domenica 15 novembre 2020

Riflessioni sull'"Eneide". 22. Conclusione della storia tra Enea e Didone

fotografia opera di Yupa Watchanakit 
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Enea cerca di scusarsi con lo spettro di Didone che non lo degna di una risposta. Il silenzio in certi casi significa più delle parole. La parodia, il controcanto nel Satyricon dove la mentula contumax non risponde all’invettiva di Encolpio.

  

Enea dunque vede l'ex amante suicida come immagine sfocata: "Quam Troïus heros/ut primum iuxta stetit adgnovitque per umbras/obscuram, qualem primo qui surgere mense/aut videt aut vidisse putat per nubila lunam,/demisit lacrimas dulcique adfatus amorest " (vv. 451 - 455), appena l'eroe troiano si trovò accanto a lei e la riconobbe in mezzo alle ombre, non chiara, come chi all'inizio del mese vede sorgere o crede di avere visto la luna fra le nuvole, fece cadere le lacrime e le parlò con dolce amore.

 

L'immagine ha il suo modello nel poema di Apollonio Rodio quando Linceo che aveva grande acume visivo, credette di vedere Eracle in lontananza, come uno che ha visto o ha creduto di vedere la luna offuscata nel primo giorno del mese ( Argonautiche , IV, 1478 - 1480).

Eracle è l'eroe tradizionale del poema, contrapposto all'irresoluto Giasone : ebbene questa immagine "che verrà splendidamente reimpiegata da Virgilio (…) suggella definitivamente l'irrecuperabilità di Eracle all'universo argonautico"[1].

Altrettanto irrecuperabile è Didone per il Troiano.


Enea cerca di scusarsi dicendo che non è stato lui a volere la catastrofe (invitus , v. 460) ma furono gli ordini degli dèi (iussa deum, v. 461 ), gli stessi che lo costringono (cogunt, v. 462 ) ad attraversare le ombre, e lo spingono con la loro autorità suprema (imperiis egēre[2] suis , v. 463); egli del resto non avrebbe potuto credere di arrecarle tanto dolore con la partenza. La scusa degli ordini ricevuti cui si deve in ogni caso obbedire mi fa venire in mente le giustificazioni addotte dai criminali nazisti. Altri criminali di guerra non hanno avuto nemmeno bisogno di giustificarsi, anzi sono stati celebrati come eroi.

 L'eroe fa un discorso imbarazzato (456 - 466) con il quale tenta di mitigare la donna ancora ardente, e cerca di spengere quel fuoco con le proprie lacrime:"Talibus Aeneas ardentem et torva[3] tuentem/lenibat dictis animum lacrimasque ciebat ", vv. 467 - 468), con tali parole Enea cercava di placare l'animo infiammato che biecamente guardava, e faceva cadere le lacrime.

 

"L'humanitas di Enea ha nel IV libro dei forti limiti che solo nell'incontro con Didone nell'oltretomba (...) saranno superati: solo allora Enea comprenderà fino in fondo ciò che l'amore significava per la donna; ma ciò avverrà in una situazione in cui l'humanitas sarà tanto profonda quanto inutile, giacché il tentativo di mutare un destino ormai compiuto per l'eternità non sarà allora neppure pensabile (...) l'estraneità fra i due perdura anche in questo episodio, salvo che le parti sono come invertite: questa volta è Enea che prega e piange, come nel IV libro era stata Didone. E come egli allora non si era arreso a Didone, così ora Didone è irremovibile, quasi per una specie di contrappasso"[4].

 

 La donna "che s'ancise amorosa"[5] non perdona l'amante che l'ha abbandonata; anzi manifesta il suo sdegno col non rispondergli e non rivolgergli lo sguardo: "Illa solo fixos oculos aversa tenebat/nec magis incepto voltum sermone movetur,/quam si dura silex aut stet Marpesia[6] cautes". ", vv. 469 - 471), quella teneva gli occhi fissi al suolo, girata dall'altra parte, né, iniziato il discorso, si muove nel volto più che se là stesse una dura pietra o una roccia del Marpeso. 

 

Altrettanto fa la Medea di Euripide conscia del tradimento di Giasone:" E non solleva lo sguardo né stacca il volto/ da terra; e come rupe o marina/onda ascolta gli amici consigliata" (Medea, vv. 27 - 29).

 

I primi due versi sono citati da Petronio con intenti parodici: Encolpio lancia un'invettiva contro la mentula che ha disertato:"erectus igitur in cubitum hac fere oratione contumacem vexavi:"quid dicis - inquam - omnium hominum deorumque pudor? nam nec nominare quidem te inter res serias fas est." (132, 9 - 10), drizzatomi dunque sul gomito strapazzai il renitente con queste parole più o meno:" che cosa dici - faccio - vergogna degli uomini tutti e degli dèi? Infatti sarebbe un sacrilegio perfino nominarti tra le cose serie.

La risposta silenziosa della mentula mortificata è una citazione con intenti parodici, un centone virgiliano fatto di tre esametri:"illa solo fixos oculos aversa tenebat,/nec magis incepto vultum sermone movetur/quam lentae salices lassove papavera collo" (132, 11), quello teneva gli occhi fissi al suolo, girato dall'altra parte, né, iniziato il discorso, si muove nel volto più dei flessibili salici o dei papaveri dal morbido stelo.

