo~ significa tanto “verso”, “direzione”, quanto carattere.

Il nucleo dell’infelicità è tradire il proprio destino. Se veniamo rinnegati dal nostro demone, non c’è scampo all’infelicità.

 

"Qui, proprio qui, sta l'origine dell'infelicità… Avvertiamo allora lo squilibrio tra il nostro essere in potenza e il nostro essere in atto. E questa, questa è l'infelicità"[7].

"Molti provavano, per un istante, una penosa tristezza perché tra la loro vita e i loro istinti c'era un tale dissidio, un tal conflitto che la loro vita non era affatto una danza, bensì un faticoso e affannato respirare sotto i pesi: pesi che in fin dei conti essi stessi si erano accollati"[8].

 

Nell’ultimo libro dell’Asino d’oro di Apuleio, Lucio prega la Regina del cielo, la luna che gli è apparsa con uno straordinario splendore sulla riva del mare, vicino a Corinto, e le chiede la fine delle fatiche e dei pericolo corsi nella sua vita asinina, una vita senza Iside: “sit satis laborum, sit satis periculorum”. Quindi la prega di restituirlo alla forma umana, ai suoi affetti e, dopo tutto a se stesso, al Lucio che è:” Depelle quadripedis diram faciem, redde me conspectui meorum, redde me meo Lucio” (XI, 2), stacca da me l’orribile aspetto di quadrupede, rendimi alla vista dei miei, rendimi al Lucio che sono. 

"Qui, proprio qui, sta l'origine dell'infelicità…Avvertiamo allora lo squilibrio tra il nostro essere in potenza e il nostro essere in atto. E questa, questa è l'infelicità"[9].

"Di tutte le offese, quelle arrecate alla mia vocazione - quando ho mancato di rispondere con passione all'immagine del cuore - sono le più dolorose. Con i suoi attacchi implacabili, la contrizione denuncia le insufficienze del cuore"[10].

"Florentino Ariza…l'aveva convinta che uno viene al mondo con le sue polveri contate, e quelle che non vengono usate per qualsiasi motivo, proprio o estraneo, si perdono per sempre"[11].

Per diventare se stessi è necessario prendere le distanze anche dai genitori: lo insegna il Vangelo di Giovanni nel quale il Cristo dice alla madre: " tiv ejmoi; kai; soiv, guvnai; - Quid mihi et tibi mulier? " [12] (2, 4), che cosa ho da fare con te, donna?

Ancora più esplicito è il Cristo nel Vangelo di Matteo: “non veni pacem mittere sed gladium. Veni enim separare

Hominem adversus patrem suum

Et filiam adversus matrem suam” (10, 34 - 35), non sono venuto a portare pace ma una spada. Sono venuto infatti a separare l’uomo dal padre suo e la figlia dalla madre. 

Nell’Achilleide di Stazio il giovanissimo Pelide deve ribellarsi alla madre, che ne aveva fatto un travestito, per recarsi alla guerra di Troia: “Paruimus, genetrix, quamquam haud toleranda iuberes,/paruimus nimium: bella ad Troiana ratesque/Argolicas quaesitus eo” (II, 17 - 19), ho obbedito, madre, sebbene tu ordinassi cose non tollerabili, ti ho obbedito troppo: vado alla guerra di Troia sulle navi dei Greci che mi hanno cercato. 

Si ricordi[13] quanto afferma Esiodo dei bambini ritardati, potenzialmente violenti, che vivevano fino a cento anni con la madre.

 

Sentiamo di nuovo Fromm: " Rimanendo legato alla natura, alla madre o al padre, l'uomo riesce quindi a sentirsi a suo agio nel mondo, ma, per la sua sicurezza, paga un prezzo altissimo, quello della sottomissione e della dipendenza, nonché il blocco del pieno sviluppo della sua ragione e della sua capacità di amare. Egli resta un fanciullo mentre vorrebbe diventare un adulto"[14].

"La capacità d'amare dipende dalla propria capacità di emergere dal narcisismo e dall'attaccamento incestuoso per la propria madre e il proprio clan; dipende dalla propria capacità di crescere, di sviluppare un orientamento produttivo nei rapporti col mondo e se stessi"[15].

