venerdì 13 novembre 2020

Riflessioni sull'"Eneide". 13. Di nuovo Alcibiade nel suo fulgore

Alcibiade
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Alcibiade quindi anticipa Catilina, Sperelli, e anche l'esteta - seduttore di Kierkegaard , il seduttore sensuale ed estensivo, don Giovanni, "l'incarnazione della carne ovvero la spiritualizzazione della carne da parte dello spirito stesso della carne"[1] che vive di preda e ama "il casuale, l'accidentale", poiché "il sensuale è il momentaneo. Il sensuale cerca la soddisfazione istantanea, e quanto più è raffinato, tanto più sa trasformare l'istante del godimento in una piccola eternità"[2].

 Alcibiade del resto affascinava anche con la parola quindi rappresenta pure il seduttore intellettuale, quello intensivo che "si serviva degli individui soltanto come incitamento per gettarli poi via da sé, così come gli alberi si scrollano delle foglie: lui ringiovaniva, le foglie appassivano (…)L'attimo è bello e nell'attimo la donna è tutto, e di conseguenze io non me ne intendo"[3].

Tali uomini, don Giovanni e Faust, sono gli erotici. Essi capiscono che la donna è un inganno degli dèi, comprendono che ella desidera essere sedotta e loro vogliono godere dell'inganno senza essere ingannati: "Questi erotici sono i felici. Essi vivono in modo più voluttuoso degli dèi, perché banchettano sempre soltanto con ciò che è più pregiato dell'ambrosia e bevono ciò che è più soave del nettare. Essi (…) mangiano soltanto l'esca, senza essere mai presi. Gli altri uomini abboccano, nel modo in cui i contadini pranzano con l'insalata di cetrioli, e sono presi"[4]

 

Onorato dunque da Farnabazo per la sua raffinatezza e la sua quasi illimitata capacità di piacere, Alcibiade al tramonto ha ancora modo di soddisfare la passione massima del dandy: " una specie di culto di se stesso, che può sopravvivere alla ricerca della felicità che si trova negli altri, nella donna, per esempio; che può sopravvivere anche a tutto ciò che si chiama illusione. E' il piacere di meravigliare e la soddisfazione di non essere mai meravigliati. Un dandy può essere uno scettico, può essere un uomo sofferente, ma, in quest'ultimo caso, egli sorriderà come il lacedemone morsicato dalla volpe"[5].

Intanto gli Ateniesi, oppressi dalla tirannide dei Trenta, capivano, mentre piangevano, ripensando agli errori commessi e alle proprie follie, la più grande delle quali consideravano la seconda ira contro Alcibiade ("w|n megivsthn ejpoiou'nto th;n deutevran pro;" jAlkibiavdhn ojrghvn"[6]). Allontanandolo di nuovo per una colpa non sua, si erano privati del comandante migliore, un uomo dissoluto, ma capace e insostituibile come stratego. 

 

Qui viene in mente un altro esteta antico, il Petronio di Tacito che come proconsole in Bitinia, poi come console "vigentem se ac parem negotiis ostendit "[7], si rivelò energico e all'altezza dei suoi compiti.

 

 La fiducia nelle capacità di Alcibiade anzi era tanto forte da lasciare negli Ateniesi una vaga speranza che la potenza della loro città non sarebbe andata del tutto perduta fino a quando quell'uomo geniale fosse stato vivo. Già una volta, pensavano, Alcibiade li aveva aiutati, e se ne avesse avuto le possibilità, lo avrebbe fatto ancora. Né questo sognare dei più era assurdo ("a[logon"[8]), se anche i Trenta si preoccupavano di lui e davano la massima importanza a ciò che egli faceva.

 

I tiranni diretti da Crizia erano i nemici naturali del nostro esteta, in quanto uomini volgari; una volgarità messa bene in rilievo da Lisia quando, nell'orazione Contro Eratostene, racconta come Melobio, uno dei Trenta, appena entrato in casa di Polemarco, il fratello di Lisia poi mandato a morte, strappò gli orecchini d'oro dalle orecchie di sua moglie ("gunaiko;" crusou'" eJlikth'ra" ... Mhlovbio" ejk tw'n w[twn ejxeivleto"[9]).

 

Sappiamo da Tucidide che Alcibiade non faceva a meno del denaro e dei beni materiali, anzi egli aveva desideri troppo grandi rispetto alle sue ricchezze (VI, 15, 3); ma i miseri quattrini per lui erano solo un mezzo.

Diamo ancora la parola a Baudelaire:" Se ho parlato del denaro, è perché il denaro è indispensabile a coloro che si fanno un culto delle loro passioni; ma il dandy non aspira al denaro come a una cosa essenziale; un credito indefinito gli potrebbe bastare: egli lascia volentieri questa banale passione agli uomini volgari"[10].

Costoro non si intendono di bellezza che si manifesta attraverso la semplicità di cui Alcibiade si dimostrò capace quando viveva a Sparta, primeggiando anche in quella energica, sobria, frugale eujtevleia che del resto faceva parte dello stile alto degli Ateniesi come ebbe a dire il Pericle di Tucidide: in effetti amiamo il bello con semplicità e amiamo la cultura senza mollezza. (II, 40, 1).

 

Anche questo aspetto della distinzione ateniese, e di Alcibiade, trova una corrispondenza nel dandy baudelairiano: "il dandismo non è, come molte persone poco riflessive vogliono credere, un diletto eccessivo della toeletta e dell'eleganza materiale. Queste cose non sono per il perfetto dandy che un simbolo della superiorità aristocratica del suo spirito. Così, ai suoi occhi, desiderosi sopra tutto di distinzione , la perfezione della toeletta consiste nella massima semplicità, che è, in realtà, il miglior modo di distinguersi"[11].

 

Altrettanto afferma Tacito del suo elegantiae arbiter: "Ac dicta factaque eius quanto solutiora et quandam sui neglegentiam, praeferentia, tanto gratius in speciem simplicitatis accipiebantur"[12] le sue parole e i suoi atti quanto più erano liberi e manifestavano una certa noncuranza di sé, tanto più piacevolmente erano presi come segno di semplicità.

 



[1] S. Kierkegaard, Enten - Eller (del 1843), Tomo Primo, p. 156.

[2]S. Kierkegaard, Enten - Eller , Tomo Quarto trad. it. Adelphi, Milano, 1981, p. 40..

[3]S. Kierkegaard, Diario del seduttore (1843) , trad. it. Rizzoli, Milano, 1974, pp. 23 e 139

[4] S. Kierkegaard, In vino veritas (1845), p. 92.

[5]Baudelaire, op. cit., p. 1151.

[6]Plutarco, op. cit. , 38.

[7]Annales , XVI, 18.

[8]Plutarco, op. cit., 38, 4.

[9]Lisia (445 ca - 365 ca a. C.), XII, 19.

[10]Op. cit., p. 1150

[11]Op. cit., pp. 1150 - 1151 

[12] Annales , XVI, 18.

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