Gian Biagio Conte
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L’interpretazione di Gian Biagio Conte. Orfeo poeta d'amore. La poesia
elegiaca. Un poco di inglese. La violenza dell'uomo sulla terra
Nella
IV Georgica (29 a. C.) Virgilio utilizza la
similitudine dell'usignolo per aggiungere pathos e ornamento mitico al dolore
di Orfeo che ha perduto la sposa. Egli pianse sette mesi tutti interi sotto
un'alta rupe presso l'onda dello Strimone deserto, da solo, e rievocò questi
fatti sotto le gelide stelle ammansendo le tigri e trascinando con il canto le
querce, "qualis populea maerens philomela sub umbra/amissos queritur
fetus, quos durus arator/observans nido implumis detraxit; at illa/flet noctem,
ramoque sedens miserabile carmen/integrat, et maestis late loca questibus
implet " ( vv. 511 - 515), quale l'usignolo addolorato sotto l'ombra
del pioppo lamenta le creature perdute, che il crudele aratore spiando trasse
giù implumi dal nido; ma quello piange nella notte e, posato sul ramo, rinnova
il canto miseando e per largo tratto riempie i luoghi di tristi lamenti.
Il poeta
mantovano contrappone la serietà vincente del bonus agricola Aristeo
alla subita dementia (v. 488), la pazzia improvvisa, al tantus
furor (v. 495), la follia così grande dell'incauto amante poeta Orfeo.
In un suo
lavoro in inglese[1] G. B. Conte individua in
Aristeo il più completo eroe del regno georgico, una figura emblematica
dell'agricoltore, il prototipo del perfetto agricola che trova
nella tenacia i mezzi più efficaci del successo; egli sarà capace di apprendere
da Proteo la causa delle sue disgrazie e di ricevere dalla madre la
prescrizione divina di un rituale che deve compiere senza deviare nemmeno nel minimo
dettaglio. Le due virtù richieste per il suo successo sono prima la tenacia,
per conoscere, poi l'obbedienza, per eseguire. "Tenacitas
(persistence), a humble but effective virtue, is exactly the same force as that
of the farmer who combacts the relutance of the misrly earth "
(p.54), la tenacia, una virtù umile ma produttiva, è esattemente la stessa
forza del contadino che combatte la riluttanza della terra avara.
E' quella
virtù, aggiungo, valorizzata per primo da Esiodo nel suo poema le Opere
e i giorni.
Nell'ultimo
capitolo del De beneficiis Seneca utilizza la figura del
contadino operoso per elogiare e rendere visibile la perseveranza nel fare i
benefici anche all'ingrato:"huic ipsi beneficium dabo iterum et tamquam
bonus agricola cura cultuque sterilitatem soli vincam " (VII,
32), a questo stesso farò ancora del bene, e come un agricoltore bravo vincerò
la sterilità del suolo con un lavoro assiduo.
Conte
individua una parola chiave nell'avvertimento della madre Cirene ad
Aristeo:"Nam sine vi non ulla dabit praecepta, neque illum/orando
flectes; vim duram et
vincula capto/tende "(IV, 398 - 400), infatti senza violenza non
darà[2] alcuna risposta, né lo piegherai
con preghiere; dopo averlo preso, tendi i lacci e una dura violenza.
"Durus, another key word in these
lines, indicates the other, complementary aspect of "tenacity". It
often appears in the Georgics to signify the "hard" reluctance of
nature, which can be overcome only by toil. Thus, labor omnia vicit/improbus
et duris urgens in
rebus egestas (I. 145 - 146)...durus uterque
labor (II. 412)...ipse labore manum duro terat (IV. 114)...and in the end the farmers too must be
"hard" themselves, "resistant to toil": dicendum est quae
sint duris agrestibus
arma,/quis sine nec potuere seri nec surgere messes (I. 160 - 161) ". Vediamo
la traduzione: durus, un'altra parola chiave in questi versi, indica
l'altro, complementare aspetto della tenacia. Essa appare spesso nelle Georgiche per significare la dura
riluttanza della natura, che può essere vinta solo dal lavoro. Così il
lavoro inflessibile ha domato tutto e l'indigenza che spinge nei duri frangenti (I, 145 - 146)...dura l'una e l'altra fatica (II,
412)...egli stesso consumi la mano nella dura fatica...e alla fine anche i contadini devono essere
duri loro stessi, resistenti alla fatica: bisogna dire quali siano le armi
dei duri contadini,
senza le quali non avrebbero potuto essere seminate né levarsi le messi (I, 160
- 161).
