La fortuna corrisponde
alla Tuvch la cui presenza è molto forte in gran parte della letteratura ellenistica,
cominciando anzi da Euripide con il quale si trasformano o tramontano
gli dèi tradizionali, mentre al loro posto si alza nel cielo la sorte ambigua,
cangiante e capricciosa: l'infausta tuvch è subentrata ai fausti dèi. La regina protagonista
dell' Ecuba[1] la considera una dei tiranni di
un'umanità rimasta senza fedi né valori, una specie di creature materialiste,
sanguinarie, idolatre: "non c'è tra i mortali chi sia libero:/infatti
siamo schiavi delle ricchezze oppure della sorte" (vv. 864 - 865). L'uomo
cerca di vivere secondo ragione, ma i suoi tentativi vengono frustrati dalla
fortuna. La sua difesa e salvezza stanno nel considerarla con calma ironica.
Nello Ione[2], che prelude più di ogni dramma
euripideo alla commedia di Menandro, il riconoscimento del figlio da parte
della madre avviene attraverso casi fortuiti, per mezzo di questa tyche oramai
spogliata da connotazioni teologiche. La sorte dunque non è costantemente
maligna: Ione che è stato sul punto di uccidere la madre le rivolge
un'apostrofe: "O tu che cambi mille volte le sorti dei mortali:/ li getti
nella sventura, poi doni loro il successo/ Tuvch..." (vv.1512 - 1514).
Euripide nell'Eracle[3] fa dire ad Anfitrione: "oi{ tì eujtucou'nte" dia;
tevlou" oujk eujtucei'". - ejxivstatai ga;r pavnt' ajp' ajllhvlwn divca" (vv. 103 - 104), chi ha
fortuna non è fortunato sino alla fine. Si spostano infatti tutte le cose da
una parte all'altra vicendevolmente. Poco più avanti lo stesso personaggio
facendo l'elogio dell'arciere e del suo equipaggiamento afferma con una felice
metafora marina che è cosa saggia non essere ormeggiato alla sorte (sofovn… mh; 'k tuvch" wJrmismevnon , v. 203).
La Fortuna è la divinità di Menandro: nel Misantropo ,
Sostrato il giovane ricco che vuole sposare una ragazza povera e dare in moglie
a un povero sua sorella, replica al padre il quale esita a "prendersi
insieme un genero e una nuora pezzenti" (v. 795), con l'affermazione che
tutto quanto appartiene a un uomo non è veramente suo, ma della Sorte la quale,
come ha dato, può togliere.
Polibio nelle sue Storie torna spesso a parlare della
Fortuna indicandola quale grande potenza che manovra le vicende umane a proprio
arbitrio: Emilio Paolo, dopo Pidna mostrava Perseo, il re macedone sconfitto e
umiliato, ai circostanti e li esortava a non esaltarsi troppo per i successi a
non decidere con arroganza o in modo inesorabile verso alcuno, e, in generale,
a non fidarsi mai del tutto della prosperità presente ("mhvte kaqovlou
pisteuvein mhdevpote tai'" parouvsai" eujtucivai"", XXIX 20 1).
Polibio ricorda anche le parole
di Demetrio Falereo[4] il quale scrisse un trattato Sulla
Tyche , e, dalla distruzione dell'impero persiano da parte di
Alessandro, inferisce la crudeltà e la volubilità della Fortuna che tutto
continua a mutare contro ogni calcolo nostro ("panta para;
to;n logismo;n to;n hJmevteron kainopoiou'sa", XXIX 21, 5).
Nel libro XXIII lo storiografo di
Megalopoli, riflettendo sulla morte di Filopemene, scrive che egli cadde
battuto, più che dai Messeni, dalla Fortuna la quale può sostenere un essere
umano a lungo, però mai per tutta la vita. I fortunati allora sono coloro che,
raramente abbandonati dalla Fortuna, anche se quella una volta cambia parere,
subiscono disavventure di modesta entità ("ka[n pote
metanoh'/, metrivai" peripesovnta" sumforai'"", 12, 6).
Un altro esempio di mutevolezza
della Fortuna, Polibio lo ricava dal fatto che al tempo della Terza guerra
Punica nel Peloponneso furono rimesse alla luce ("eij" to;
fw'"") le
statue dello stratego Licorta[5] e riposte al buio ("kata; to;
skovto"",
XXXVI, 13, 1) quelle del delatore Callicrate: quindi si capì che la funzione
della Tyche è quella di rovesciare le situazioni e
sottomettere i legislatori alle leggi che essi stessi hanno concepito. Qui
invero la Fortuna non sembra indifferente alla Giustizia.
Un' ultima riflessione polibiana
sulla Fortuna si trova nella conclusione delle Storie dove l'autore
si augura di non cambiare condizioni né disposizione d'animo, dato che vede
la Tuvch pronta a
invidiare gli uomini e spiegare tutta la sua forza soprattutto nei casi in cui
uno crede di avere conseguito il massimo della felicità e del successo nella
vita. In quest'ultima riflessione la Fortuna sembra simile alla divinità
erodotea la quale, invidiosa e perturbatrice (I, 32), non permette a Policrate
di Samo, o a Creso di Lidia, o a Serse di Persia, di rimanere a lungo sui
vertici della ricchezza e del potere.
Un riconoscimento dell'onnipotenza
della Fortuna si trova nella Vita di
Demetrio (35) di Plutarco il quale, a proposito
delle alterne vicende del grande avventuriero epigono di Alessando Magno, fa
questo commento: "Sembra che non ci sia stato altro re cui la Fortuna
abbia imposto rivolgimenti così grandi e improvvisi come a Demetrio; e che ella
stessa, la Sorte, non sia stata, nelle vicende degli altri sovrani, tante volte
piccola e poi grande, né divenne tanto umile da splendida che era, e poi
ancora, da misera potente. Dicono che Demetrio nei più gravi sconvolgimenti
apostrofava la Fortuna con le parole di Eschilo[6]: "Tu che
mi hai fatto, ora sembri schiacciarmi".
