giovedì 19 novembre 2020

Le "Bucoliche" di Virgilio. 4. La terza bucolica

melo cotogno

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L’amore è un pendolo che oscilla tra il timore e il dolore.

 

L' ecloga III è una gara poetica tra due pastori (Menalca e Dameta) i quali recitano versi alternamente, in forma di carme amebeo, mentre un terzo pastore, Palemone, fa da arbitro dopo avere detto: “amant alterna Camoenae” (59) le Camene (sono le Muse latine) amano le gare di versi alternati. Dameta le invoca comunque come Musae e attribuisce l’ajrchv a Giove che è pure ubiquo: ab Iove principium: Iovis omnia plena (60).

Cfr. Talete il quale Qalh'" wj/hvqh pavnta plhvrh qew'n ei\nai"[1].

 

Menalca è innamorato di un fanciullo cui ha mandato aurea mala decem (70) dieci mele dorate silvestri ex arbore lecta raccolte da un albero della selva.

 

La mela come segno e talismano d'amore si trova anche nel III idillio di Teocrito quando il capraio che fa la serenata promette ad Amarillide devka ma'la, dieci mele (v. 10) e anche più avanti quando ricorda il mito dell'imbattibile Atalanta che infine fu vinta nella corsa quando si fermò a raccogliere le mele d'oro lanciate da Ippomene il quale le aveva avute da Afrodite. L'atletica vergine, come le vide, subito impazzì e si inabissò in un amore profondo (III, 42). Nell'XI idillio il Ciclope innamorato assimila l'amata Galatea a un "dolce pomo" (v. 39) dopo averla invocata come "più candida del latte cagliato, più morbida di un agnello, più altera di un vitello, più brillante dell'uva acerba (v. 20 - 21).

In un frammento di Ibico[2] (fr. 6 D.) i meli cotogni sono alberi sacri ad Afrodite; la mela quindi è simbolo erotico, e forse queste spinate alludono alla credenza popolare, di sempre, che "non c'è amore senza spine".

Dameta menziona Pollione quale estimatore della sua poesia sebbene rustica: “Pollio amat nostra, quamvis, est rustica, Musam” (84). Invero una rusticità da salotto, da corte e chi la frequenta.

Menalca replica ripetendo il nome dell’importante patrono: “Pollio et ipse facit nova carmina” (86). Per i Romani la poesia bucolica, importata, è nuova.

Dameta augura miele e amomo - pianta da cui si ricavano unguenti e profumi - a chi ama Pollione. 

 

Per quanto riguarda il nostro argomento principale, mentre la natura vegetale è in rigoglio e la stagione è splendidissima (nunc frondent silvae, nunc formosissimus annus, v. 57), il toro, che dovrebbe rappresentare il colmo del vigore sessuale nel mondo animale, giace emaciato - macer - (100) sull'erba grassa e fa esclamare a Dameta:"idem amor exitium pecori pecorisque magistro " (v. 101), amore è ugualmente una rovina per il gregge e per il custode del gregge ! L’amore di Dameta è indirizzato a fanciulle.

 

Poco dopo Palemone menziona amori dolci accanto agli amari, ma anche i primi vengono neutralizzati dalla paura:"quisquis amores/aut metuet dulcis[3], aut experietur amaros ", vv. 109 - 110, chiunque temerà i dolci amori o proverà quelli amari.

Quindi l’amore è un pendolo che oscilla tra l’ncertezza del timore e l’amarezza del dolore.

 

 In effetti, se torniamo per un momento alla storia precedente vediamo che alla dolcezza dell'amore, Enea si lascia andare senza paura, sebbene non senza lacrime, solo quando incontra l'amante morta:"demisit lacrimas dulcique adfatus amorest ", Eneide , VI, 455, lasciò cadere le lacrime e le parlò con dolce amore.

 

 Il certame tra Dameta e Menalca finisce in parità.

 

giovanni ghiselli

 



[1] Aristotele, Sull'anima, 411a 8.

[2] IBICO ("Ιβυκος, Iby̆cus). - Poeta magno greco, nato a Reggio da un certo Fitio (Phytios), che pare essere stato uno dei legislatori di quella città, visse nella seconda metà del sec. VI a. C., e appartenne a famiglia aristocratica. Sembra, anzi, che in un certo momento gli fosse perfino offerta la possibilità di dominare in Reggio, e che rifiutasse tale onore. Non sappiamo nulla della sua gioventù, quantunque si possa dire che egli si formò alla scuola lirica di Stesicoro, anche se non ne fu diretto discepolo. Pare che viaggiasse molto. Certo fu a Samo, dove si trattenne a lungo alla corte del tiranno Policrate, ciò che spiega qualche allusione a fatti e persone d'Oriente inseriti nei suoi frammenti, e permette d'interpretare con esattezza un suo carme scoperto recentemente, nel quale, dopo aver rifiutato di cantare le gesta degli eroi, celebra i giovani più belli concludendo con l'elogio della bellezza di Policrate. Una leggenda, che non par molto antica, lo fa morire di morte violenta per mano di ladroni, che lo avrebbero assalito a Corinto o a Reggio. Egli avrebbe invocato la vendetta di uno stormo di gru che passavano nel cielo al momento dell'attentato. Uno dei briganti, rivedendo le gru poco dopo, mentre stava al teatro avrebbe esclamato in tono di scherno: "ecco le gru di Ibico". Arrestato e costretto a confessare, fu condannato a morte con i complici.

[3] =dulces.

2 commenti:

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