Aggiungo di
mio che l'agricoltura è come una guerra, non meno dell'amore il quale comporta
pure labor, ma mentre la fatica del contadino, secondo Virgilio, è
produttiva, quella degli amanti, sempre secondo Virgilio, è distruttiva.
Torniamo a
G. B. Conte:"Resistance to toil, knowing how to persevere in an arduous
task with faith and obstinacy - these are Roman virtues. They are ancient
virtues but remain relevant, and it is these which obtain success for Aristaeus
when they are wedded to scrupulous obedience to divine dictates ",
resistenza al lavoro, sapere come perseverare in uno strenuo dovere con fede e
ostinazione - queste sono virtù romane. Sono virtù antiche ma rimangono
rilevanti, e sono queste a ottenere successo per Aristeo quando sono
coniugate a scrupolosa obbedienza
ai dettami divini.
Orfeo,
d'altro lato, fallisce. Egli manca lo scopo poiché contravviene alle rigorose
condizioni imposte dal dio della morte: rupta tyranni/foedera (Georgica IV.
492 - 93), è infranto il patto del tiranno.
Egli volta
gli occhi sull'oggetto del suo amore, e così viola la lex (condizione)
dettata da Proserpina (487). L'amore lo trasporta e fa di lui un mentecatto. La
pazzia d'amore inganna Orfeo: in quanto suo prigioniero, egli non mantiene
l'obbedienza alla volontà degli dèi (p. 55). Del resto "Orpheus is not
only an unfortunate lover: he is above all a poet, a passionate singer of his
love " (p. 57), Orfeo non è soltanto un amante sfortunato; egli è
soprattutto un poeta, un cantore appassionato del suo amore.
Procedo con
il testo di Conte citandolo già tradotto. Nelle Argonautiche di
Apollonio Rodio (I. 496 - 511) Orfeo placa una lite tra i suoi compagni di
navigazione cantando un poema scientifico (empedocleo) sulla genesi del cosmo:
tale modo quasi lucreziano non sarebbe del tutto estraneo a un poema didattico
e georgico, come quello di Virgilio. Ma invece questo Orfeo canta d'amore, il
dolore della separazione, la perdita della donna che ama. In breve, questa è
una poesia fatta di vicende personali, di passione infelice. In questo modo noi
abbiamo identificato un'altra ragione dell'intrinseca debolezza di Orfeo: egli
non è solo un amante ma un amante - poeta, un personaggio che rivolge l'amore,
o piuttosto la sofferenza d'amore a oggetto esclusivo del suo canto.
Egli è
davvero il prototipo del poeta - cantore.
Materia del
suo canto (riassumo) è la sofferenza amorosa. Inoltre egli è solo (un
desocializzato, aggiungo, come un artista decadente) e il furore erotico che è
la vera fonte della sua poesia (il suo canto è nutrito dalla passione che lo
accieca) finisce con il distruggerlo. Il medesimo paradosso si trova
all'origine di molta poesia elegiaca...Come può un poeta elegiaco essere
definito esattamente in un pungente epigramma? Domizio Marso[3] (ex incertis libris ,
verse 9 Morel corrisponde al frammento 7 - 3 Courtney) definisce Tibullo
come elegis molles qui fleret amores ( un elegiaco che piange
su teneri amori), una definizione che potrebbe essere applicata all'elegia in
generale.
