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Argomento
La solitudine necessaria in certi tempi e certe società. Da Seneca a Pavese
Il bisogno
della solitudine, condannato da Omero a Menandro come disumano, più avanti, con
la degenerazione brutale dei rapporti tra gli uomini, con la trasformazione
delle persone in "turba ", folla disordinata,
feccia o[clo" - diventerà non solo dignitoso ma necessario.
Seneca tornato dal Circo dove ha
assistito a mera homicidia , omicidi veri e propri fa questa
riflessione: "avarior redeo, ambitiosior, luxuriosior? immo vero
crudelior et inhumanior, quia inter homines fui", torno a casa più
avido, ambizioso, amante del lusso? anzi più crudele e più disumano proprio
perché sono stato in mezzo agli uomini (Ep. 7, 3). Il consiglio allora
è:"recēde in te ipse quantum potes ", rientra in te stesso quanto puoi (7, 8).
La posizione si radicalizza nell'incipit di un'altra lettera: “Seneca
Lucilio suo salutem. Sic est, non muto sententiam: fuge
multitudinem, fuge paucitatem, fuge etiam unum” (Ep. 10, 1), Seneca
saluta il suo Lucilio. E' così, non cambio parere, evita la folla, evita i
pochi, evita anche uno solo.
Schopenhuer in Parerga
e Paralipomena scrive: “Ognuno può completamente essere se stesso
soltanto sino a che sia solo (…) Ciascuno quindi fuggirà, sopporterà, oppure
amerà la solitudine in una proporzione esatta con il valore della sua
personalità. Nella solitudine infatti il miserabile sente tutta quanta la sua
miseria e il grande spirito tutta la sua grandezza, ciascuno in breve sente di
essere ciò che è (…) In una società di gente superficiale noi dobbiamo quindi
rinnegare noi stessi e abbandonare i tre quarti di noi per renderci simili agli
altri (…) La solitudine è il destino di tutti gli spiriti preminenti” (Aforismi
sulla saggezza della vita, 4).
Un'eco
in Nietzsche: “C'è da dir
male anche di chi soffre per la solitudine - io ho sempre e solamente sofferto
per la moltitudine”[1].
Poi: “ Ogni
uomo eletto mira istintivamente a trovarsi una sua propria rocca, una sua
intimità, dove potersi ritrovare libero dalla massa, dai
molti, dai più, dove gli sia consentito dimenticare la regola “uomo”,
costituendone egli l’eccezione (…) ogni compagnia è cattiva, ad eccezione di
quella con i propri simili”[2].
Nel dialogo
con la Natura, l’Islandese di Leopardi racconta
: “conobbi per prova come egli è vano a pensare, se tu vivi tra gli uomini, di
potere, non offendendo alcuno, fuggire che gli altri non ti offendano, e
cedendo sempre spontaneamente, e contentandosi del menomo, in ogni cosa,
ottenere che ti sia lasciato un qualsivoglia luogo, e che questo menomo non ti
sia contrastato. Ma dalla molestia degli uomini mi liberai facilmente,
separandomi dalla loro società, e riducendomi in solitudine: cosa che nella mia
isola nativa si può recare ad effetto senza difficoltà” (Dialogo della
Natura e di un Islandese).
In altri tempi (1938) C.
Pavese scrive: "Maturità è l'isolamento che basta a se
stesso" (Il mestiere di vivere , 8 dicembre).
E più avanti (15 ottobre, 1940):"Ci sono servi e padroni, non ci sono
uguali. La sola regola eroica: essere soli soli soli".
Infine (25 aprile 1946): "Ogni sera, finito l'ufficio, finita
l'osteria, andate le compagnie - torna la feroce gioia, il refrigerio di essere
solo. E' l'unico vero bene quotidiano". E' pur vero che questo nostro
autore si uccise il 18 agosto del 1950.
Si pensi ai romanzi di Kafka alla solitudine dei loro personaggi: significa l’impotenza
di tutto ciò che è umano davanti alla potenza di un mondo infernale.
giovanni
ghiselli
[1] Ecce homo, Perché sono così
accorto, 10 . Del 1888
[2] Di là dal bene e dal male, Lo
spirito libero, 26. Del 1886
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