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Prendo di nuovo spunto dal libro di
Piergiorgio Valente che sto commentando
“Incessantemente eroico, il tempo è
dolore di pietra: nulla sembra lenire l’angoscia delle fanciulle di Caria,
addolcirne lo sguardo o sciogliere il grumo di rassegnata fatalità, che eventi
lontani rappresero infausti negli animi” (Esodi di Mezzanotte, p. 51).
Le Cariatidi sono statue in
forma di ragazza, insomma colonne antropomorfe che sostengono il portico
dell’Eretteo nell’acropoli di Atene.
In un’ampia nota (la 177 a p. 137)
Valente cita un passo del De architectura di Vitruvio dove
l’autore scrive: “I Greci presero la comune decisione di far guerra agli
abitanti di Caria . Espugnata la rocca, tutti gli uomini validi, incendiarono
la città e ridussero in schiavitù le donne, senza però far loro smettere le
stole e gli altri ornamenti matronali. Vollero infatti che espiassero per tutti
i loro concittadini, oppresse dalla vergogna di una gravosa esemplare schiavitù
non soltanto durante la celebrazione del trionfo, ma per sempre (…) Gli
architetti del tempo rappresentarono allora nei pubblici edifici le immagini
delle donne di Caria nell’atto di sopportare pesanti carichi, volendo ricordare
ai posteri la loro colpa e il loro castigo”.
Il testo di Valente contiene molte
altre note interessanti, ma per le altre rimando i lettori di questa recensione
a Esodi di Mezzanotte.
Negli altri casi ho voluto
variare le citazioni dalle fonti antiche. In questo caso non ero in grado di
farlo.
“In nobili tratti la compostezza dei
volti avviluppa lo strazio del cuore. pietrificato l’urlo nel silenzio immoto
dei secoli passati.
Ancora vive nel marmo - all’interno
- grande pena, rannicchiata nelle riposte pieghe dello spirito ove”in viva
morte morta vita”[1].
“Non piangeranno più le tristi
fanciulle di Caria, non ne avranno motivo infine, serene umili vinte” (Esodi
di Mezzanotte, p. 51).
Un correlativo letterario di queste
fanciulle di Caria che reggono l’Eretteo può essere Polissena sacrificata sulla
tomba di Achille nell’Ecuba di Euripide. Polissena dice a Odisseo
che non deve temere di venire importunato da suppliche. “Ti seguirò per via
della necessità, poi sono io che voglio morire” qanei'n te
crhv/zomai (347).
Se non lo volessi, continua Polissena, kakh; fanou'mai
kai; filovyuco" gunhv (348) apparirò
quale donna vile e attaccata alla vita. Vengo da una condizione principesca,
una ragazza h|/ path;r h\n a[nax - Frugw'n ajpavntwn (349 - 350), una il cui padre era il signore di tutti i Frigi, e
dovevo sposare un re. Avevo molti pretendenti. Ero i[sh qeoi'si
plh;n to; katqanei'n movnon (356), simile
alle dèe a parte che sarei dovuta morire, nu'n dj eijmi; douvlh, ora sono una schiava. Basta questo
nome cui non sono avvezza a farmi amare il morire. Ora posso essere comprata per
denaro da padroni crudeli, io, la sorella di Ettore e di molti altri eroi,
addetta alla necessità di fare il pane, - prosqei;" d j ajnavgkhn sitopoiovn ejn dovmoi", 362, di spazzare la casa - saivrein te dw'ma - e stare al telaio 363.
Uno schiavo comprato da qualche parte dou'lo"
wjnhtov" povqen insozzerà il
mio letto - levch de; tajma; cranei' , che una volta era
considerato degno di principi. No di certo - Ouj dh't j (367). Mando fuori dagli occhi una luce libera attribuendo il
mio corpo all’Ade (367).
Polissena quindi chiede alla madre di non impedirle quanto ha
deciso: mhde;n ejmpodwvn gevnh/ (372), anzi di condividere la sua volontà: morire è meglio che subire
turpitudini immeritate (374). Chi non è abituato ad assaggiare i mali li porta
sul collo con sofferenza e si sente più fortunato morendo.
