NUOVE DATE alla Biblioteca «Ginzburg»: Protagonisti della storia antica

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sabato 14 novembre 2020

Riflessioni sull'"Eneide". 17. "Eneide", IV, vv. 613-631

Annibale
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Didone maledice Enea e tutti i discendenti prefigurando le guerre puniche con il vendicatore (ultor) che sorga dalle sue ossa (il grande Annibale).

 

La regina prega le divinità infernali di rivolgere prima o poi la loro potenza contro quell'infandum caput (v. 613) quella testa esecranda, abominevole.

 

 La testa significa l'acropoli della persona: un'immagine coniata da Platone[1], e ripresa da Cicerone nelle Tusculanae disputationes: "Plato... rationem in capite sicut in arce posuit " (I, 10), Platone collocò la ragione nel capo come in una rocca.

 

Didone, alla fine della vita, maledice Enea: gli augura quanto di peggio può capitare a un uomo: la guerra, la morte prematura e la mancanza del sepolcro in mezzo alla sabbia: "sed cadat ante diem mediaque inhumatus harena " (v. 620).

Vengono prefigurate le guerre puniche: la discendenza di lei e quella di lui dovranno sempre odiarsi: "nullus amor populis nec foedera sunto " (624), nessun amore né alleanza ci sia mai tra i due popoli, secondo la disposizione testamentaria della regina. Il foedus non rispettato dalla perfidia di Enea non potrà mai rinnovarsi tra i popoli dei quali questi due capi portano la responsabilità collettiva.

Quindi viene evocata la figura di Annibale: "exoriare [2] aliquis nostris ex ossibus ultor,/ qui face Dardanios ferroque sequare colonos,/nunc, olim, quocumque dabunt se tempore vires " (vv. 625 - 627), tu sorgi dalle mie ossa, vendicatore che segui col fuoco e col ferro i coloni Dardani, ora, in avvenire, in qualunque momento si offriranno le forze.

Questa donna fallita in amore, nel momento di morire, auspica la grande guerra antiromana di quello che sarà il più nobile fallito del mondo antico, secondo una definizione di Gaetano De Sanctis.

Quindi, sempre nell'auspicio di Didone, "la lotta mortale si amplia in un quadro grandioso, che coinvolge gli uomini, la storia, la natura. Il quadro è solennemente semplificato dalla concisione espressiva, di gusto, si direbbe, tacitiano, che con l'accostamento di ciascun acc. al suo dat. fa risaltare terribilmente la lotta e il suo carattere implacabile[3]: " 'Litora litoribus contraria, fluctibus undas/imprecor, arma armis: pugnent ipsique nepotesque'/Haec ait et partis animum versabat in omnis,/invisam quaerens quam primum abrumpere lucem" (vv. 628 - 631), auguro i lidi contro i lidi, le onde contro i flutti, le armi contro le armi: combattano loro stessi e i discendenti. Queste parole disse e girava l'animo da tutte le parti, cercando di spezzare al più presto la luce odiosa.

 

Si noti l’asindeto da litora ad armis: L’Anonimo Sul sublime dice che questa mancanza di congiunzioni si confà al pathos il quale viene invece attenuato ujpo; tw`n sundevsmwn kai; tw`n a[llwn prosqhvkwn : infatti la congiunzione (il suvndesmo") e le altre aggiunte distruggono la libertà dello slancio ejleuqerivan tou` drovmou (21).

 

 Il verso 629 è ipermetro, l'ultima sillaba, - que , è in più e si elide con la prima del verso seguente, haec. Giustamente gli interpreti hanno cercato una funzione espressiva nella eccezionalità metrica. Con più finezza di tutti il Pascoli sente che il verso "esprime il traboccare e qualche cosa che non ha fine"... La guerra continua in un futuro infinito, infinito come l'odio prorompente, traboccante della regina"[4]. - partis… in omnis = partes… in omnes.