Cantando il
suo erotikon pathema (sofferenza amorosa), l'Orfeo di Virgilio
canta nei modi di un poeta elegiaco, proprio come Gallo, il fondatore
dell'elegia latina che soffre d'amore nell'ecloga X (14 - 15)...la poesia d'amore fallisce poiché è
costituzionalmente separata dall'azione: è completamente e integralmente
egotistica...C'è davvero un'opposizione tra poesia georgica e poesia d'amore
che nasce da un'opposizione tra una "dimensione pratica" e una
"dimensione contemplativa...La solitudine allontana il poeta d'amore dal
mondo reale, lo rinvia a se stesso, lo rende egotisticamente indifferente ad
ogni sollecitazione esterna. Chiuso in questa autonomia, egli non è capace (né
vuole) rompere il suo circolo chiuso, fuori dal quale soltanto può esserci la
salvezza. Questo è il paradosso del poeta elegiaco, e il paradosso di Orfeo,
uno che ha il potere di cantare ma non quello di agire...Da una parte c'è Virgilio e il mondo di
Aristeo, dall'altra una poesia del tutto privata che obbedisce soltanto alla
legge del servitium amoris, inventa una forma del mondo chiusa e
assoluta, e di fatto sostiene un ideologia anarchica indifferente ai valori
della collettività "[4].
Vorrei fare
una riflessione su questo e segnalare che i sentimenti privati, quelli
conseguenti agli amori penosi in particolare, divengono prevalenti in
letteratura, rispetto agli interessi storici e politici, sotto le tirannidi che
tolgono spazio alla dialettica, all'interesse per la collettività e ammettono
la propaganda al potere, oppure l'effusione di stati d'animo individuali purchè
innocui o funzionali al regime. Il fallimento in amore annienta ogni volontà di
resistenza all'oppressione.. A Virgilio certamente non mancò il favore di
Augusto. La sua poesia di sicuro non contiene alcuna critica al potere, anzi lo
celebra. Se pure è politica lo è in modo conservativo e anche reazionario.
Curiazio
Materno, portavove di Tacito, nel Dialogus de oratoribus[5] afferma di preferire l'impegno
del poeta a quello dell'oratore:"Licet illos certamina et pericula sua
ad consulatus evexerint, malo securum et quietum Virgilii secessum, in quo
tamen neque apud divum Augustum gratia caruit neque apud populum romanum
notitia" (13), anche se quelli[6] hanno elevato fino al consolato
le loro lotte e i pericoli corsi, preferisco il ritiro tramquillo e sereno di
Virgilio, nel quale comunque non gli mancarono il favore del divo Augusto né la
notorietà presso il popolo romano.
Virgilio del
resto, continua Conte, non è che non provi simpatia e comprensione per Orfeo.
"Al contrario, Virgilio sa come rendere omaggio alla poesia elegiaca come
la forma poetica più adatta a rappresentare la debolezza umana e capace di
conquistare la simpatia per la sofferenza di chiunque soffra un fallimento
esistenziale (...) Mentre mostra tutta la forza e la malia del destino del
poeta Orfeo, Virgilio simultaneamente denuncia i costi della scelta
"debole" , quella dell'elegia, e il prezzo "amaro" della
sua scelta "forte" , la missione di una committenza didattica che
esalti i valori semplici e solidi della vita del contadino. Il suo arator
è durus , e le virtù che lo guidano devono essere indifferenti
al funereo lamento del povero usignolo privato del suo nido; ma questa è
la dura legge del mondo che Giove ha voluto per gli uomini, il
mondo del lavoro.
Aggiungo che
Enea è stato indifferente al funereo lamento della donna che lo aveva salvato e
lo amava.
Conte in una
nota segnala opportunamente il nesso della sua asserzione asserzione con i vv.
