Culture diverse nella Medea di Euripide
In una intervista a J. Duflot, Pasolini dichiara che nel suo film ha voluto mettere in evidenza il contrasto tra la cultura razionale e pragmatica di Giasone e quella arcaica e ieratica della barbara:" Ho riprodotto in Medea tutti i temi dei film precedenti (...) Quanto alla pièce di Euripide, mi sono semplicemente limitato a qualche citazione (...) Medea è il confronto dell'universo arcaico, ieratico, clericale, con il mondo di Giasone, mondo invece razionale e pragmatico. Giasone è l'eroe attuale (la mens momentanea) che non solo ha perso il senso metafisico, ma neppure si pone ancora questioni del genere. E' il "tecnico" abulico, la cui ricerca è esclusivamente intenta al successo (...) Confrontato all'altra civiltà, alla razza dello "spirito", fa scattare una tragedia spaventosa. L'intero dramma poggia su questa reciproca contrapposizione di due "culture", sull'irriducibilità reciproca delle due civiltà (...) potrebbe essere benissimo la storia di un popolo del Terzo Mondo, di un popolo africano, ad esempio[1]".
Giasone è un pragmatico: “l'interpretazione puramente pragmatica (senza Carità) delle azione umane deriva in conclusione da questa assenza di cultura: o perlomeno da questa cultura puramente formale e pratica"[2].
Il pragmatismo di Giasone si manifesta chiaramente quando il seduttore dichiara alla sua ex moglie di avere voluto cambiare donna, prendendo la principessa di Corinto, non perché odiasse la madre dei suoi figli, o perché ne volesse altri, ma per la cosa più importante: vivere bene, lui con la famiglia, o le famiglie, e senza restrizioni (wJ" , to; men; mevgiston, oijkoi''men kalw'"-kai; mh; spanizoivmeqa), sapendo con certezza che il povero tutti lo sfuggono (vv. 559-560).
Giasone insomma "dra'/ ta; sumforwvtata-ghvma" tuvrannon " (v. 876-877) fa quello che è più utile sposando la figlia di un re.
E’ la stessa Medea che lo dice a Giasone con ironia e disprezzo.
Medea ammazza i figli, ma tra i due amanti-antagonisti il personaggio odioso è senz'altro Giasone:"Medea si rivela fin dal principio come una donna non comune, di sinistra potenza, e di fronte ad essa il saggio e benpensante Giasone non è che un miserabile. Questa raffigurazione che Euripide ci dà dell'eroe del mito greco e della maga barbara, distribuendo luci ed ombre proprio all'opposto di come accadeva nella veneranda tradizione, ci permette di capire perché Aristofane rimproverasse al poeta di aver gettato nel fango le nobili figure del mito. Ma Euripide non lo fa per l'infame piacere di demolire ogni grandezza, al contrario (e qui Nietzsche ha visto più a fondo di Aristofane e di Schlegel) lo fa con un'intenzione morale: le credenze antiche vengono smascherate e demolite, ma per far posto a un senso di giustizia più vero e per porre un fondamento a questo nuovo dovere. E chi potrà sottrarsi all'impressione che questa Medea non abbia davvero la ragione dalla sua, di fronte a questo Giasone?"[3].
Già Epitteto apprezzava la sinistra potenza di Medea: “Egli, personalmente, odiava le vie di mezzo. Medea, nella sua efferatezza, gli riusciva più simpatica che non i tiepidi, che non fanno nulla ex abundantia cordis e professano princìpi filosofici senza mai applicarli”[4].
Giovenale considera meno grave il delitto pur atroce di Medea e Progne rispetto a quelli matrona romana dei suoi tempi le quali hanno ucciso i figli “sed/non propter nummos” (VI, 645-646) , non per i quattrini, bensì per ira e rabbia: “Illam ego non tulerim, quae computat et scelus ingens/sana facit. Spectant subeuntem fata mariti/Alcestim, et similis si permutatio detur,/morte viri cupiant animam servare catellae” (651-654), io non posso sopportare quella che calcola e compie un crimine grande a mente fredda. A teatro guardano Alcesti che si sobbarca il destino di morte del marito, e se fosse concesso uno scambio simile, desidererebbero salvare la vita della cagnetta con la morte del marito.
