NUOVE DATE alla Biblioteca «Ginzburg»: Protagonisti della storia antica

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martedì 3 maggio 2022

La storia di Päivi. 21 Tragedia e commedia. Un Prometeo da dramma satiresco.


Quella sera sulla collina sopra il Danubio fu la nostra ultima in Ungheria, il culmine dell’intesa amorosa.

Da questo momento la fiamma di Eros iniziò a intiepidirsi, il suo fulmine a perdere forza e velocità. Un poco alla volta, ma irreversibilmente, come succede spesso.

 Per non cadere nel patetico sul tipo di “il grande amore sta per finire con dolore e lacrime” voglio ricordare un particolare comico e mitico.

Ciò che finisce dopo tutto non ha nessuna ragione per continuare, e va bene che termini. La fine deve essere festeggiata quanto l’inizio. Sarebbero guai molto seri se la relazione continuasse tra noia e dolore.

L’amore sparisce solo quando non può durare più a lungo nella bellezza e nella pienezza.

Le cose ontologicamente belle restano eterne, e brillano come stelle nella notte, per sempre o quasi per sempre.

 

Ora ti faccio fare due risate, lettore, per contrastare la malinconia della decadenza di questo amore e, soprattutto, il terrore della nostra mortalità.

 

Prima però voglio essere un poco pedante. Potete saltare queste righe in corsivo

Comedy escapes , la commedia è evasione, fa dire Woody Allen a un personaggio del film Melinda e Melinda.

In un altro film del medesimo autore, Crimini e misfatti, un personaggio dice: “Comedy is tragedy plus time”, la commedia è la tragedia più del tempo.

 

La Poetica di Aristotele afferma che la tragedia vuole rappresentare personaggi migliori di quelli reali (beltivou") mentre la commedia è imitazione di uomini peggiori rispetto a quelli di ogni giorno (ceivrou" tw'n nu'n 1448a), ossia ancora più volgari, e tali che non suscitano tanto lo sdegno quanto il riso provocato dalla visione del ridicolo.

 "Il ridicolo" infatti spiega il filosofo "è qualche cosa di sbagliato" (aJmavrthma , 1449a).

La commedia è mivmhsi" faulotevrwn imitazione di personaggi che valgono poco per il ridicolo (to; geloi'on) che è parte del brutto. Il ridicolo è un errore ed è una bruttezza indolore e non è deleterio (aJmavrthmav ti kai; ai\sco" ajnwvdunon kai; ouj fqartikovn), proprio come la maschera comica è qualche cosa di brutto e stravolto ma senza dolore (Poetica, 1449a).

L'errore del resto viene menzionato dal filosofo di Stagira anche per i personaggi tragici (aJmartiva, Poetica, 1453a); la differenza è che nei loro confronti deve nascere pietà e terrore, mentre la commedia non produce dolore né compassione. Dunque ridiamoci su.

 

Ora comprendo - ajrti manqavnw - come dice Admeto[1] il quale chiese alla sposa Alcesti di morire al posto di lui - che continuare il nostro rapporto sarebbe stato un errore tragico o comico, e che, stando insieme altro tempo, non a noi due destinato, saremmo diventati peggiori di come eravamo in quel mese del 1974.

 

Prima di arrivare alla catastrofe dunque, prendiamo tempo con una brevissima commedia, o piuttosto un dramma satiresco, con un uomo come protagonista umano, un’aquila, l’uccello di Zeus, quale deuteragonista, e il coro formato da una brigata di avvinazzati.

 

Sulla terrazza del ristorante Silvanus dove mangiavamo, volteggiava l’uccel di Dio[2]. Da un tavolo non lontano dal nostro si faceva notare Danilo che l’insana dulcedo perpotandi[3] aveva spinto ad alzare il gomito innumerevoli volte.

Alla levata di ogni bicchiere gridava: “Chi non è vil, mi segua” come un condottiero che vuole arginare una rotta imminente.

Poi gli veniva in mente Francesco Redi e citava:

 

“Passavoga, arranca, arranca,
    ché la ciurma non si stanca,
    anzi lieta si rinfranca
    quando arranca inverso Brindisi:
    Arianna, brindis, brindisi.
    E se a te brindisi io fo,
    perché a me faccia il buon pro,
    Ariannuccia vaguccia, belluccia,
    cantami un poco, e ricantami tu
    sulla mandola la cuccurucù,
    la cuccurucù
    la cuccurucù,
    sulla mandola la cuccurucù”.

 

 Poi tra un sorso e l’altro della compotazione augurava salute a tutti, assenti e presenti, e da uomo colto qual è, recitava senza alcuno sforzo anche la parte di Eracle beone nell’Alcesti di Euripide: “eu[fraine sauto;n, pi'ne, to;n kaq j hJmevran - bivon logivzou so;n, ta; d j a[lla th'ς tuvchς”[4].

I suoi commensali già impregnati di aperitivi lo ascoltavano, probabilmente senza capirlo, poi ripetevano i due trimetri con storpiature puntualmente corrette dall’improvvisato capobanda che si sbracciava mimando le mosse di un direttore d’orchestra.

