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Didone maledice Enea e tutti i
discendenti prefigurando le guerre puniche con il vendicatore (ultor)
che sorga dalle sue ossa (il grande Annibale).
La regina prega le divinità
infernali di rivolgere prima o poi la loro potenza contro quell'infandum
caput (v. 613) quella testa esecranda, abominevole.
La testa significa l'acropoli
della persona: un'immagine coniata da Platone[1], e ripresa da Cicerone nelle Tusculanae
disputationes: "Plato... rationem in capite sicut in arce
posuit " (I, 10), Platone collocò la ragione nel capo come in una
rocca.
Didone, alla fine della vita,
maledice Enea: gli augura quanto di peggio può capitare a un uomo: la guerra,
la morte prematura e la mancanza del sepolcro in mezzo alla sabbia: "sed
cadat ante diem mediaque inhumatus harena " (v. 620).
Vengono prefigurate le guerre
puniche: la discendenza di lei e quella di lui dovranno sempre odiarsi: "nullus
amor populis nec foedera sunto " (624), nessun amore né alleanza
ci sia mai tra i due popoli, secondo la disposizione testamentaria della
regina. Il foedus non rispettato dalla perfidia di
Enea non potrà mai rinnovarsi tra i popoli dei quali questi due capi portano la
responsabilità collettiva.
Quindi viene evocata la figura di
Annibale: "exoriare [2] aliquis nostris ex ossibus
ultor,/ qui face Dardanios ferroque sequare colonos,/nunc, olim, quocumque
dabunt se tempore vires " (vv. 625 - 627), tu sorgi dalle mie
ossa, vendicatore che segui col fuoco e col ferro i coloni Dardani, ora, in
avvenire, in qualunque momento si offriranno le forze.
Questa donna fallita in amore, nel
momento di morire, auspica la grande guerra antiromana di quello che sarà il
più nobile fallito del mondo antico, secondo una definizione di Gaetano De
Sanctis.
Quindi, sempre nell'auspicio di
Didone, "la lotta mortale si amplia in un quadro grandioso, che coinvolge
gli uomini, la storia, la natura. Il quadro è solennemente semplificato dalla
concisione espressiva, di gusto, si direbbe, tacitiano, che con l'accostamento
di ciascun acc. al suo dat. fa risaltare terribilmente la lotta e il suo
carattere implacabile[3]: " 'Litora litoribus
contraria, fluctibus undas/imprecor, arma armis: pugnent ipsique
nepotesque'/Haec ait et partis animum versabat in omnis,/invisam quaerens quam
primum abrumpere lucem" (vv. 628 - 631), auguro i
lidi contro i lidi, le onde contro i flutti, le armi contro le armi: combattano
loro stessi e i discendenti. Queste parole disse e girava l'animo da tutte le
parti, cercando di spezzare al più presto la luce odiosa.
Si noti l’asindeto da litora ad armis:
L’Anonimo Sul sublime dice che questa mancanza di congiunzioni
si confà al pathos il quale viene invece attenuato ujpo; tw`n sundevsmwn
kai; tw`n a[llwn prosqhvkwn : infatti la congiunzione (il suvndesmo") e le altre aggiunte
distruggono la libertà dello slancio ejleuqerivan tou` drovmou (21).
Il verso 629 è ipermetro, l'ultima
sillaba, - que , è in più e si elide con la prima del verso
seguente, haec. Giustamente gli interpreti hanno cercato una
funzione espressiva nella eccezionalità metrica. Con più finezza di tutti il
Pascoli sente che il verso "esprime il traboccare e qualche cosa che non
ha fine"... La guerra continua in un futuro infinito, infinito come l'odio
prorompente, traboccante della regina"[4]. - partis… in omnis = partes…
in omnes.
- abrumpere lucem: è possibile
ravvisare in questo suicidio l'antitesi della morte cercata dall'uomo dotato di
grandezza eroica ("ta; hJrwika; megevqh") che l'Anonimo Sul Sublime (IX, 10)
individua nell'Iliade riportando una preghiera di Aiace il quale chiede
a Zeus di morire nella luce per vedere ed essere visto mentre compie qualche
nobile impresa:
"Zeu' pavter
(fhsivn), ajlla; su; Jru'sai uJp' hjevro" ui|a" jAcaiw'n, - poivhson d' ai[qrhn, do;" d' ojfqalmoi'sin ijdevsqai: - ejn
de; favei kai; o[lesson"(Iliade , XVII, 645 - 647), Zeus
padre (dice), libera dalla caligine i figli degli Achei, fai il sereno, concedi
agli occhi di vedere: poi nella luce annientaci pure. Aiace, commenta
l'Anonimo, nella luce cerca una possibilità di impiegare il suo valore per
trovare in ogni modo un sudario degno della sua virtù ("wJ" pavntw"
th'" ajreth'" euJrhvswn ejntavfion a[xion", IX, 10) e morire kalw'" nobilmente.
