Didone non accetta le scuse e non cessa di incendere (v. 360): infatti , infiammata ("accensa" v. 364), risponde all’amante con parole di fuoco: “Nec tibi diva parens, generis nec Dardanus auctor/perfide, sed duris genuit te cautibus horrens/Caucasus Hyrcanaeque admorunt ubera tigres./Nam quid dissimulo aut quae me ad maiora reservo?/Num fletu ingemuit nostro? Num lumina flexit?/Num lacrimas victus dedit, aut miseratus amantem est?” (vv. 365-369), non una dea è tua madre, né Dardano ti è capostipite, perfido, ma ti ha generato il Caucaso irto di dure rupi e tigri Ircane ti hanno accostato le poppe. Infatti perché taccio o per quali mali più grandi mi tengo da parte? Ha forse emesso un gemito al nostro pianto? Ha girato lo sguardo? Ha versato lacrime vinto, ha commiserato l’amante?
Torquato Tasso ricorda questi versi nel XVI canto della Gerusalemme liberata, quando Armida viene abbandonata da Rinaldo ed ella, forsennata, gli dice: “Non te Sofia[1] produsse e non sei nato/de l ‘azio[2]
sangue tu; te l’onda insana /del mar produsse e ‘l Caucaso gelato,/e le mamme allattàr di tigre arcana./Che dissimulo io più? l’uomo spietato/pur un segno non diè di mente umana. /Forse cambiò color? Forse al mio duolo/bagnò almen gli occhi o sparse un sospir solo? (57).
Rinaldo, come Enea, è stato richiamato al suo dovere di eroe necessario e fatale. E’ l’eterno tipo dell’uomo che antepone all’amore la carriera, di eroe o di direttore di banca.
C’è stata da parte di Enea un'ingratitudine e una malafede, tanto grandi da avere spento in lei ogni possibilità di credere nella buona fede che oramai in nessun luogo è sicura "Nusquam tuta fides " (v. 372).
Torniamo sulla fides e sentiamo ancora La Penna-Grassi:" fides è propriamente quella garanzia che si dà col foedus , specialmente collo stringere la destra (cfr. v. 307) e la cui violazione è punita dagli dèi. Didone si riferisce soprattutto alla fides data da Enea col vincolo del matrimonio. Probabile che Virgilio avesse in mente Euripide, Med. 412 s. "Gli uomini vogliono solo frodi, la fede giurata per gli dèi non si regge più"; ancora più probabile l'eco di Catullo 64, 143 s. Nunc iam nulla viro iuranti femina credat,/nulla viri speret sermones esse fideles[3] (ancora una volta si può misurare la differenza di tono: Catullo è più elegiaco, più effusivo, Virgilio più tragico nella sua concisione)"[4].
E’ Arianna, ovviamente, che parla.
L’accusa alla malafede degli uomini, di molti uomini nei confronti delle donne tacciate per giunta di malafede dagli stessi maschi fallaci, si trova nel I stasimo della Medea di Euripide cantato dalle donne Corinzie solidali con Medea tradita da Giasone:
Prima strofe (vv. 410-420)
Verso l'alto scorrono le sorgenti dei sacri fiumi,
e giustizia e ogni diritto a rovescio si torcono.
Sono di uomini i consigli fraudolenti - ajndravsi me;n dovliai boulai,, e la fede
negli dèi non è più ferma - qew`n d j oujkevti pivsti" a[rare-.
La fama
cambierà la mia vita al punto che avrò gloria:
arriva onore alla razza delle donne;
non più una rinomanza infamante screditerà le donne.
Prima antistrofe (vv 421-430)
E le Muse degli antichi poeti smetteranno
di celebrare la mia infedeltà.
Infatti Febo signore del canto
non accordò nel nostro spirito
suono ispirato di lira: poiché avrei intonato un inno di risposta
alla razza dei maschi. Una lunga età ha
molte cose da dire sul nostro ruolo e quello degli uomini. 430
giovanni ghiselli
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