 I primi due versi corrispondono ai due dell'Eneide (VI, 469 - 470) che descrivono il silenzio di Didone la quale non accoglie le scuse di Enea. L'Eneide però continua con "quam si dura silex aut stet Marpesia cautes". (v. 471) che se là stesse una dura pietra o una roccia del Marpeso, una durezza lapidea che non può essere paragonata alla mentula di Encolpio piuttosto assimilabile alla flessibilità dei salici o allo stelo morbido dei papaveri.

 Il terzo esametro è formato da due emistichi tratti da Bucolica V, 16 e da Eneide IX, 436.

"Non c'è dubbio che Virgilio sia il poeta latino preferito da Petronio: al di là del gran numero di puntuali reminiscenze e dell'analogia che non di rado si scorge fra le vicissitudini di Encolpio e quelle di Enea, lo dimostrano le non poche citazioni virgiliane disseminate nel Satyricon (c'è da tener presente che Petronio è molto parco in vere e proprie citazioni). Particolarmente istruttivi, per capire il meccanismo della citazione virgiliana in funzione degradante, sono i tre esametri con cui Encolpio commenta il mutismo dell'inerte sua pars corporis di fronte ai suoi aspri rimproveri (132 11). Essi, infatti, costituiscono un centone di esametri virgiliani: l'ultimo combina un emistichio di buc. 5 16 con Aen. IX 436, dove il parallelo è fra Eurialo morente e un papavero dalla chioma languidamente reclinata; ancor più dissacratorio è il tono dei primi due esametri, che finiscono per stabilire un parallelo fra il mutismo del membro inerte di Encolpio e il silenzio di Didone, che negli Inferi si rifiuta di rispondere alle esortazioni di Enea"[7].

L’utilizzo dell’Eneide da parte di Petronio è del resto parodistico: l’elegantiae arbiter di Nerone è “ideologicamente” ossia contenutisticamente lontanissimo da Virgilio, ne fa praticamente un controcanto

 

 Eliot nel silenzio di Didone riconosce "il più espressivo rimprovero di tutta la storia della poesia" e "non soltanto uno dei brani più commoventi , ma anche uno dei più civili che si possano incontrare in poesia"[8].

 

Il personaggio muto significa più che se parlasse.

 

Possiamo accostare a questo rancore silente quello del suicida Aiace nei confronti di Ulisse nell'XI canto dell'Odissea (vv. 542 - 564).

 

Il personaggio muto, al pari dell'Apollo delfico di Eraclito[9], non parla e non nasconde, ma significa.

Nelle Trachinie di Sofocle, Iole, la giovane amante di Eracle condotta a Trachis, non risponde alle domande di Deianira, la moglie attempata e negletta dell'eroe dorico. Ebbrene "la necessità scenica qui diventa felice idea drammatica. Il mutismo di Iole, di fronte a Deianira che la interroga, è un effetto potente: è la traduzione più felice di una nobiltà percorsa dal dolore"[10].

 

Nell'Antigone di Sofocle, Euridice in procinto di uccidersi copre il dolore e lo sdegno con un silenzio eccessivo:"kai; th'" a[gan ga;r ejsti; pou' sigh'" bavro" " (v. 1257), in effetti in qualche maniera c'è un'oppressione anche nel silenzio eccessivo. Sono parole del messo.

 Non si può manifestare un'ostilità più radicale e nello stesso tempo più educata che opponendo il silenzio ai vani tentativi giustificatòri di quanti ci hanno inflitto i danni più gravi.

Alla fine di questo episodio Didone torna dal primo marito che contraccambia il suo amore.

Non si capisce perché Dante la collochi nella schiera ov’è Semiramìs la quale. “A vizio di lussuria fu sì rotta,/che libito fe’ licito in sua legge/

per tòrre il biasmo in che era condotta” (Inferno V, 55 - 56)

Né per quale ragione Francesca da Rimini esca con l’amante dalla “schiera ov’è Dido” (v. 85). Vero è “che ruppe fede al cener di Sicheo” (v. 62) ma non pare che questo sia il vizio dei “peccator carnali - che la ragion sommettono al talento” (vv. 38 - 39).

 

Bologna 15 novembre 2020 ore 17, 20.

giovanni ghiselli

 

p.s

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[1] M. Fusillo, Lo spazio letterario della Grecia antica, Vol. I, Tomo II, , p. 129.

[2] =egerunt.

[3] Neutro plurale con valore avverbiale.

[4]A. La Penna - C. Grassi, op. cit., p. 359 e p. 561

[5]Dante, Inferno , V, 61.

[6] Il Marpeso è un monte dell'isola di Paro famosa per i suoi marmi.

[7] P. Fedeli, Il Romanzo, in Lo spazio letterario di Roma antica, vol.I, p. 345. 

[8]Che cos'è un classico? , in T. S. Eliot, Opere , p. 966.

[9]Eraclito:"oJ a[nax, ou'J to; mantei'ovn ejsti to; ejn Delfoi'", ou[te levgei ou[te kruvptei ajlla; shmaivnei", fr. 120 Diano.

[10] U. Albini, Nel nome di Dioniso, Garzanti, Milano, 1991, p. 18.

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