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Alcibiade quindi anticipa Catilina, Sperelli, e anche l'esteta - seduttore
di Kierkegaard , il seduttore sensuale ed estensivo, don Giovanni,
"l'incarnazione della carne ovvero la spiritualizzazione della carne da
parte dello spirito stesso della carne"[1] che vive
di preda e ama "il casuale, l'accidentale", poiché "il sensuale
è il momentaneo. Il sensuale cerca la soddisfazione istantanea, e quanto più è
raffinato, tanto più sa trasformare l'istante del godimento in una piccola
eternità"[2].
Alcibiade del resto affascinava anche con la parola quindi
rappresenta pure il seduttore intellettuale, quello intensivo che
"si serviva degli individui soltanto come incitamento per gettarli poi via
da sé, così come gli alberi si scrollano delle foglie: lui ringiovaniva, le
foglie appassivano (…)L'attimo è bello e nell'attimo la donna è tutto, e di
conseguenze io non me ne intendo"[3].
Tali uomini, don Giovanni e Faust, sono gli erotici. Essi capiscono
che la donna è un inganno degli dèi, comprendono che ella desidera essere sedotta
e loro vogliono godere dell'inganno senza essere ingannati: "Questi
erotici sono i felici. Essi vivono in modo più voluttuoso degli dèi, perché
banchettano sempre soltanto con ciò che è più pregiato dell'ambrosia e bevono
ciò che è più soave del nettare. Essi (…) mangiano soltanto l'esca, senza
essere mai presi. Gli altri uomini abboccano, nel modo in cui i contadini
pranzano con l'insalata di cetrioli, e sono presi"[4].
Onorato dunque da Farnabazo per la sua raffinatezza e la sua quasi
illimitata capacità di piacere, Alcibiade al tramonto ha ancora modo di
soddisfare la passione massima del dandy: " una specie di culto di se
stesso, che può sopravvivere alla ricerca della felicità che si trova negli
altri, nella donna, per esempio; che può sopravvivere anche a tutto ciò che si
chiama illusione. E' il piacere di meravigliare e la soddisfazione di
non essere mai meravigliati. Un dandy può essere uno scettico, può essere un
uomo sofferente, ma, in quest'ultimo caso, egli sorriderà come il lacedemone
morsicato dalla volpe"[5].
Intanto gli Ateniesi, oppressi dalla tirannide dei Trenta, capivano, mentre
piangevano, ripensando agli errori commessi e alle proprie follie, la più
grande delle quali consideravano la seconda ira contro Alcibiade ("w|n megivsthn
ejpoiou'nto th;n deutevran pro;" jAlkibiavdhn ojrghvn"[6]).
Allontanandolo di nuovo per una colpa non sua, si erano privati del comandante
migliore, un uomo dissoluto, ma capace e insostituibile come stratego.
Qui viene in mente un altro esteta antico, il Petronio di Tacito che come
proconsole in Bitinia, poi come console "vigentem se ac parem negotiis
ostendit "[7], si rivelò
energico e all'altezza dei suoi compiti.
La fiducia nelle capacità di Alcibiade anzi era tanto forte da
lasciare negli Ateniesi una vaga speranza che la potenza della loro città non
sarebbe andata del tutto perduta fino a quando quell'uomo geniale fosse stato
vivo. Già una volta, pensavano, Alcibiade li aveva aiutati, e se ne avesse
avuto le possibilità, lo avrebbe fatto ancora. Né questo sognare dei più era
assurdo ("a[logon"[8]), se anche i
Trenta si preoccupavano di lui e davano la massima importanza a ciò che egli
faceva.
I tiranni diretti da Crizia erano i nemici naturali del nostro esteta, in
quanto uomini volgari; una volgarità messa bene in rilievo da Lisia quando,
nell'orazione Contro Eratostene, racconta come Melobio, uno dei
Trenta, appena entrato in casa di Polemarco, il fratello di Lisia poi mandato a
morte, strappò gli orecchini d'oro dalle orecchie di sua moglie ("gunaiko;"
crusou'" eJlikth'ra" ... Mhlovbio" ejk tw'n w[twn ejxeivleto"[9]).
Sappiamo da Tucidide che Alcibiade
non faceva a meno del denaro e dei beni materiali, anzi egli aveva desideri
troppo grandi rispetto alle sue ricchezze (VI, 15, 3); ma i miseri quattrini
per lui erano solo un mezzo.
Diamo ancora la parola a Baudelaire:"
Se ho parlato del denaro, è perché il denaro è indispensabile a coloro che si
fanno un culto delle loro passioni; ma il dandy non aspira al denaro come
a una cosa essenziale; un credito indefinito gli potrebbe bastare: egli lascia
volentieri questa banale passione agli uomini volgari"[10].
Costoro non si intendono di bellezza
che si manifesta attraverso la semplicità di cui Alcibiade si
dimostrò capace quando viveva a Sparta, primeggiando anche in quella energica,
sobria, frugale eujtevleia che del resto faceva parte dello stile alto degli
Ateniesi come ebbe a dire il Pericle di Tucidide: in effetti amiamo il bello
con semplicità e amiamo la cultura senza mollezza. (II, 40, 1).
Anche questo aspetto della distinzione ateniese, e di Alcibiade, trova una
corrispondenza nel dandy baudelairiano: "il dandismo non è, come molte
persone poco riflessive vogliono credere, un diletto eccessivo della toeletta e
dell'eleganza materiale. Queste cose non sono per il perfetto dandy che un
simbolo della superiorità aristocratica del suo spirito. Così, ai suoi occhi,
desiderosi sopra tutto di distinzione , la perfezione
della toeletta consiste nella massima semplicità, che è, in realtà, il miglior
modo di distinguersi"[11].
Altrettanto afferma Tacito del suo elegantiae arbiter: "Ac dicta factaque eius
quanto solutiora et quandam sui neglegentiam, praeferentia, tanto
gratius in speciem simplicitatis accipiebantur"[12] le sue parole e i suoi atti quanto
più erano liberi e manifestavano una certa noncuranza di sé, tanto più
piacevolmente erano presi come segno di semplicità.
[1] S. Kierkegaard, Enten
- Eller (del 1843), Tomo Primo, p. 156.
[2]S. Kierkegaard, Enten
- Eller , Tomo Quarto trad. it. Adelphi, Milano, 1981, p. 40..
[3]S. Kierkegaard,
Diario del seduttore (1843) , trad. it. Rizzoli, Milano, 1974,
pp. 23 e 139
[4] S.
Kierkegaard, In vino veritas (1845), p. 92.
[5]Baudelaire, op.
cit., p. 1151.
[6]Plutarco, op.
cit. , 38.
[7]Annales , XVI, 18.
[8]Plutarco, op.
cit., 38, 4.
[9]Lisia (445 ca -
365 ca a. C.), XII, 19.
[10]Op. cit., p. 1150
[11]Op. cit., pp. 1150 - 1151
[12] Annales , XVI, 18.
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