melo cotogno
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L’amore è un pendolo che oscilla tra
il timore e il dolore.
L' ecloga III è una gara
poetica tra due pastori (Menalca e Dameta) i quali recitano versi alternamente,
in forma di carme amebeo, mentre un terzo pastore, Palemone, fa da arbitro dopo
avere detto: “amant alterna Camoenae” (59) le Camene (sono le Muse
latine) amano le gare di versi alternati. Dameta le invoca comunque come Musae
e attribuisce l’ajrchv a Giove che è pure
ubiquo: ab Iove principium: Iovis omnia plena (60).
Cfr. Talete il quale Qalh'" wj/hvqh pavnta plhvrh qew'n ei\nai"[1].
Menalca è innamorato di un fanciullo
cui ha mandato aurea mala decem (70) dieci mele dorate silvestri
ex arbore lecta raccolte da un albero della selva.
La mela come segno e talismano
d'amore si trova anche nel III idillio di Teocrito quando il capraio che fa la
serenata promette ad Amarillide devka ma'la, dieci mele
(v. 10) e anche più avanti quando ricorda il mito dell'imbattibile Atalanta che
infine fu vinta nella corsa quando si fermò a raccogliere le mele d'oro
lanciate da Ippomene il quale le aveva avute da Afrodite. L'atletica vergine,
come le vide, subito impazzì e si inabissò in un amore profondo (III, 42).
Nell'XI idillio il Ciclope innamorato assimila l'amata Galatea a un "dolce
pomo" (v. 39) dopo averla invocata come "più candida del latte
cagliato, più morbida di un agnello, più altera di un vitello, più brillante dell'uva
acerba (v. 20 - 21).
In un frammento di Ibico[2] (fr. 6 D.) i meli cotogni sono alberi sacri ad Afrodite; la mela quindi è simbolo erotico,
e forse queste spinate alludono alla credenza popolare, di sempre, che
"non c'è amore senza spine".
Dameta menziona Pollione quale
estimatore della sua poesia sebbene rustica: “Pollio amat nostra, quamvis,
est rustica, Musam” (84). Invero una rusticità da salotto, da corte e chi
la frequenta.
Menalca replica ripetendo il nome
dell’importante patrono: “Pollio et ipse facit nova carmina” (86). Per i
Romani la poesia bucolica, importata, è nuova.
Dameta augura miele e amomo - pianta
da cui si ricavano unguenti e profumi - a chi ama Pollione.
Per quanto riguarda il nostro
argomento principale, mentre la natura vegetale è in rigoglio e la stagione è
splendidissima (nunc frondent silvae, nunc formosissimus annus, v. 57),
il toro, che dovrebbe rappresentare il colmo del vigore sessuale nel mondo
animale, giace emaciato - macer - (100) sull'erba grassa e fa esclamare
a Dameta:"idem amor exitium pecori pecorisque magistro "
(v. 101), amore è ugualmente una rovina per il gregge e per il custode del
gregge ! L’amore di Dameta è indirizzato a fanciulle.
Poco dopo Palemone menziona amori
dolci accanto agli amari, ma anche i primi vengono neutralizzati dalla
paura:"quisquis amores/aut metuet dulcis[3], aut experietur amaros ", vv.
109 - 110, chiunque temerà i dolci amori o proverà quelli amari.
Quindi l’amore è un pendolo che
oscilla tra l’ncertezza del timore e l’amarezza del dolore.
In effetti, se torniamo per un
momento alla storia precedente vediamo che alla dolcezza dell'amore, Enea si
lascia andare senza paura, sebbene non senza lacrime, solo quando incontra
l'amante morta:"demisit lacrimas dulcique adfatus amorest ", Eneide ,
VI, 455, lasciò cadere le lacrime e le parlò con dolce amore.
Il certame tra Dameta e
Menalca finisce in parità.
giovanni ghiselli
[1] Aristotele, Sull'anima,
411a 8.
[2] IBICO ("Ιβυκος, Iby̆cus). - Poeta magno greco, nato a
Reggio da un certo Fitio (Phytios), che pare essere stato uno dei
legislatori di quella città, visse nella seconda metà del sec. VI a. C., e
appartenne a famiglia aristocratica. Sembra, anzi, che in un certo momento gli
fosse perfino offerta la possibilità di dominare in Reggio, e che rifiutasse
tale onore. Non sappiamo nulla della sua gioventù, quantunque si possa dire che
egli si formò alla scuola lirica di Stesicoro, anche se non ne fu diretto
discepolo. Pare che viaggiasse molto. Certo fu a Samo, dove si trattenne a
lungo alla corte del tiranno Policrate, ciò che spiega qualche allusione a
fatti e persone d'Oriente inseriti nei suoi frammenti, e permette
d'interpretare con esattezza un suo carme scoperto recentemente, nel quale,
dopo aver rifiutato di cantare le gesta degli eroi, celebra i giovani più belli
concludendo con l'elogio della bellezza di Policrate. Una leggenda, che non par
molto antica, lo fa morire di morte violenta per mano di ladroni, che lo
avrebbero assalito a Corinto o a Reggio. Egli avrebbe invocato la vendetta di
uno stormo di gru che passavano nel cielo al momento dell'attentato. Uno dei
briganti, rivedendo le gru poco dopo, mentre stava al teatro avrebbe esclamato
in tono di scherno: "ecco le gru di Ibico". Arrestato e costretto a
confessare, fu condannato a morte con i complici.
[3] =dulces.
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