Rimanendo sul dramma nell'Alcesti di Euripide, Admeto, nel dare l'addio alla moglie morente, auspica per sé la lingua e il canto di Orfeo ( eij d j jOrfevw" moi glw'ssa kai; mevlo" parh'n", v. 357) , mezzi con i quali, sostiene, potrebbe recuperare la sposa. E' interessante l'interpretazione di Jan Kott:"Anche quando Euripide rinuncia temporaneamente al tono di opera buffa, le sue allusioni al mito restano ironiche. In un momento particolarmente solenne, poco prima della morte di Alcesti, Admeto le assicura che se avesse la voce e la lira di Orfeo non esiterebbe a scendere nell'Ade con lei. Anche il più ignorante degli spettatori di Alcesti doveva sapere che Orfeo non era riuscito a portare Euridice fuori dagli Inferi"[5].
Admeto dunque è un ridicolo cretino oltre che un egoista.
Agamennone nell’ Ifigenia in Aulide di Euripide è un irrisoluto che non sa quello che vuole. Nel Prologo (1-163) scrive una lettera ingannevole a Clitennestra , perché gli porti Ifigenia, poi se ne pente.
Ora sono pentito, dice Agamennone e cambio quello che ho scritto (metagravfw, 109).
Questa metagrafhv sembra una correzione della persona, ma è solo momentanea perché poi farà portare in Aulide la figlia affinché venga sacrificata.
Inoltre Agamennone invidia un vecchio servo che passa una vita ajkivndunon , priva di rischi, rimanendo ajgnw;~ ajklehv~ (18) sconosciuto e oscuro.
Invidia meno chi vive ejn timai`~, tra gli onori.
Il duce conclude il pologo dicendo che dei mortali nessuno è felice e beato (o[lbio~, eujdaivmwn[6]) fino al termine (ej" tevlo"), nessuno è immune da dolore (161-163)
In questa tragedia Euripide trova delle giustificazioni per l’adulterio e l’assassinio compiuti da Clitennestra che dice al marito: hai ucciso il mio primo sposo, Tantalo[7] e hai strappato dal mio seno e sfracellato al suolo il bambino avuto da lui.
I miei fratelli Dioscuri volevano punirti, ma mio padre Tindaro ti salvò e così mi sposasti. Quindi sono stata una moglie irreprensibile (a[mempto~ gunhv). Una fortuna per te: una moglie siffatta è spavnion qhvreum j (1162) raro bottino, mentre non c’è spavni~, penuria di spose cattive.
Ti ho dato un maschio, Oreste, e 3 figlie: Ifigenia, Elettra, Crisotemi.
Come credi che reagirò se me ne toglierai una; quali sentimenti pensi che avrò, vedendo vuoti i seggi di Ifigenia ? Lascerai odio (Ifigenia in Aulide, mi`so~, 1179) partendo, e al ritorno basterà un lieve pretesto per farti avere l’accoglienza che meriti.
Anche Dante biasima Agamennone: “e così stolto-ritrovar puoi il gran duca de’ Greci-onde pianse Ifigenia il suo bel volto” Paradiso, V, 68-70.
I voti, non vanno fatti “a ciancia”.
Restiamo sulle ultime tragedie di Euipide e vediamo che Penteo nelle Baccanti cerca di reprimere le Menadi, poi ne rimane affascinato, quindi ne viene sbranato. Non capisce che l’irrazionale non può essere eliminato.
Sentiamo P. P. Pisolini su Dioniso e Penteo.
