PER VISUALIZZARE IL GRECO SCARICA IL FONT HELLENIKA QUI E GREEK QUIMarcantonio Raimondi, Morte di Didone
Didone riconosce a se stessa delle
capacità realizzative che l'avrebbero anche resa felice se non avesse
incontrato Enea: "Urbem praeclaram statui, mea moenia vidi,/ulta virum
poenas inimico a fratre recepi:/ felix heu nimium
felix, si litora tantum/numquam Dardaniae tetigissent nostra carinae "
(vv. 655 - 658), ho fondato una città splendida, ho visto mura mie, vendicato
il marito, ho punito il fratello nemico: oh troppo felice, se solo le le navi
della Dardania non avessero mai toccato le nostre coste!
"I tre perfetti statui,
vidi, recepi scandiscono orgogliosamente le sue res
gestae… Ulta è participio congiunto con valore temporale, inimico
a fratre anastrofe. L'esclamazione successiva felix, heu
nimium felix è, in termini sintattici, l'apodosi ellittica del
seguente periodo ipotetico dell'irrealtà"[1]
Il rimpianto della non
conoscenza del seduttore che ha sconvolto la vita, il desiderio di annullare la
tragica storia d'amore appartiene già alla Medea di Euripide (v. 1
e ss.), a quella di Apollonio Rodio ( Le Argonautiche , IV, 32
- 33), a quella di Ennio (246 - 9 Vahlen 2) e all'Arianna dell'opus maximum
di Catullo"utinam ne tempore primo/Gnosia Cecropiae tetigissent litora
puppes " (64, 171 - 172), oh se mai fin dal primo momento le navi
cecropie non avessero toccato le rive di Cnosso! "Un modo sottile di
richiamare le proprie radici culturali è nella poesia di Virgilio quella che
Pasquali ha chiamata "arte allusiva". Il poeta, riecheggiando un
passo o un verso o parte di un verso di un poeta greco o latino, presuppone che
il lettore riconosca il passo riecheggiato e talvolta confronti l'originale
colla rielaborazione di Virgilio, che talvolta innova e affina l'originale:
infatti il poeta dell'età augustea non "imita", ma "emula"
i poeti da cui si ispira, gareggia con essi"[2].
Infine Didone vuole mandare a Enea
un messaggio letale e un annunzio di futuri danni:"Hauriat hunc oculis
ignem crudelis ab alto/Dardanus et nostrae secum ferat omina mortis "
(661 - 662), beva con gli occhi questo fuoco il crudele troiano dal largo, e
porti con sé le maledizioni della mia morte.
Quindi l'atto del suicidio:"Dixerat, atque illam media inter talia ferro/conlapsam aspiciunt comites ensemque cruore/spumantem sparsasque manus. It clamor ad alta/atria; concussam bacchatur Fama per urbem" (vv. 663 - 666), aveva detto e in mezzo a tali parole le compagne la vedono caduta sul ferro e la spada spumeggiante di sangue e le mani cosparse. Sale il grido fino agli alti atri; la Fama va infuriando per la città sconvolta. - spumantem: prefigura la schiuma di sangue che, secondo la profezia della Sibilla del sesto canto, arrosserà il Tevere:" Bella, horrida bella/et Thybrim multo spumantem sanguine cerno" ( vv. 86 - 87), guerre, guerre raccapriccianti e il Tevere spumeggiante di molto sangue io vedo. - bacchatur: al v.301 era la donna abbandonata che baccheggiava infiammata per la città messa in moto dalla Fama spietata; ora è la stessa Fama che, presa la fiaccola da Didone, smania attraverso Cartagine sconvolta.
La morte della regina prefigura la
distruzione della sua città:"Lamentis gemituque et femineo
ululatu/tecta fremunt, resonat magnis plangoribus aether,/non aliter quam si
immissis ruat hostibus omnis/Karthago aut antiqua Tyros flammaeque
furentes/culmina perque hominum volvantur perque deorum " (vv.
667 - 671), gli edifici fremono di lamenti e di gemiti e di ululati femminei,
l'etere risuona di grandi pianti, non altrimenti che se Cartagine tutta o
l'antica Tiro[3] crollasse, entrati i nemici, e le
fiamme furiose si avvolgessero sui tetti degli uomini e degli dèi.
Didone che muore furente preannunzia
la fine del suo Stato per una sorta di responsabilità collettiva del capo e per
l'assimilazione possibile della donna non solo alla terra, come abbiamo visto,
ma anche alla città.
Tolstoj afferma che è
impossibile non sentire la femminilità di Mosca :"Ogni russo, guardando
Mosca, prova la sensazione di trovarsi al cospetto di una madre, ogni
straniero, guardandola e ignorandone il carattere materno, deve però almeno
sentirne la femminilità: questo accadde anche a Napoleone..."Una ville
occupèe par l'ennemi ressemble à una fille qui a perdu son honneur "
pensava"[4].