 

 - abrumpere lucem: è possibile ravvisare in questo suicidio l'antitesi della morte cercata dall'uomo dotato di grandezza eroica ("ta; hJrwika; megevqh") che l'Anonimo Sul Sublime (IX, 10) individua nell'Iliade riportando una preghiera di Aiace il quale chiede a Zeus di morire nella luce per vedere ed essere visto mentre compie qualche nobile impresa:

"Zeu' pavter (fhsivn), ajlla; su; Jru'sai uJp' hjevro" ui|a" jAcaiw'n, - poivhson d' ai[qrhn, do;" d' ojfqalmoi'sin ijdevsqai: - ejn de; favei kai; o[lesson"(Iliade , XVII, 645 - 647), Zeus padre (dice), libera dalla caligine i figli degli Achei, fai il sereno, concedi agli occhi di vedere: poi nella luce annientaci pure. Aiace, commenta l'Anonimo, nella luce cerca una possibilità di impiegare il suo valore per trovare in ogni modo un sudario degno della sua virtù ("wJ" pavntw" th'" ajreth'" euJrhvswn ejntavfion a[xion", IX, 10) e morire kalw'" nobilmente.

 

Anche negli Annales di Ennio[5] c'è un combattente che muore cercando la luce con gli occhi:"Oscitat in campis caput a cervice revulsum,/semianimesque micant oculi lucemque requirunt " (vv. 483 - 484 Skutsch) apre la bocca nei campi la testa staccata dal collo, e semivivi brillano gli occhi cercando la luce. Tale gusto per il macabro verrà ripreso da Seneca nelle tragedie.

 

Del resto non solo gli occhi dell'eroe o del milite gregario, ma quelli dell'uomo che non butta via la vita "cercan morendo - il Sole[6]"; così il moribondo di Foscolo;

così pure Osvald il quale alla fine degli Spettri[7] di Ibsen[8] invoca il sole che significa gioia di vivere e possibilità di lavorare[9], mentre nella sua assenza pullulano i fantasmi, le menzogne[10] e i mostri, come nel caos primordiale:"Ah mamma, non dirmi di no, non puoi dirmi di no, sii buona, non devi mai dirmi di no, capisci, devo pur avere qualcosa[11] che mi aiuti a mandar giù questi pensieri che mi tormentano, a farli sparire (va nella serra) Dio, com'è buio qui dentro (…) E poi anche questo tempo, questa pioggia che non finisce mai, che è capace di andare avanti per settimane, per mesi (…) un raggio di sole uno se lo può sognare, che dico, tutte le volte che sono venuto qui a casa non ricordo mai d'aver visto un raggio di sole, neanche uno…"[12].

 "La luce è la più rallegrante delle cose: è divenuta simbolo di tutto ciò ch'è buono e salutare. In tutte le religioni indica la eterna salvezza, mentre l'oscurità indica dannazione"[13]. Infatti all'inizio delle Metamorfosi Ovidio mette in rilievo che durante l'epoca del Caos l'aria mancava di luce e le cose non avevano aspetto stabile: "lucis egens aër: nulli sua forma manebat " (I, v. 17).

 

 giovanni ghiselli

 

 


[1] Cfr. Timeo 70 b, Repubblica 560b

[2]= exoriaris : forma arcaica della seconda persona del congiuntivo presente, come sequare = sequaris .

[3]A. La Penna - C. Grassi, op. cit., p. 499.

[4]A. La Penna - C. Grassi, op. cit., p. 499.

[5] 239 - 169 a. C.

[6]Foscolo, Dei Sepolcri , vv. 121 - 122.

[7] Del 1881.

[8] 1828 - 1906.

[9] Osvald: "E poi non so cosa fare, non riesco a combinare niente, non parliamo poi di lavorare sul serio…" Signora Alving: "E perché? Non capisco che cosa te lo impedisce…" Osvald: "Ma come vuoi che con questo tempaccio, con questo buio che non lascia vedere mai un raggio di sole, mai, per tutto il giorno, come vuoi che io… (va su e giù per la stanza) Ah!, è un tormento non poter lavorare, credimi, è una tortura…!" (Atto II).

[10] "e noi tutti viviamo nell'ombra, timorosi della luce, della chiarezza, della verità" (Atto II) dice la signora Alving, la madre di Osvald , una donna la cui vita è stata strozzata dal senso del dovere: "Sì, lo so, la legge, l'ordine, già… talvolta mi pare che tutto il male, tutti i mali del mondo vengano proprio di lì, dalla vostra legge e dal vostro ordine…" (Atto II) dice al Pastore Manders che è uomo di ordine e di potere.

[11] Aveva chiesto "qualcosa da bere". Di alcolico naturalmente.

[12] Atto II. Cito la traduzione da Ibsen Drammi, Garzanti, Milano, 1976.

[13]A. Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione , p. 274.

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