Anche negli Annales di Ennio[5] c'è
un combattente che muore cercando la luce con gli occhi:"Oscitat in
campis caput a cervice revulsum,/semianimesque micant oculi lucemque requirunt "
(vv. 483 - 484 Skutsch) apre la bocca nei campi la testa staccata dal collo, e
semivivi brillano gli occhi cercando la luce. Tale gusto per il macabro verrà
ripreso da Seneca nelle tragedie.
Del resto non solo gli occhi dell'eroe o del milite gregario, ma quelli
dell'uomo che non butta via la vita "cercan morendo - il Sole[6]"; così il
moribondo di Foscolo;
così pure Osvald il quale alla fine degli Spettri[7]
di Ibsen[8] invoca
il sole che significa gioia di vivere e possibilità di lavorare[9],
mentre nella sua assenza pullulano i fantasmi, le menzogne[10] e
i mostri, come nel caos primordiale:"Ah mamma, non dirmi di no, non puoi
dirmi di no, sii buona, non devi mai dirmi di no, capisci, devo pur avere
qualcosa[11] che
mi aiuti a mandar giù questi pensieri che mi tormentano, a farli sparire (va
nella serra) Dio, com'è buio qui dentro (…) E poi anche questo tempo,
questa pioggia che non finisce mai, che è capace di andare avanti per
settimane, per mesi (…) un raggio di sole uno se lo può sognare, che dico,
tutte le volte che sono venuto qui a casa non ricordo mai d'aver visto un
raggio di sole, neanche uno…"[12].
"La luce è la più rallegrante delle cose: è divenuta simbolo di
tutto ciò ch'è buono e salutare. In tutte le religioni indica la eterna
salvezza, mentre l'oscurità indica dannazione"[13]. Infatti
all'inizio delle Metamorfosi Ovidio mette in rilievo che durante
l'epoca del Caos l'aria mancava di luce e le cose non avevano aspetto
stabile: "lucis egens aër: nulli sua forma manebat "
(I, v. 17).
giovanni ghiselli
[1] Cfr. Timeo
70 b, Repubblica 560b
[2]= exoriaris :
forma arcaica della seconda persona del congiuntivo presente, come sequare =
sequaris .
[3]A. La Penna - C.
Grassi, op. cit., p. 499.
[4]A. La Penna - C.
Grassi, op. cit., p. 499.
[5] 239 - 169 a. C.
[6]Foscolo, Dei
Sepolcri , vv. 121 - 122.
[7] Del 1881.
[8] 1828 - 1906.
[9] Osvald: "E poi non so cosa fare,
non riesco a combinare niente, non parliamo poi di lavorare sul serio…" Signora
Alving: "E perché? Non capisco che cosa te lo impedisce…" Osvald: "Ma
come vuoi che con questo tempaccio, con questo buio che non lascia vedere mai
un raggio di sole, mai, per tutto il giorno, come vuoi che io… (va su e giù per
la stanza) Ah!, è un tormento non poter lavorare, credimi, è una
tortura…!" (Atto II).
[10] "e noi tutti viviamo nell'ombra,
timorosi della luce, della chiarezza, della verità" (Atto II) dice la
signora Alving, la madre di Osvald , una donna la cui vita è stata strozzata
dal senso del dovere: "Sì, lo so, la legge, l'ordine, già… talvolta mi
pare che tutto il male, tutti i mali del mondo vengano proprio di lì, dalla
vostra legge e dal vostro ordine…" (Atto II) dice al Pastore Manders che è
uomo di ordine e di potere.
[11] Aveva chiesto "qualcosa da
bere". Di alcolico naturalmente.
[12] Atto II. Cito la traduzione da Ibsen
Drammi, Garzanti, Milano, 1976.
[13]A. Schopenhauer, Il mondo come
volontà e rappresentazione , p. 274.
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