Didone sente che il fuoco d'amore è
diventato un incendio di odio: Heu furiis incensa feror (v.
376), ahi sono trascinata in fiamme dalle furie!Tiepolo, Rinaldo abbandona Armida
Poi congeda l'amante, che la sta
abbandonando, con una maledizione: "…Neque te teneo neque dicta
repello./ i, sequere Italiam ventis, pete regna per undas;/spero equidem
mediis, si quid pia numina possunt,/supplicia hausurum scopulis et nomine
Dido/saepe vocaturum. Sequar atris ignibus absens/et,
cum frigida mors anima seduxerit artus,/ omnibus umbra locis adero. Dabis, improbe, poenas[1];/ audiam et haec manis veniet mihi
fama sub imos " (vv. 381 - 386), Non ti trattengo e non confuto
le tue parole. Va', insegui l'Italia coi venti, cerca un regno attraverso le
onde. Spero però che in mezzo agli scogli, se i pii numi hanno qualche potere,
berrai la pena e invocherai spesso Didone per nome. Ti inseguirò con fiaccole
funebri anche da lontano e quando la gelida morte avrà separato le mie membra
dall'anima, sarò presente in tutti i luoghi come ombra. Pagherai il fio
malvagio! starò in ascolto e questa fama mi raggiungerà sotto gli abissi. Dido è
anche accusativo.
C’è da Notare anche il riuso che fa
di queste parole Torquato Tasso nella maledizione
che Armida scaglia contro Rinaldo: “Vattene pur, crudel, con quella
pace/che lasci a me; vattene, iniquo, omai (…) E s’è destin ch’esca dal mar,
che schivi/gli scogli e l’onde e che a la pugna arrivi,/là tra ’l sangue e lr
morti egro giacente/mi pagherai le pene, empio guerriero” (Gerusalemme
Liberata, XVI, 59 - 60).
Si noti che ventis e undas significano
l'instabilità pericolosa della ricerca che corrisponde all'inaffidabilità
dell'anima di Enea: fissi sono invece gli scogli che colpiranno il traditore
facendogli bere quell'acqua dove erano stati scritti i suoi giuramenti
spergiuri. Didone favorirà quella morte, e la fama, che l'ha infamata da viva,
la compenserà portandogliene la sospirata notizia. - Anima è il
soffio vitale: deriva dall'indoeuropeo *anem - che ha dato come esito in
greco ajnem - da cui a[nemo", vento e in latino anim - da cui,
oltre anima, animus, animo, coraggio, animal,
animosus.
"Nella nuova battuta di
Didone (365 - 387) l'ira proprompe con violenza, variata non più dalla
preghiera, ma solo dal sarcasmo: è qui che Didone può ricordare meglio il volto
selvaggio della Medea di Euripide, che pure sa unire allo sfogo di una passione
furente le sottigliezze di una logica ironica e sarcastica: come Medea, Didone
si sente vittima dell'ingiustizia e senza protezione divina contro
l'ingiustizia. Dalla battuta, emerge chiaramente che il furor d'amore
è divenuto furor di odio senza confini e che il mondo dei valori di
Enea resta del tutto estraneo all'animo di Didone"[2].
Ma il “pio” eroe deve eseguire
comunque gli ordini degli dèi e non può permettersi l'amore:"At pius
Aeneas, quamquam lenire dolentem/solando cupit et dictis avertere curas,/multa
gemens magnoque animo labefacto amore,/iussa[3] tamen divom exsequitur
classemque revisit " (vv. 393 - 396), ma il pio Enea,
sebbene desideri mitigare la dolente consolandola e rimuovere gli affanni con
le parole, gemendo molto e scosso nell'animo da grande amore, esegue nondimeno
gli ordini degli dèi e torna a vedere la flotta.
Enea si comporta come “l’eroe”
della Georgica IV che dopo avere fatto morire Euridice
inseguendola per violentarla, esegue senza indugio gli ordini della madre: “haud
mora: continuo matris praecepta facessit” (v. 548).
Altrettanto fa
Abramo nella Genesi ( 22) dove "Dio tentò Abramo e gli
disse: - Abramo! - Ed egli rispose: - Sono qui!".
Quindi ricevette l’ordine di offrire
il suo unico figlio Isacco in olocausto su un monte che Dio gli avrebbe
indicato e il giorno dopo, ricevuta l’indicazione, si incamminò con il figlio e
due servi verso il monte.
Questi sono i furfanti bigotti.
Orfeo che invece non obbedì (rupta tyranni - foedera, Georgica IV,
492 - 493) venne punito.
giovanni ghiselli
[1] "Notare la violenza ossessiva che
la insistente allitterazione dà a questo verso" R, Calzecchi Onesti, op.
cit., p. 293.
[2] A. La Penna - C.
Grassi, op. cit., p. 408.
[3] Come il suo obbedientissimo eroe Virgilio
esegue gli ordini non teneri (haud mollia iussa, Georgica III, 41) di
Mecenate, il committente a cui si fa riferimento più volte nel poema agricolo.
Mecenate "E'insomma un patrono esigente, che vuole impegnare tutto intero
l'impianto didascalico dell'opera con il contenuto etico - politico di cui è
interprete autorevole" Alessandro Perutelli, Il testo come maestro
in Lo spazio letterario di Roma antica, vol. I, p. 299.
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