La riflessione sulla mutevolezza della sorte non è soltanto
ellenistica o euripidèa: si pensi al discorso di Solone a Creso in Erodoto quando
il saggio ateniese dice al pacchiano re barbaro che l'uomo è del tutto in balia
del caso (pa'n ejsti a[nqrwpo" sumforhv, I 32); oppure, risalendo ancora molto più indietro, si ricordi Archiloco il
quale rivolge
un'ammonizione "fatalistica" a se stesso in questi termini: animo (qumevv), animo sconvolto da affanni senza
rimedio/sorgi e difenditi dai malevoli, contrapponendo/il petto di fronte,
piantandoti vicino agli agguati dei nemici/con sicurezza: e quando vinci non
gloriartene davanti a tutti,/e, vinto, non gemere buttandoti a terra in
casa./Ma nelle gioie gioisci e nei dolori affliggiti/non troppo: riconosci
quale ritmo governa gli uomini ("mh; livhn / givgnwske d&
oi'Jo" rJusmo;" ajnqrwvpou" e[cei", fr. 67aD.)
Nella Parodo delle Trachinie di
Sofocle il Coro invita Deianira desolata per le lunghe e quasi continue assenze
di Eracle a non disperare: "all' ejpi; ph'ma kai; cara; - pa'si kuklou'sin, oi|on
a[r - ktou strofavde" kevleuqoi - mevnei gar ou[t' aijovla - nu;x
brotoi'sin ou[te plou'to", ajll' a[far - bevbake, tw'/ ejpevrcetai - caivrein
te kai; stevresqai" (vv. 129 - 135), ma la pena e la
gioia girano attorno a tutti, come i cammini dell'Orsa che ruota. Infatti non
dura la notte stellata per i mortali, né la ricchezza, ma appena è arrivato
passa ad un altro l’essere felice e l’essere privo.
Prima della battaglia di Zama (202
a. C.) Annibale disse a Scipione che la tuvch è mutevole e si comporta con gli
uomini kaqavper eij nhpivoi" paisi; crwmevnh (Polibio, XV, 68), come se trattasse
dei bambini infanti.
Oppure Re Lear: “As flies to wanton boys are we to the Gods: they kill
us for their sport” (IV, 1).
Epitteto suggerisce un rimedio: chi
vuole essere libero non desideri e no rifugga niente di ciò che dipende da
altro che da se stesso, eij de; mh; douleuvein ajnavgkh (Manuale, 14), se no
sarà per forza schiavo.
Passiamo alla letteratura latina: Seneca ripropone questa gnome radicalizzandola
nella consolazione indirizzata alla madre Elvia dall'esilio in Corsica[7]: "nec secunda sapientem
evĕhunt, nec adversa demittunt" (Ad Helv. , 5, 1), i successi
non esaltano il saggio e le avversità non lo abbattono. Infatti tutto ciò che
viene dall'esterno e non dipende da noi è di poca importanza: "leve
momentum in adventiciis rebus est ". Bisogna stare sempre
all'erta contro gli attacchi della fortuna: "Illis gravis est, quibus
repentina est: facile eam sustĭnet qui semper expectavit " (5,
3), è terribile per quelli sui quali giunge imprevista: le resiste facilmente
chi ne aspetta sempre l'attacco.
Tacito nelle Historiae (
I, 18) sostiene che quanto spetta al destino non si evita nemmeno se veniamo
preavvisati, mentre nei successivi Annales lo storiografo dichiara di
non sapere se le vicende umane si svolgano regolate dal fato e da una necessità
immutabile, oppure vadano a caso:" mihi... in incerto
iudicium est fatone res mortalium et necessitate immutabili an forte volvantur "
(VI, 22) .
Concludiamo con Il Principe: Nel penultimo capitolo Machiavelli volendo
stabilire "Quanto possa la Fortuna nelle cose umane e in che modo se li
abbia a resistere" attribuisce tanta importanza alla fortuna quanta alla
capacità dell'uomo: " iudico potere esser vero che la fortuna sia arbitra
della metà delle azioni nostre, ma che etiam lei ne lasci governare l'altra
metà, o presso, a noi"[8]. Pertanto non bisogna
"iudicare" che non si debba "insudare molto nelle cose ma
lasciarsi governare dalla sorte". Infatti la fortuna"dimostra la sua
potenzia dove non è ordinata virtù a resisterle, e quivi volta li sua impeti,
dove la sa che non sono fatti li argini e li ripari a tenerla".
giovanni ghiselli
p. s
Ringrazio le decine e decine di
persone che mi hanno fatto gli auguri. Non ho risposto a tutti perché mi trovo
in difficoltà quando cerco di replicare ai messaggi. Chi vuole una risposta,
utilizzi la posta elettronica. g.ghiselli@tin.it
Questa so usarla
[1] 425 - 424 ? a. C.
[2] 411 ? a. C.
[3] Di cronologia incerta: tra il 423 e il
414.
[4] Scrittore, filosofo peripatetico e
uomo politico che governò Atene per Cassandro, reggente di Macedonia, dal 317
al 307.
[5]Che poi era il
padre dello storiografo.
[6]fr. 359 Nauck.
[7] Dove era
dovuto andare nel 41 d. C. La Consolatio è del 42 o 43 d. C.
[8]Il Principe , XXV.
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