Ogni tre minuti qualcuno toglieva da una nuova bottiglia il tappo a forma di fungo, lo liberava dalla sua prigione di fil di ferro e versava il nobile liquido per elettrizzare lo stomaco con il suo gelido e profumato frizzare. Il vino scendeva rapido come un torrente montano nei gargarozzi profondi di questa brigata dall’aria allegra.

Il tripudio dionisiaco non poteva restare privo di danze: ogni tanto il corifeo gridava: “babai' coreu'sai parakalei' m j oJ bakcio"[5], quindi si metteva a danzare tra gli applausi frenetici del resto del coro e di noi spettatori.

Come ebbe smesso il ballerino, soddisfattissimo, disse: 

"Accedant capiti meo cornua Bacchus ero" 5bis 

 Dopo le libagioni a tutti gli dèi del cielo, della terra e del sottosuolo, il capo del tiaso, il dotto simposiarca giurò sull’ennesima coppa che non vi avrebbe mai versato dell’acqua[6], poi, oramai farfugliante si distese sopra la tovaglia. Ancora un goccio, un breve schiamazzo fatto di strani versi, e stramazzò. Le braccia e le mani non avevano più la forza di reggere nemmeno un bicchiere minuscolo. 

Aveva indosso calzoni corti e bretelle. Pochi minuti più tardi dormiva, o, forse, era svenuto.

Dopo avere salutato a gesti l’addormentato sul tavolo, i suoi compagni di canti, declamazioni e bevute, una masnada di grossi Russi inclini alla crapula, se ne erano andati. Un’aquila in cerca di cibo per sé e forse anche per gli aquilotti, visto l’uomo solo e resupino, probabilmente lo aveva scambiato per Prometeo legato sulla rupe scitica e voleva strappargli il fegato.

Calò un paio di volte su di lui, ma poi cambiò la direzione e l’intento: il grande rapace arrivato a pochi metri dalla sua preda, respinto e sconvolto dall’odore acre dell’alcol più volte esalato a soffioni , si impennò verso il cielo con una virata così repentina che una delle “sacre penne”[7] gli cadde da un’ala e si posò sulla fronte dell’ebbro dormiente facendone una specie di alpino che sogna la libera uscita con la ragazza senza mutande, ma non senza la bottiglia. 

Lo feci notare a Päivi e commentai la strana visione dicendo che il grande uccello, colpito dall’esalazione eruttata dall’amico imbevuto, non se l’era sentita di andare a frugare nelle sue viscere e aveva ripreso la via dell’etere puro.

 “Il cane alato di Zeus, l'aquila sanguinaria non aveva fatto a brani, voracemente, il grande straccio madido del suo corpo e tanto meno ne aveva inghiottito il fegato, nero pasto"[8].

Utilizzai opportunamente Eschilo non senza confessare il mio debito al grande maestro.

Päivi mi guardò con ammirazione e disse: “in te c’è qualche cosa di folle e pure di geniale”

“Ce la metto tutta per sembrarti geniale - risposi - è questa apparenza che ti ha attirata e spinta ad amarmi. Con questa cerco di trattenerti”.

May be[9] replicò senza scomporsi, anzi accentuando la sua solita aria da Sfinge.

Avrai notato, lettore, che quando l’amore è in fase calante si parla con scarsa chiarezza. Per non impegnarsi, perché si è già capito che il tempo concesso da Eros è scaduto. Lo stesso avviene nella fase incipiente quando non si è ancora giunti a decidere e tutto può essere: “may be” replicava pure la finnica fulva alle mie prime proposte.

Intanto Danilo si era svegliato e non trovando i compagni si mise a gridare tra i fumi dell’alcol e quelli del sonno.“Dormite iam et requiescite? Sufficit, venit hora[10]. Basta l’ora è giunta”, tradusse. Quindi concluse: “Questo è tutto”. E si addormentò un’altra volta. Non lo incontreremo mai più. Tuttavia sono contento di farvi sapere che è ancora vivo.

 

 

Note

 

[1] Euripide, Alcesti 940

[2] L’aquila in Dante, Paradiso, VI, 4.

[3] L’insano piacere di bere a dismisura. Era uno dei vizi di Alessandro Magno secondo Curzio Rufo ( Historiae Alexandri Magni, (VI, 2, 2)

[4] Alcesti, 778 - 779, rallegrati, bevi, conta come tua la vita di ogni giorno, il resto è della sorte.

[5] Euripide Ciclope, 156. oh, Bacco mi invita a danzare!

5 bis Cfr. Ovidio, Heroides, 15, 24. Si aggiungano le corna al mio capo, sarò Bacco.

[6] Cfr. Aristofane, Lisistrata, 197.

[7] Dante, Paradiso, VI, 7.

[8] Cfr. Eschilo, Prometeo incatenato, vv, 1021 - 1025

[9] Può essere.

[10] N. T. Marco 14, 41).

Bologna 3 maggio 2022

 

giovanni ghiselli  ore 16, 27

p. s

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