 

 

"E' forse questo che si cerca attraverso la vita, null'altro che quello, la più grande sofferenza possibile per diventare se stessi prima di morire"[16].

Per questo l'Adriano della Yourcenar ha conquistato il potere sul mondo:"Volevo il potere. Lo volevo per imporre i miei piani, per tentare i miei rimedi, per instaurare la pace. Lo volevo soprattutto per essere interamente me stesso, prima di morire…Ho compreso che ben pochi realizzano se stessi prima di morire: e ho giudicato con maggior pietà le loro opere interrotte. Quell'ossessione di una vita mancata concentrava i miei pensieri su di un punto, li fissava come un ascesso"[17].

Altrettanto l’imperatore Giuliano nella commedia di Ibsen: “E che cos’è la felicità se non il vivere in conformità a se stesso? L’aquila chiede forse delle penne d’oro? Il leone ambisce avere artigli d’argento? O forse ilmelograno desidera che i suoi chicchi siano altrettante pietre preziose?”[18]

Diventare quello che si è costituisce una forma particolare di virtù: “esiste una virtù particolare, che altro non è se non la fedeltà assoluta alla nostra natura, al nostro destino e alle nostre inclinazioni”[19].

“ Gli esseri umani non sono, nella loro gran maggioranza, così fortemente egoisti. Pressappoco all’età di trent’anni abbandonano le ambizioni personali - in molti casi abbandonano addirittura il senso di possedere un’esistenza individuale - e vivono principalmente per gli altri, oppure sono semplicemente schiacciati dalla dura routine del lavoro quotidiano. Ma esiste anche una minoranza di persone dotate, caparbie e ben decise a vivere la propria vita fino in fondo: gli scrittori appartengono a questa categoria”[20].

 

L’opposto della dimenticanza deleteria del proprio destino è il “diventa quello che sei” prescritto da Pindaro gevnoio oi|o~ ejssiv" (Pitica II v. 72),

 

Fine dell’excursus

Infine il guardiano va a chiudere l’ingresso. Il prete suggerisce a K di non badare troppo alle opinioni e commenta il tutto dicendo: “non si deve credere che tutto è vero, si deve credere che tutto è necessario” p. 226 .

 

 Nell'Agamennone si legge:"to; mevllon hJvxei"(1240), "quello che deve accadere accadrà", ossia quello che avviene, avviene necessariamente.

Nell'Edipo re Tiresia avvisa Edipo che la sua ira da tiranno davanti alle parole profetiche è inutile:" infatti esse si compiranno (hJvxei) anche se io le copro con il silenzio" (v. 341).

 

K chiede al prete: “cerca di capirmi.

Il prete risponde: “cerca di capire chi sono io””

“Tu sei il cappellano delle carceri”

“Io dunque faccio parte del tribunale” spiegò il sacerdote - “perché dovrei volere qualcosa da te?. Il tribunale non ti chiede nulla. Ti accoglie quando vieni, ti lascia andare quando vai”.

 

La legge nascosta dietro la porta dunque attendeva quell’uomo e attende tutti. Il processo è una specie di invito e “il peccato senza nome, il senso di colpa di cui Josef K e gli altri sono colpevoli, è in raltà un’elezione divina: questo peccato li rende belli, mentre tutti gli altri uomini che non vivono sotto questa ombra non esistono agli occhi di Dio. Dio ha accusato e fatto arrestare dai suoi loschi messaggeri : ma quest’accusa è il segno della sua ricerca” (Citati, Kafka, p. 157).

Interpretazione discutibile che a parer mio risente di quella di T. S. Eliot nel dramma Riunione di FamigliaHarry infine ha capito e ha vinto la paura. Quando le Eumenidi appaiono per l’ul­tima volta, il giovane si rivolge a loro con queste parole: «You cannot think that I am surprised to see you», “non crediate che io sia sorpreso di vedervi”, «and you shall not think that I am afraid to see you», “e non crediate che abbia paura di vedervi”. “Questa volta siete reali, siete fuori di me e perciò sopportabili”, «this time you are real, this time you are outside me, and just endurable». “Pen­savo di sfuggirvi venendo qui dove voi invece mi aspettavate (II, 2). Ora final­mente vedo che vi sto seguendo”, «now I see at last that I am following you», “e che può esserci un solo itinerario e una sola destinazione”. «Let us lose no time. I will follow».