In effetti anche la sorella Anna identifica la morte di Didone con la fine della città intera:"Extinxti te meque, soror, populumque patresque/Sidonios[5] urbemque tuam " (vv. 682 - 683), hai annientato te e me, sorella, e il popolo e i patrizi sidoni e la tua città. - Extinxti: forma sincopata per extinxisti. - Populumque patresque:" il Danielino afferma che qui si accenna alle parti in cui era ordinata la cittadinanza cartaginese (oltre alla regia potestas, populus e optimates), ma certo il nesso suggerisce al lettore di Virgilio anche il familiare S. P. Q. R., e dunque si tratta, come altrove, di un riferimento alla realtà romana"[6]. Si può quindi pensare alla costituzione mista.
Didone muore senza dire altre parole
mentre la ferita stride profonda nel petto:"infixum stridit sub
pectore volnus " (v. 689). Le ferite spesso sono espressive
assai: non sempre sono " dumb mouths "[7] , bocche mute, come quelle di
Cesare assassinato. Gli occhi erranti cercarono, finalmente, la luce, e la
regina mandò un ultimo gemito quando l'ebbe trovata (v. 692).
"Una ferita è anche una bocca.
Una qualche parte di noi sta cercando di dire qualcosa. Se potessimo
ascoltarla! Supponiamo che queste "intensità sconvolgenti siano una sorta
di messaggio: sono "cicatrici", ferite, che segnano la nostra
vita" ( J. Hillman, Il piacere di pensare , p. 66)
[1] Sei
personaggi in cerca d'autore ( parte prima). Parla il persona
L'episodio si conclude con
parole, se non di speranza, certo di pietà per la donna la quale " nec
fato merita nec morte peribat/misera ante diem, subito accensa furore "(v.
697), moriva né per il destino suo né per morte meritata, infelice, prima del
tempo, accesa da un subitaneo furore.
Altre ragazze e donne morte ante
diem si trovano nelle tragedie di Euripide: Alcesti nella tragedia cui
dà la moglie di Admeto dà il nome, Polissena nell’Ecuba, Macaria
negli Eraclidi, Ifigenia nell’Ifigenia in Aulide, e un
ragazzo: Meneceo nelle Fenicie.
Ancora fuoco e follia.
"Nonostante la presenza corale
del popolo, nonostante l'affetto e l'assistenza affettuosa della sorella, Didone
è sola nella sua infelicità. La profondità della sua ferita non può essere
compresa né da Enea né dagli altri; e l'aggravarsi del dramma
dall'innamoramento alla rottura, al maturare del disegno del suicidio, al
suicidio stesso, è nello stesso tempo un accentuarsi della solitudine,
l'ampliarsi di un allucinante deserto. In questo modo di interpretare e cantare
l'amore Virgilio restava fedele a un filo costante della sua sensibilità: già
nella seconda ecloga, già nelle Georgiche l'amore, questo furore
cosmico irrazionale, è infelicità e solitudine: ciò resta vero e importante,
anche se nell'Eneide può avere avuto il suo peso la considerazione che
rappresentare l'amore come piacere e gioia era indegno della dignità epica e
tragica"[8].
Bologna 15 novembre 2020, ore 9, 20
giovanni ghiselli
p.s
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[1]G. B.
Conte, Scriptorium Classicum, 3, p. 276.
[2]A. La Penna - C.
Grassi, op. cit., p. XXVIII.
[3] La madre patria di Cartagine:"Urbs
antiqua fuit (Tyrii tenuere coloni) /Karthago", Eneide,
I, 12 - 13, c'era una città antica, la fondarono coloni di Tiro, Cartagine. Da
Tiro proveniva anche Cadmo, il fondatore di Tebe (cfr. Euripide, Fenicie,
638 - 639).
[4]Una città
occupata dal nemico assomiglia a una ragazza che ha perduto il suo onore. Guerra
e pace , p. 1311.
Un'altra assimilazione di un altro tipo di donna, in questo caso la
prostituta, alla città si trova nella Cistellaria di Plauto: "Verum
enim meretrix fortunati est oppidi simillima;/non potest suam rem obtinere sola
sine multis viris " (vv. 80 - 81), infatti la meretrice è molto
simile a una città ricca; non può reggersi da sola senza molti uomini.
[5] Fenici. Sidone era una città della
Fenicia celebre per la produzione di porpora.
[6]G. B. Conte, Scriptorium
Classicum, 3, p. 278.
[7] Shakespeare, Giulio
Cesare , III, 2.
[8]A. La Penna - C.
Grassi, op. cit., p. 358.
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