Vedo dismisura nei personaggi in vista nelle televisioni: l’eterno sorriso subdolo e prossenetico di Fazio con tanto di “grazie davvero”- non per finta!!!- “tantissime grazie” –non poche, non poche grazie per carità!!! - o l’eterna ira furente gratuita, eppure manifestata non gratis, di Sgarbi e dei suoi epigoni.
Niente è problematico per costoro: tutto è deciso. Da chi li invita e li paga.
A questa mancanza di modus in rebus contrappongo la metriovth" dei classici.
La misura classica
Il modus , la misura è topicamente la quintessenza del rectum, il giusto in Orazio: "est modus in rebus, sunt certi denique fines,/quos ultra citraque nequit consistere rectum " (Satire , I, 1, vv. 106-107), c'è una misura nelle cose, ci sono limiti definiti dopotutto al di là e al di qua dei quali non può sussistere il giusto. Per Seneca il modus si identifica sempre con la virtus : "cum sit ubique virtus modus " (De beneficiis , II, 16, 2). Dietro questa concezione "vi sono secoli di filosofia ellenistica: la mesovth" era stata peripatetica, la metriovth" era stata definita e propugnata dall'accademico Crantore, poi dal neostoico Panezio, il quale aveva avuto sulla morale della classe colta romana una grande influenza"[1].
L'eccesso è viceversa la quintessenza di ogni male nella cultura greca classica.
La formulazione più chiara e sintetica è quella del Solone di Plutarco. Quando Creso, il pacchiano re barbaro gli fece vedere i suoi cospicui tesori e gli chiese se conoscesse qualcuno più felice di lui, nominò personaggi non famosi e non ricchi, ma "belli e buoni". Allora Creso lo giudicò strambo (ajllovkoto") e zotico (a[groiko"), tuttavia volle domandargli se lo mettesse in qualche modo nel novero degli uomini felici. Il legislatore ateniese quindi rispose: "Ai Greci, o re dei Lidi, il dio ha dato di essere misurati (metrivw" e[cein e[dwken oJ qeov"), e per questa misuratezza ci tocca una saggezza non arrogante ma popolare, non regale né splendida "[2]. Erodoto e Sofocle, in quanto seguaci della religione delfica condannano spesso la dismisura. Diamo la formula del Secondo Stasimo dell'Antigone :" Sia nel tempo prossimo sia nel futuro/come nel passato avrà vigore/ questa legge: nulla di smisurato/ si insinua nella vita dei mortali senza rovina - oujde;n e[rpei - qnatw`n biovtw/ pampoluv g j e[kto;" a[ta"- " (vv. 611-614).-
Anche il "sacrilego" Euripide considera intoccabile questo valore: "ajcalivnwn stomavtwn - ajnovmou t' ajfrosuvna" - to; tevlo" dustuciva, di boccche senza freno, di stoltezza senza misura, il termine è sventura,
cantano le Baccanti nel Primo Stasimo (vv. 387-389).
La virtù che consiste nell'evitare la dismisura è presente in vari saggi della letteratura antica: ricordo il Catone Uticense della Pharsalia celebrato da Lucano come uomo ricco di virtù in testa alle quali c'è quella serbare la giusta misura ("servare modum ", II, 381).
Secondo questa concezione, l'amore, in quanto dismisura, è vizio che può addirittura arrivare all'abominio di una Pasife cui Sileno nella VI bucolica indirizza un'apostrofe, carica di pathos simile a quella rivolta a Coridone: "A, virgo infelix, quae te dementia cepit?" (v. 47).
Bologna 16 novembre 2020, ore 10, 35 giovanni ghiselli
p. s.
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