NUOVE DATE alla Biblioteca «Ginzburg»: Protagonisti della storia antica

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sabato 14 novembre 2020

La Fortuna

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La fortuna corrisponde alla Tuvch la cui presenza è molto forte in gran parte della letteratura ellenistica, cominciando anzi da Euripide con il quale si trasformano o tramontano gli dèi tradizionali, mentre al loro posto si alza nel cielo la sorte ambigua, cangiante e capricciosa: l'infausta tuvch è subentrata ai fausti dèi. La regina protagonista dell' Ecuba[1] la considera una dei tiranni di un'umanità rimasta senza fedi né valori, una specie di creature materialiste, sanguinarie, idolatre: "non c'è tra i mortali chi sia libero:/infatti siamo schiavi delle ricchezze oppure della sorte" (vv. 864 - 865). L'uomo cerca di vivere secondo ragione, ma i suoi tentativi vengono frustrati dalla fortuna. La sua difesa e salvezza stanno nel considerarla con calma ironica.

 

Nello Ione[2], che prelude più di ogni dramma euripideo alla commedia di Menandro, il riconoscimento del figlio da parte della madre avviene attraverso casi fortuiti, per mezzo di questa tyche oramai spogliata da connotazioni teologiche. La sorte dunque non è costantemente maligna: Ione che è stato sul punto di uccidere la madre le rivolge un'apostrofe: "O tu che cambi mille volte le sorti dei mortali:/ li getti nella sventura, poi doni loro il successo/ Tuvch..." (vv.1512 - 1514).

Euripide nell'Eracle[3] fa dire ad Anfitrione: "oi{ tì eujtucou'nte" dia; tevlou" oujk eujtucei'". - ejxivstatai ga;r pavnt' ajp' ajllhvlwn divca" (vv. 103 - 104), chi ha fortuna non è fortunato sino alla fine. Si spostano infatti tutte le cose da una parte all'altra vicendevolmente. Poco più avanti lo stesso personaggio facendo l'elogio dell'arciere e del suo equipaggiamento afferma con una felice metafora marina che è cosa saggia non essere ormeggiato alla sorte (sofovnmh; 'k tuvch" wJrmismevnon , v. 203).

 

La Fortuna è la divinità di Menandro: nel Misantropo , Sostrato il giovane ricco che vuole sposare una ragazza povera e dare in moglie a un povero sua sorella, replica al padre il quale esita a "prendersi insieme un genero e una nuora pezzenti" (v. 795), con l'affermazione che tutto quanto appartiene a un uomo non è veramente suo, ma della Sorte la quale, come ha dato, può togliere.

Polibio nelle sue Storie torna spesso a parlare della Fortuna indicandola quale grande potenza che manovra le vicende umane a proprio arbitrio: Emilio Paolo, dopo Pidna mostrava Perseo, il re macedone sconfitto e umiliato, ai circostanti e li esortava a non esaltarsi troppo per i successi a non decidere con arroganza o in modo inesorabile verso alcuno, e, in generale, a non fidarsi mai del tutto della prosperità presente ("mhvte kaqovlou pisteuvein mhdevpote tai'" parouvsai" eujtucivai"", XXIX 20 1).

 

Polibio ricorda anche le parole di Demetrio Falereo[4] il quale scrisse un trattato Sulla Tyche , e, dalla distruzione dell'impero persiano da parte di Alessandro, inferisce la crudeltà e la volubilità della Fortuna che tutto continua a mutare contro ogni calcolo nostro ("panta para; to;n logismo;n to;n hJmevteron kainopoiou'sa", XXIX 21, 5).

Nel libro XXIII lo storiografo di Megalopoli, riflettendo sulla morte di Filopemene, scrive che egli cadde battuto, più che dai Messeni, dalla Fortuna la quale può sostenere un essere umano a lungo, però mai per tutta la vita. I fortunati allora sono coloro che, raramente abbandonati dalla Fortuna, anche se quella una volta cambia parere, subiscono disavventure di modesta entità ("ka[n pote metanoh'/, metrivai" peripesovnta" sumforai'"", 12, 6).

 

Un altro esempio di mutevolezza della Fortuna, Polibio lo ricava dal fatto che al tempo della Terza guerra Punica nel Peloponneso furono rimesse alla luce ("eij" to; fw'"") le statue dello stratego Licorta[5] e riposte al buio ("kata; to; skovto"", XXXVI, 13, 1) quelle del delatore Callicrate: quindi si capì che la funzione della Tyche è quella di rovesciare le situazioni e sottomettere i legislatori alle leggi che essi stessi hanno concepito. Qui invero la Fortuna non sembra indifferente alla Giustizia.

 

Un' ultima riflessione polibiana sulla Fortuna si trova nella conclusione delle Storie dove l'autore si augura di non cambiare condizioni né disposizione d'animo, dato che vede la Tuvch pronta a invidiare gli uomini e spiegare tutta la sua forza soprattutto nei casi in cui uno crede di avere conseguito il massimo della felicità e del successo nella vita. In quest'ultima riflessione la Fortuna sembra simile alla divinità erodotea la quale, invidiosa e perturbatrice (I, 32), non permette a Policrate di Samo, o a Creso di Lidia, o a Serse di Persia, di rimanere a lungo sui vertici della ricchezza e del potere.