“Egli è venuto in forma umana a Tebe per portare amore (ma mica quello sentimentale e benedetto dalle convenzioni!), e invece porta il dissesto e la carneficina. Egli è l’irrazionalità che cangia, insensibilmente e nella più suprema indifferenza, dalla dolcezza all’orrore. Attraverso essa non c’è soluzione di continuità tra Dio e il Diavolo, tra il bene e il male. Dioniso si trasforma, appunto, insensibilmente e nella più suprema indifferenza, dal giovane pieno di grazia che era al suo primo apparire in un giovane amorale e criminale. Sia come apparizione “benigna” che come apparizione “maledetta”, la società, fondata sulla ragione e sul buon senso-che sono il contrario di Dioniso, cioè dell’irrazionalità-non lo comprende. Ma è la sua stessa incomprensione di questa irrazionalità che la porta irrazionalmente alla rovina, alla più orrenda carneficina mai descritta in un’opera d’arte. Sono gli I. M., per citare Elsa Morante, gli Infelici Molti, ossia la maggioranza, o la media, fondata sulla razionalità e sul buon senso, che non comprendono la grazia di Dioniso, la sua libertà, e, perciò, finiscono atrocemente nella strage: di cui peraltro la irrazionalità stessa è patrona. Quanti Péntei, nella nostra società…I Pentéi italiani sono dei mediocri, dei meschini imbecilli, neanche degni di essere dilaniati dalle Menadi ”[8].
Nemmeno la ragione del resto va negata.
La negazione della ragione non è collegata a una visione progressista, ma, il più delle volte, reazionaria: “Si nega la ragione o si proclama la sua impotenza (Scheler), in quanto la realtà stessa, la vita vissuta dal pensatore, non mostra alcun movimento progressivo verso un avvenire degno di approvazione, alcuna propspettiva di un futuro migliore del presente”[9].
Euripide lascia grande spazio all’irrazionale, tuttavia è pure reputato il tragediografo che ha portato sulla scena la filosofia e il ragionamento.
Concludo, per ora, la parte relativa a Euripide citando alcune parole La nascita della tragedia. “Socrate, l’eroe dialettico del dramma platonico, ci ricorda la natura affine dell’eroe euripideo, che deve difendere le sue azioni con ragioni e controragioni, e che per questo rischia tanto spesso di non suscitare più la nostra compassione tragica (…) La virtù è il sapere ; si pecca solo per ignoranza; il virtuoso è felice”[10].
Questo è Socrate piuttosto che Euripide, ma i due vengono assimilati da Aristofane e da Nietzsche.
A tale analogizzare contrappongo alcune parole del primo stasimo delle Baccanti dove il coro delle Menadi canta:
"Il sapere non è sapienza"(to; sofo,n d’ouj sofiva v.395).
La conclusione di questo canto del coro è
Antistrofe b
Il demone figlio di Zeus
gioisce delle feste,
e ama Irene che dona benessere,
dea nutrice di figli.
Uguale al ricco e a quello di rango inferiore
concede di avere la
gioia del vino che toglie gli affanni;
e porta odio a chi queste cose non stanno a cuore:
durante la luce e le amabili notti
passare una vita felice,
e saggia tenere la mente e l’anima lontane
dagli uomini straordinari;
ciò che la massa
più semplice crede e pratica,
questo io vorrei accettare (Baccanti, 418-432)
Infine: il potere non è potenza
Tiresia, sempre nelle Baccanti di Euripide, dà a Penteo questo consiglio: “non presumere che il potere abbia potenza sugli uomini, ( mh; to; kravto" au[cei duvnamin ajnqrwvpoi" e[cein, v. 310). Il potere dunque non è potenza come il sapere non è sapienza
Su questo torneremo
Bologna 22 maggio 2022-
Ore 11, 07
giovanni ghiselli
p. s.
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[1]J. Duflot, Pier Paolo Pasolini. Il sogno del centauro, Roma 1983, in Naldini, Pasolini, una vita , p. 81.
[2] P.P. Pasolini, Scritti corsari, p. 49.
[3] B. Snell, La cultura greca e le origini del pensiero europeo , pp. 178-179.
[4] Pohlenz, La Stoa, 2, 109.
[5]Mangiare Dio, pp. 132-133.
[6] Cfr. Medea 1227-1230. Nessuno è eujdaivmwn, uno può essere eujtucevstero~, più fortunato di un altro quando passa un’onda di prosperità, ma felice nessuno. Sono le parole conclusive del Messo che ha raccontato la fine di Creonte e della figlia uccisi dai doni di Medea
[7] Un figlio di Tieste
[8] Pasolini, Saggi sulla politica e sulla società,p p. 1142-1143
[9] G. Lukács, La distruzione della ragione, II, p. 767.
[10] F. Nietzsche, La nascita della tragedia, capitolo 14
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