martedì 10 novembre 2020

Riflessioni sull'"Eneide". 2. La paura degli istinti è un aspetto della decadenza

Il dardo d'amore nell'Eneide non ha nulla di giocoso: è come una canna mortale ficcata nel fianco: "haeret lateri letalis harundo " (IV, v.73). Il sentimento amoroso è dunque connesso al dolore, alla morte e al senso di colpa.

 

La causa è il terrore dell'istinto che è sintomo di decadenza e di calo del turgore vitale.

 

"Combattere gli istinti - questa è la formula della décadence ; fintanto che la vita è ascendente, felicità e istinti sono uguali"[1].

Di questa lotta contro gli istinti abbiamo un'iterata formulazione latina in Cicerone:"primum ut appetitus rationi pareat...praestantissimum est appetitum obtemperare rationi "(De Officiis , I, 141), la prima regola è che l'istinto obbedisca alla ragione...la regola più importante è che l'istinto si sottometta alla ragione.

 

Può andare purché l'istinto non venga criminalizzato o soppresso, infatti :"l'umanità non si riduce affatto all'animalità; ma senza animalità non c'è umanità"[2].

 

"Molti provano, per un istante, una penosa tristezza perché tra la loro vita e i loro istinti c'era un tale dissidio, un tale conflitto che la loro vita non era affatto una danza, bensì un faticoso e affannato respirare sotto i pesi: pesi che in fin dei conti essi stessi si erano accollati"[3].

 

Lukács vede in Dioniso, nel Dioniso interpretato da Nietzsche il paradigma mitico della classe dominante che si è trasformata da decadente in attivista. “Dioniso è il simbolo mitico di questa conversione della classe dominante (…) il predominio dell’istinto sull’intelletto e sulla ragione (perciò nell’opera giovanile la figura di Socrate è contrapposta a Dioniso (…) Dioniso appare come il simbolo della decadenza gravida dell’avvenire e degna di approvazione, della decadenza dei forti, in opposizione al fiacco e deprimente pessimismo (Schopenhauer) e alla liberazione degli istinti con accenti plebei (Wagner) (…) Il dio di questa decadenza “riscattata” e convertita in attività è Dioniso; sue caratteristiche sono crudeltà e sensualità”[4]. -

 

Rimasta sola nella casa vuota, la digraziata regina si tormenta:"sola domo maeret vacua " (v. 82) o in altri momenti inganna se stessa trattenendo in grembo Ascanio "infandum si possit fallere amorem " (v. 85), per vedere se possa illudere l'indicibile amore. 

 

Amore è infamia e follia. Può diventare anche crudeltà, nel caso che la donna frustrata abbia a portata di mano creature deboli con cui prendersela:"Saevus Amor docuit natorum sanguine matrem/commaculare manus. Crudelis tu quoque, mater./Crudelis mater magis, an puer improbus ille? ", il crudele Amore insegnò alle madri a contaminare le mani col sangue dei figli. Crudele anche tu madre. Crudele la madre di più o quel figlio malvagio?, canta Damone nell ecloga VIII (vv. 47 - 49) con riferimento a Medea, a Venere e a Cupido.

 

L'amore, in quanto connotato per natura da furor improbitas , non dovrebbe riguardare la "razza padrona" degli optimates quali vengono definiti da Cicerone nella Pro Sestio[5]:" Omnes optimates sunt qui neque nocentes sunt, nec natura improbi nec furiosi, nec malis domesticis impediti ", 45, sono ottimati tutti quelli che non fanno del male, né sono malvagi né squilibrati per natura, né impacciati da difficoltà domestiche.

 

Anche Giunone, benevola e protettiva verso la regina di Cartagine, individua l'amore di lei come ardore e furore:"ardet amans Dido traxitque per ossa furorem " ( IV, 101), arde d'amore Didone e ha contratto nelle ossa il furore. Sta parlando con Venere mentre le propone un matrimonio tra Enea e la regina. Ma parlava subdolamente - simulata mente - (105) per attrarre sulle rive dell’Africa il regno d’Italia quo regnum Italiae libycas averteret oras (106).

 

La follia erotica è assimilabile a quella religiosa

Furens nell'Eneide è pure Cassandra della quale Corebo era acceso da folle amore:"insano Cassandrae incensus amore "(II, 343), cosa che gli costò la vita poiché si trovava a Troia la notte dell'incendio avendo voluto portare aiuto a Priamo in quanto aspirava a diventare suo genero:" infelix, qui non sponsae furentis praecepta /audierit "( II, 345 - 346)), infelice che non aveva dato ascolto alle profezie della fidanzata fatidica. La profetessa di sventura ricompare un poco più avanti (II, 405):"ad caelum tendens ardentia lumina frustra ", drizzando al cielo gli occhi ardenti invano.