 

Un riconoscimento dell'onnipotenza della Fortuna si trova nella Vita di Demetrio (35) di Plutarco il quale, a proposito delle alterne vicende del grande avventuriero epigono di Alessando Magno, fa questo commento: "Sembra che non ci sia stato altro re cui la Fortuna abbia imposto rivolgimenti così grandi e improvvisi come a Demetrio; e che ella stessa, la Sorte, non sia stata, nelle vicende degli altri sovrani, tante volte piccola e poi grande, né divenne tanto umile da splendida che era, e poi ancora, da misera potente. Dicono che Demetrio nei più gravi sconvolgimenti apostrofava la Fortuna con le parole di Eschilo[6]: "Tu che mi hai fatto, ora sembri schiacciarmi".

 La riflessione sulla mutevolezza della sorte non è soltanto ellenistica o euripidèa: si pensi al discorso di Solone a Creso in Erodoto quando il saggio ateniese dice al pacchiano re barbaro che l'uomo è del tutto in balia del caso (pa'n ejsti a[nqrwpo" sumforhv, I 32); oppure, risalendo ancora molto più indietro, si ricordi Archiloco il quale rivolge un'ammonizione "fatalistica" a se stesso in questi termini: animo (qumevv), animo sconvolto da affanni senza rimedio/sorgi e difenditi dai malevoli, contrapponendo/il petto di fronte, piantandoti vicino agli agguati dei nemici/con sicurezza: e quando vinci non gloriartene davanti a tutti,/e, vinto, non gemere buttandoti a terra in casa./Ma nelle gioie gioisci e nei dolori affliggiti/non troppo: riconosci quale ritmo governa gli uomini ("mh; livhn / givgnwske d& oi'Jo" rJusmo;" ajnqrwvpou" e[cei", fr. 67aD.)

 

Nella Parodo delle Trachinie di Sofocle il Coro invita Deianira desolata per le lunghe e quasi continue assenze di Eracle a non disperare: "all' ejpi; ph'ma kai; cara; - pa'si kuklou'sin, oi|on a[r - ktou strofavde" kevleuqoi - mevnei gar ou[taijovla - nu;x brotoi'sin ou[te plou'to", ajlla[far - bevbake, tw'/ ejpevrcetai - caivrein te kai; stevresqai" (vv. 129 - 135), ma la pena e la gioia girano attorno a tutti, come i cammini dell'Orsa che ruota. Infatti non dura la notte stellata per i mortali, né la ricchezza, ma appena è arrivato passa ad un altro l’essere felice e l’essere privo. 

Prima della battaglia di Zama (202 a. C.) Annibale disse a Scipione che la tuvch è mutevole e si comporta con gli uomini kaqavper eij nhpivoi" paisi; crwmevnh (Polibio, XV, 68), come se trattasse dei bambini infanti.

Oppure Re Lear: “As flies to wanton boys are we to the Gods: they kill us for their sport” (IV, 1).

Epitteto suggerisce un rimedio: chi vuole essere libero non desideri e no rifugga niente di ciò che dipende da altro che da se stesso, eij de; mh; douleuvein ajnavgkh (Manuale, 14), se no sarà per forza schiavo.

 

Passiamo alla letteratura latina: Seneca ripropone questa gnome radicalizzandola nella consolazione indirizzata alla madre Elvia dall'esilio in Corsica[7]: "nec secunda sapientem evĕhunt, nec adversa demittunt" (Ad Helv. , 5, 1), i successi non esaltano il saggio e le avversità non lo abbattono. Infatti tutto ciò che viene dall'esterno e non dipende da noi è di poca importanza: "leve momentum in adventiciis rebus est ". Bisogna stare sempre all'erta contro gli attacchi della fortuna: "Illis gravis est, quibus repentina est: facile eam sustĭnet qui semper expectavit " (5, 3), è terribile per quelli sui quali giunge imprevista: le resiste facilmente chi ne aspetta sempre l'attacco. 

 Tacito nelle Historiae ( I, 18) sostiene che quanto spetta al destino non si evita nemmeno se veniamo preavvisati, mentre nei successivi Annales lo storiografo dichiara di non sapere se le vicende umane si svolgano regolate dal fato e da una necessità immutabile, oppure vadano a caso:" mihi... in incerto iudicium est fatone res mortalium et necessitate immutabili an forte volvantur " (VI, 22) .

Concludiamo con Il Principe: Nel penultimo capitolo Machiavelli volendo stabilire "Quanto possa la Fortuna nelle cose umane e in che modo se li abbia a resistere" attribuisce tanta importanza alla fortuna quanta alla capacità dell'uomo: " iudico potere esser vero che la fortuna sia arbitra della metà delle azioni nostre, ma che etiam lei ne lasci governare l'altra metà, o presso, a noi"[8]. Pertanto non bisogna "iudicare" che non si debba "insudare molto nelle cose ma lasciarsi governare dalla sorte". Infatti la fortuna"dimostra la sua potenzia dove non è ordinata virtù a resisterle, e quivi volta li sua impeti, dove la sa che non sono fatti li argini e li ripari a tenerla".

 

giovanni ghiselli

p. s

Ringrazio le decine e decine di persone che mi hanno fatto gli auguri. Non ho risposto a tutti perché mi trovo in difficoltà quando cerco di replicare ai messaggi. Chi vuole una risposta, utilizzi la posta elettronica. g.ghiselli@tin.it

Questa so usarla



[1] 425 - 424 ? a. C.

[2] 411 ? a. C.

[3] Di cronologia incerta: tra il 423 e il 414.

[4] Scrittore, filosofo peripatetico e uomo politico che governò Atene per Cassandro, reggente di Macedonia, dal 317 al 307.

[5]Che poi era il padre dello storiografo.

[6]fr. 359 Nauck.

[7] Dove era dovuto andare nel 41 d. C. La Consolatio è del 42 o 43 d. C.

[8]Il Principe , XXV.

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