«I must follow the bright angels», “io devo seguire gli angeli splendenti”. Le Erinni sono diven­tate Eumenidi.

 

Pure Oreste, giunto sull’acropoli di Atene, non ha più paura delle Erinni: le affronta senza rinnegare le proprie azioni, compreso il matricidio con il quale ha vendicato il proprio padre (Eschilo, Eumenidi 588): κτεινα. τούτου δ’ οτις ρνησις πέλει, “l’ho uccisa e di questo non c’è negazione”.

 

giovanni ghiselli

 



[3] Cfr. lagcavnw “ricevo in sorte”, klwvqw, “filo” e trevpw “volgo” preceduto da aj - privativo, quindi l’inflessibile. 

[4] E’ l’afferrmazione della responsabilità degli uomini, già fatta da Zeus nel primo canto dell’Odissea:"Ahimé, come ora davvero i mortali incolpano gli dèi! Da noi infatti dicono che derivano i mali, ma anzi essi stessi per la loro stupida presunzione hanno dolori oltre il destino. Così anche ora Egisto oltre il destino si prese la moglie legittima dell’Atride, e lo ammazzò appena tornato,

pur sapendo della morte scoscesa, poiché gliela predicemmo noi,

mandando Ermes, l’Argifonte dalla vista acuta,

di non ammazzarlo e di non corteggiarne la sposa:

infatti da Oreste ci sarà la vendetta dell’Atride,

quando sia adulto e desideri la sua terra.

Così diceva Ermes, ma non persuadeva la mente

Di Egisto, pur pensando al suo bene; e ora tutto insieme ha pagato” (vv. 32 - 43). 

[5] Cfr. Virgilio, Georgica IVspretae Ciconum quo munere matres - inter sacra deum nocturnique orgia Bacchi - discerptum latos iuvenem sparsere per agros” ( vv. 520 - 522) spregiate da questa fedeltà (a Euridice)) le donne dei Ciconi fra riti religiosi e le orge di Bacco notturno, sparsero per i vasti campi il giovane fatto a pezzi.

[6] Fr. 91 Diano, il carattere è il destino dell’uomo 

[7] J. Ortega y Gasset, Meditazioni sulla felicità, p. 42.

[8] H. Hesse, Klein e Wagner, p. 126.

[9] J. Ortega y Gasset, Meditazioni sulla felicità, p. 42.

[10] Hillman, La forza del carattere, p. 183

[11] G. G. Márquez, L’amore ai tempi del colera, p. 162.

[12] T. Mann commenta queste parole, da par suo, nel Doctor Faustus:"In fondo, per una madre, il volo di Icaro del figlio eroe, la sublime avventura virile dell'uomo che non è più sotto la sua protezione è un'aberrazione tanto colpevole quanto incomprensibile, donde ella sente risuonare, con segreta mortificazione, le parole lontane e severe: "Donna, io non ti conosco". E così ella riprende nel suo grembo la povera, cara creatura caduta e annientata, tutto perdonando e pensando che questa avrebbe fatto meglio a non staccarsene mai" (p.691).

[13] Cap. 58.

[14]E. Fromm, La rivoluzione della speranza , p. 80.

[15]E. Fromm, L'arte d'amare , p. 153.

[16] L. F. Céline, Viaggio al termine della notte, p. 249.

[17] M. Yourcenar, Memorie di Adriano, p. 84.

[18] L’imperatore Giuliano, Atto III, quadro primo.

[19] S. Màrai, La recita di Bolzano, p. 97.

[20] G. orwell, Perché scrivo, “Gangrel”, n. 4, estate 1946, in Romanzi e Saggi, I Meridiani, p. 1288.

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