giovedì 12 novembre 2020

Riflessioni sull'"Eneide". 3. Si può andare contro il destino?

Pompeo Batoni, Didone ed Enea
Si può andare contro il destino? No se questo coincide con il carattere, l’orientamento della persona.

 

Didone supplica Enea di non partire, di non abbandonarla, ma il Troiano risponde con durezza che l’ordine ricevuto dagli dèi gli ha prescritto un altro destino e lui non può né vuole disobbedire

Egli  è chiamato altrove dal destino e non vuole sentire altra fiamma che quella del fatum. Questo termine deriva dalla radice indoeuropea *bha- che dà luogo anche al greco fhmiv e al latino for, dico. Dunque fatum è quanto dicono gli dèi. Dalla stessa radice abbiamo fas, sacro, lecito, che si può dire. Al destino comunque non è possibile sottrarsi. Seneca scriverà. ducunt volentem fata, nolentem trahunt” (Ep. 107, 2).

Cum fatum nihil aliud sit quam series implexa causarum  (Seneca, De beneficiis, IV, 7), siccome il destino non è altro che la serie concatenata delle cause.

E l’ Amleto di Shakespeare: “There is a special Providence in the fall of a sparrow  (…) the readibìness is all (V, 2). C’è una Provvidenza specifica nella morte di un passero (…) tutto sta nell’essere preparati. Non ha senso temere i brutti segni: “we defy augury”, noi li sfidiamo.  

Un paio di obiezioni: Zeus nel I libro dell’Odissea (v. 34)  menziona il caso di Egisto che come altri stupidi e scellerati andò ujpe;r movron, contro il destino, la parte che gli era stata assegnata.

Eraclito fa coincidere il destino con il carattere  di ciascun uomo: h\qo~ ajnqrwvpw/ daivmwn[1].

Anche secondo Nietzsche ogni uomo coincide con il suo destino: "Il fatalismo turco contiene l'errore fondamentale di contrapporre fra loro l'uomo e il fato come due cose separate…In verità ogni uomo è egli stesso una parte di fato…Tu stesso, povero uomo pauroso, sei la Moira incoercibile che troneggia anche sugli dèi"[2].

 

Fatum,  Fas e mos

Maurizio Bettini chiarisce la differenza di significato tra fas e mos. "… il mos collettivo si configura come una decisione presa da un "gruppo", il quale raggiunge un consensus su un certo comportamento: dopo di che, il medesimo gruppo ha la capacità di affermare nel tempo questo tipo di comportamento, trasformandolo così in mos o mores [3]". Il mos allora nasce dal consensus. "Cicerone, Tusculanae, I, 35, afferma persino che il consensus di tutti corrisponde alla "naturalità":" Quodsi omnium consensus naturae vox est, omnesque qui ubique sunt consentiunt esse aliquid (…) nobis quoque idem existimandum est "[4], che se il consenso universale è voce di natura e tutti dappertutto sono d'accordo nel ritenere che ci sia qualche cosa…anche noi dobbiamo essere dello stesso parere.

La consuetudo poi impone  l'affermarsi del mos lungo lo scorrere del tempo e il volgere delle stagioni.

"Secondo Servio, infatti, Varrone definiva il mos in questo modo:"Varro vult morem esse communem consensum omnium simul habitantium, qui inveteratus consuetudinem facit "[5] (Varrone vuole che il mos sia costituito dal consenso di tutti coloro che vivono insieme: una volta che si sia affermato nel tempo, questo consenso crea la consuetudine). Ulpiano riprendeva certo Varrone quando affermava: "Mores sunt tacitus consensus populi longa consuetudine inveteratus"[6]… Questo significa che il mos o i mores non sono percepiti come qualcosa di assoluto, che si impone per sua natura: al contrario, sono il frutto di un accordo collettivo su qualcosa che inizialmente dipende da un iudicium animi, e questo accordo deve superare la prova del tempo.

In questo senso il mos si presenta profondamente diverso da ciò che i Romani definivano fas: la parola divina[7], simile a quella che si esprime nel fatum o "destino"; quella "parola" impersonale che solo esistendo manifesta la volontà degli dèi e si realizza nella forma di un "diritto divino" che è appunto nefas violare[8]. Nella rappresentazione culturale romana, il fas è qualche cosa che si impone da solo, indipendentemente dal iudicium individuale della persona.. Il fas sta scritto direttamente nella natura. Esso costituisce la regola che prescrive di non commettere certe azioni di particolare gravità, la cui mostruosità è fuori discussione. Perché il fas agisca come norma di comportamento, non c'è dunque bisogno di un gruppo che su di esso ha raggiunto un consensus, né di una consuetudo che si afferma nel tempo. La differenza fra mos e fas risulta evidenta da espressioni tipo questa, di Tibullo:"nullus erat custos, nulla exclusura dolentes/ianua: si fas est, mos precor ille redi!"[9] (allora non c'erano custodi, non c'erano porte che chiudessero fuori l'amante triste. O se quel mos, a patto che sia fas, potesse tornare!) Il poeta si augura che torni a rivivere un mos che rendeva più facile la vita degli innamorati- a patto, naturalmente, che il ritorno di tale mos non violi le regole imperscrutabili del fas. Mos e fas sono due cose diverse, e possono non coincidere. Interessante anche il modo in cui , negli Annali di Tacito, viene riportata la domanda che il legato Bleso avrebbe rivolto ai soldati che minacciavano una rivolta:"Cur contra morem obsequii, contra fas disciplinae vim meditentur?"[10] (perché volgere l'animo alla violenza, contro il mos dell'ossequio e contro il fas della disciplina?). Il testo distingue nettamente fra i due diversi tipi di trasgressione. Il rifiuto dell'obsequium è un atto "contra morem": ma non rispettare la disciplina militare, ossia un modello che a Roma ha un valore culturale fortissimo[11], è addirittura inaccettabile, assurdo, contra fas"[12].     

 

giovanni ghiselli

 



[1] Fr. 91 Diano, il carattere è il destino dell’uomo.

[2]Nietzsche, Umano troppo umano , vol. II, pp. 155-156..

[3] M. Bettini, Le orecchie di Hermes, p. 257.

[4] M. Bettini, Le orecchie di Hermes, p. 253, n. 27.

[5] Servius in Aeneidem, VII, 601.

[6] Ulpiano, Regulae, I, 4. Ulpiano è uno dei più celebri giuristi del III sec. d. C.

[7] Cfr. P. Cipriano, Fas e nefas, Università degli Studi di Roma, Istituto di Glottologia, Roma 1978.

[8] E. Benveniste, Il vocabolario delle istituzioni indoeuropee, Einaudi, Torino, 1976, II, pp. 348-349. Per la differenza tra fas e ius cfr. Servio in Georgica, I, 269:" (…) ad religionem fas, ad homines iura pertinent".

[9] Corpus Tibullianum, 2, 3, 4.

[10] Tacito, Annales, I, 19, 3.

[11] Si veda, ad esempio, Livio, 5, 6, 17, dove la mancanza di rispetto (espresso dal verbo vereor) per la disciplina compare alla fine di un elenco di comportamenti rovinosi per la città di Roma:"non senatum, non magistratus, non leges, non mores maiorum, non instituta patrum, non disciplinam vereri".

[12] M. Bettini, Le orecchie di Hermes, p. 258.

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