207 - 211 della Georgica II :"aut unde iratus silvam
devexit arator/et nemora evertit multos ignava per annos/antiquasque domos
avium cum stirpibus imis/eruit: illae altum nidis petiere relictis;/at nudis
enituit impulso vomere campus ", o da dove l'aratore operò una
deforestazione con ira, e sradicò i boschi per molti anni improduttivi, e
antiche dimore di uccelli strappò con le radici profonde: quelli volarono in
alto lasciati i nidi, ma nuovo brillò sotto la spinta del vomere una campo.
Virgilio
spiega quale terra è optima frumentis (205), ottima per il
grano: o quella nera e grassa e resa molle dall’aratro o questa deforestata.
In
questi versi c'è anche la violenza dell'uomo che pure vuole migliorare la sua
condizione sulla terra:"il poeta didattico osserva questa azione violenta
dalla prospettiva degli uccelli che vivevano sugli alberi che sono stati
tagliati, quando essi vedono il loro nido sacrificato alle dure necessità del
contadino...Il protagonista delle Georgiche - il paziente,
tenace agricola capace di coronare la sua fatica con il successo - è
anche un carattere non privo di ombre, e richiede, anche lui, della
vittime"[7].
Al pari di
Enea.
Aggiungo che
la violenza dell'uomo nei confronti della natura[8] viene segnalata con maggiori
indicazioni negative da Sofocle il
quale nel primo stasimo dell'Antigone mette in luce la doppiezza
della sofiva tecnologica:" Possedendo il ritrovato della tecnologia,/ che è
un qualche sapere , oltre l'aspettativa (sofovn ti to; macanoven - tevcna"
uJpe;r ejlpivd' e[cwn - tote;
me;n kakovn, a[llot' ejp' ejsqlo;n eJvrpei)/ora si volge al male, ora al
bene./ e le leggi della terra unendo/e degli dei la giurata giustizia/è grande
nella città; bandito dalla città è quello con il quale /coesiste il brutto
morale, per la sfrontatezza./Non mi stia accanto sul focolare/né abbia lo
stesso pensiero/chi compie queste azioni" (vv. 365 - 375).
[1]Gian Biagio
Conte, Aristaeus, Orpheus, and the Georgics: Once Again , in
Poets And Critics Read Vergil, Yale University Press, 2000.
[2] Il
soggetto è Proteo.
[3] Poeta
dell'età augustea, ammiratore di Tibullo.
[4]Gian Biagio
Conte, Aristaeus, Orpheus, and the Georgics: Once Again , in
Poets And Critics Read Vergil, Yale University Press., p. 58 ss.
[5] Di data incerta. Anche l'attribuzione
a Tacito non è del tutto sicura. Lo stile è molto differente da quello delle
altre opere dello storiografo. Tuttavia propendo per la paternità tacitiana.
Questo dialogo non contraddice il pensiero di Tacito. Il Dialogus è
“il trattato retorico più agile e fresco che, dopo il Bruto di
Cicerone, l’antichità ci abbia tramandato” (C. Marchesi, Tacito, p.
45). La maniera è ciceroniana e la paternità tacitiana ha aperto una questione
“sulla quale forse gli eruditi non finiranno mai di discutere”. Beato Renano la
contestò nel 1519; Giusto Lipsio, il filologo belga del secolo decimosesto, la
negò recisamente nel 1574. Lipsio ammette che lo stile possa variare con l’età
ma non in modo da svanire del tutto (sed numquam ut abeat prorsus a se).
Invero se il Dialogus fu scritto verso il principio del regno
di Domiziano (81) “l’argomento stilistico perde il suo peso” (Concetto
Marchesi, Tacito, pp. 46). I quindici anni di quel regno
furono un tempo di esperienze esasperate che possono cambiare un uomo. Tacito
stesso nell’Agricola annuncia la sua incondita ac rudis vox (3)
e Plinio il Giovane in VIII, 3 scrive ad Aristone: “reducta libertas rudes
nos et imperitos deprehendit ”.
[6] Gli oratori.
[7]G. B. Conte,
op. cit., n. 30, p. 62.
[8] Che spesso si accompagna alla violenza
sulla donna e sull'umanità in genere.
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