Soltanto nella bellezza si può tollerare il dolore di vivere, afferma Polissena
quando antepone una morte dignitosa a una vita senza onore:"to; ga;r zh'n
mh; kalw'~ mevga~ povno~, (Ecuba , v. 378), vivere senza
bellezza è un grande tormento".
Taltibio dice di avere provato
compassione. Poi racconta: “la prese per mano il figlio di Achille seguito da
un manipolo di Achei scelti - lektoi; t j jAcaiw'n. Detto forse da Euripide con ironia
come fa Lucrezio con “ductores Danaum delecti, prima virorum”
(De rerum natura, I, 86) a proposito del sacrificio di Ifigenia.
Questi lektoiv dovevano trattenere con le
mani l’eventuale skivrthma movscou (526) balzo della vitella.
Cfr. divkan
cimaivra~ dell’ Agamennone (232)
dove Ifigenia è sollevata sull’altare del sacrificio “come una capra”.
Quando Neottolemo ebbe impugnato la
spada, Polissena parlò in maniera davvero nobile, da sorella di Ettore e
principessa di Troia: ejkou'sa qnhvskw: mh; ti" a{yhtai croov" - toujmou' (548 - 549), di mia volontà muoio,
nessuno tocchi la pelle mia, offrirò infatti la gola con cuore saldo.
Ammazzatemi lasciandomi libera,
perché muoia libera - wJ" ejleuqevra qavnw (Ecuba, 550), io che
sono di stirpe regale - basiliv" - non voglio essere chiamata schiava (douvlh, 552)
Polissena ha osservato persino
l’etichetta della principessa pur in un momento che avrebbe sconvolto chiunque
ma, come si dice, noblesse oblige. La folla apprezzò e applaudì.
Agamennone ordinò ai guardiani di scostarsi. Polissena lacerò il proprio peplo
dalla spalla all’ombelico e scoprì le mammelle e il petto bellissimo come di
statua - mastouv" tj e[deixe stevrna q j w" ajgavlmato" - kavllista (560 - 561).
Poi la principessa posò a terra il
ginocchio.
(cfr.Lucrezio e la sua Ifigenia, molto
diversa muta metu genibus summissa petebat, I, 92)
Quindi Polissena disse parole
piene di coraggio: ecco, giovane pai'son, colpisci il petto se vuoi, o la
gola che è qui pronta - laimo;" eujtreph;" o{de (565).
Il figlio di Achille per compassione
della ragazza non volendo e anche volendo - o[ d j ouj qevlwn te kai; qevlwn
oi[ktw/ kovrh" (566),
taglia con il ferro i canali del respiro tevmnei
sidhvrw/ pneuvmato" diarroav" (567).
Mentre moriva, la principessa
troiana si dava comunque molta cura di cadere in bella forma pollh;n
provnoian ei\cen eujschvmwn pesei'n (569) con decoro , coprendo ciò che si deve coprire
rispetto agli occhi degli uomini - kruvptous j a} kruvptein ommat j
ajrsevnwn crewvn (570).
Ovidio scrive:
“ pertulit intrepidos ad
fata novissima vultus
tunc quoque cura fuit partes velare
tegendas
cum caderet, castique decus servare
pudoris” (Metamorfosi,
XIII, 478 - 480), portò avanti lo sguardo fiero fino all’ultimo istante
concesso e anche allora cadendo ebbe cura di tenere celate le parti da coprire
e di conservare il decoro del casto pudore.
Quindi la splendida ragazza muore e
tutti si davano da fare per onorarla: alcuni dalle mani gettavano foglie - ejk cerw'n fuvlloi"
e[ballon sul
cadavere, altri accatastavano tronchi di pino per il rogo.
[1] La
nota 78 a p. 137 di Esodi di Mezzanotte ci informa che la
citazione è tratta da Eroici furori (1585) di Giordano Bruno.
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