Anche in questo caso ardore e pazzia vanno insieme, senza che riescano a congiungersi peraltro, in quella profetica come in quella amorosa.

 

Altra furens è la Sibilla cumana:"ea frena furenti /concutit et stimulos sub pectore vertit Apollo " (Eneide, VI, vv. 100 - 101), quei morsi alla furente li scuote Apollo e sferra sotto il petto colpi di sperone.

 

La pazzia amorosa con ira e rabies secondo Giovenale rendono meno esecrabili i crimini di Medea e Procne, rispetto ai delitti delle matrone romane perpetrati per denaro o per il potere,:"et illae/grandia monstra suis audebant temporibus, sed/non propter nummos. minor admiratio summis/ debetur monstris, quotiens facit ira nocentem /hunc sexum et rabie iecur incendente feruntur/praecipites… (VI, 644 - 649), anche quelle famose ai loro tempi osavano grandi mostruosità, ma non per denaro. Meno stupore si deve alle mostruosità somme, tutte le volte che è l'ira a rendere assassino questo sesso ed esse sono trascinate a precipizio dalla rabbia furiosa che brucia il fegato.

 

 Platone nel Fedro ricorda che il tema dell'irrazionalità della passione amorosa è stato già trattato da Saffo e Anacreonte ed elenca quattro modi buoni di essere fuori di sé: quello dei profeti come la Pizia di Delfi, quello dei fondatori di religione, quello dei poeti, e quello degli innamorati.

Il filosofo tuttavia non considera negativamente questa "frenesia divina che è molto più saggia della saggezza del mondo"[6].

Platone nel Fedro sostiene che agli uomini i beni più grandi derivano da una mania data dagli dèi (244a): infatti la profetessa di Delfi, quella di Dodona e la Sibilla procurano benefici agli uomini quando si trovano in stato di mania, mentre in stato di senno non ne procurano alcuno. Infatti gli antichi che hanno coniato i nomi hanno chiamato manikhv la più bella delle arti che prevede il futuro. Sono stati i moderni, ajpeirokavlw~, con ignoranza del bello, che mettendoci dentro una taumantikh;n ejkavlesan (244c), l’hanno chiamata mantica 

 Socrate vuole dimostrare:"wj" ejp j eujtuciva/ th'/ megivsth/ para; qew'n hJ toiauvth/ maniva devdotai" (Fedro, 245c) che tale follia è concessa dagli dèi per la nostra più grande fortuna.

 

C'è da notare che maivnomai, "sono pazzo", maniva, "follia" e mavnti" , profeta, hanno la radice comune man(t) - /mhn - .

 

Il fuoco, amoroso o no, non brucia sempre in maniera punitiva e dolorosa: anzi talora significa beatitudine.

 

Nella Storia del genere umano di Leopardi l'ardore amoroso non è un fatto negativo: "rarissimamente congiunge due cuori insieme, abbracciando l'uno e l'altro a un medesimo tempo e inducendo scambievole ardore e desiderio in ambedue".

Cfr. la fusione o trasfusione delle anime.

 

Il ricordo di una trasfusione del genere si trova nel Satyricon: :"qualis nox fuit illa, di deaeque,/quam mollis torus. haesimus calentes/et transfudimus hinc et hinc labellis/errantes animas. valete, curae/mortales. ego sic perire coepi " (Satyricon, 79, 8), che notte fu quella, dei e dee, che morbido letto. ci stringemmo ardenti e ci trasfondemmo con le labbra a vicenda le anime deliranti. addio, affanni mortali. così io cominciai a morire.

 E si ritrova nei Fratelli Karamazov quando il passionale Dimitri dice :"questo amore mi tortura, mi tortura! (...) Prima, mi facevano languire soltanto le flessuosità del suo[7] corpo infernale, ma adesso tutta la sua anima l'ho trasfusa nella mia, e grazie a lei anch'io sono diventato un uomo!"[8].

 



[1]F. Nietzsche, Crepuscolo degli idoli (del 1888), p. 57.

[2] E. Morin, La testa ben fatta, p. 37.

[3] H. Hesse, Klein e Wagner (del 1920).p. 126.

[4] La distruzione della ragione, pp. 399 - 400.

[5] Del 56 a. C.

[6]A. Taylor, Platone , p. 475.

[7] Di Gruscenka.

[8]F. Dostoevskij, I fratelli Karamazov (del 1880), p. 709.

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