Passiamo ora a Polibio (206-118) che celebra la costituzione della repubblica romana della metà del II secolo a. C.
Nel VI libro lo storiografo di Megalopoli analizza le tre forme costituzionali fondamentali (monarchia, aristocrazia, democrazia) con il loro degenerare nella versione deteriore (tirannide, oligarchia, oclocrazia)
Au{th politeiw'n ajnakuvklwsi" questo è il ciclo delle costituzioni, au[th fuvsew~ oijkonomiva, questa la disposizione della natura kaq j h}n metabavllei kai; meqivstatai kai; pavlin eij~ auJta; katanta`/ ta; kata; ta;~ politeiva~- secondo cui mutano, le forme costituzionali si trasformano e tornano alla loro forma originaria(VI, 10).
L'anakyklosis si configura come un passaggio dallo stato ferino alla monarchia , quindi alla "degenerazione" di questa (la tirannide), poi alla aristocrazia e alla "degenerazione" di questa (oligarchia), infine alla democrazia e alla "degenerazione" di questa (ochlokratìa).
Migliori sono le forme miste, come a Sparta o Cartagine e soprattutto a Roma.
La costituzione mista presenta il l'eminente vantaggio di conservazione di forme monarchiche (a Roma l'imperio consolare) ed aristocratiche (l'autorità senatoria) nella sopravvenuta democrazia.
La mikth; politeiva (costituzione mista) dunque riunisce in sè le caratteristiche delle tre forme sane di governo: quello monarchico rappresentato dai consoli, quello aristocratico dal senato, quello democratico dai comitia e dai tribuni della plebe. Tale commistione dei poteri bene armonizzati consente una stabilità maggiore rispetto ai regimi non misti: i monarchici, nati da uno stato selvaggio, prima si evolvono in regni, poi tendono a degenerare in tirannidi, cui reagiscono gli a[ristoi dando vita ai governi aristocratici appunto, che però declinano nelle oligarchie, il prepotere dei pochi, ai quali reagisce il popolo instaurando le democrazie che dopo qualche tempo decadono nelle oclocrazie dove la folla, abituata a vivere sfruttando gli altri, quando trova un capo audace e intraprendente (si può pensare al Cleone di Tucidide o di Aristofane), instaura il dominio della forza bruta, commette massacri, manda in esilio e spartisce le terre ("poiei' sfagav", fugav", gh'" ajnadasmouv"", VI, 9, 9) finché, ricaduta in uno stato completamente ferino, non trova di nuovo un padrone e un monarca .
Arnaldo Momigliano si domanda “come mai Polibio abbia avuto così grande reputazione fin dal Rinascimento come interprete dello Stato romano e teorico della costituzione mista
La risposta è che quanto Polibio scriveva sulla costituzione mista (corrispondesse o no alle realtà romane) serviva ai bisogni dello Stato moderno. E’ lo Stato assolutistico moderno, con il suo problema di bilancia dei poteri tra i vari organi costituzionali e con il suo altro problema del dove risieda la sovranità, che diede autorità a Polibio. Per di più Polibio combinava le doti di un teorico politico con quelle di un maestro dell’arte militare , e ciò di nuovo fu essenziale per la sua reputazione in un tempo in cui la formazione di ufficiali educati per eserciti professionali diventò una esigenza di prima importanza”[1].
Che cosa c’entra la costituzione mista che ha una componente democratica con “lo Stato assolutistico moderno” ?
Vediamo nel testo di Polibio il limite assegnato da questo autore alla democrazia
: “paraplhsivw~ oujde; dhmokrativan, ejn h|/ pa'n plh'qo~ kuvriovn ejsti poiei'n o[ ti pot j a]n aujto; boulhqh'/ kai; proqh'tai” (VI, 4-6), similmente non è democrazia quella in cui la massa sia padrona di fare tutto ciò che voglia e preferisca; invece, continua lo storiografo, lo è quella presso la quale è tradizionale e abituale venerare gli dèi, onorare i genitori, rispettare gli anziani, obbedire alle leggi; presso tali comunità, quando prevale il parere dei più (o{tan to; toi'~ pleivosi dovxan nika'/), questo bisogna chiamare democrazia.
Il fatto che Polibio più avanti scriva (IX, 23, 8) che ai tempi di Pericle ad Atene gli atti crudeli erano pochi (ojlivga me;n ta; pikrav) mentre prevalevano quelli buoni e santi (polla; de; ta; crhsta; kai; semnav) fa pensare che lo storico considerava se non “vanificata”, certo “contenuta” e limitata da Pericle, la prepotenza del plh'qo~ nel primo periodo della democrazia radicale.
Aristotele nella Politica (1292a) scrive che dove non comandano le leggi non c’è costituzione: o{pou ga;r mh; novmoi a[rcousin, oujk e[sti politeiva.
Nella Costituzione degli Ateniesi (41) Aristotele passa in rassegna 11 regimi succeduti in Atene. Biasima la riforma di Efialte che ridusse i poteri dell’Areopago. Da allora i governi commisero più errori a causa dei demagoghi. Dopo la tirannide dei Trenta, il popolo della restaurata democrazia si è reso padrone assoluto di ogni cosa. La democrazia diventa spesso prepotenza dei non abbienti. Aristofane nelle Vespe mette tale kravto~ del dh`mo~ in veste comica.
Anche Cicerone biasima questo potere eccessivo: “Si vero populus plurimum potest omniaque eius arbitrio reguntur, dicitur illa libertas, est vero licentia” ( de rep., 3, 23), se poi il popolo ha il massimo potere e tutto viene retto secondo il suo arbitrio, quella si chiama libertà, ma è piuttosto licenza.
Si tenga conto che in gran parte della storiografia classica è presente un pregiudizio antipopolare che ne limita l'obiettività. I promotori della lotta di classe sono spesso giudicati con formule moralistiche al servizio di una tendenza conservatrice.
“Lo storico tendeva normalmente ad appoggiare, o almeno a presupporre come validi, quegli aspetti della società intorno ai quali la maggioranza dei Greci e dei Romani in età pagana tendeva ad essere conservatrice: pratiche religiose, vita familiare, proprietà privata”[2].
Un’altra considerazione: a Roma poche famiglie potevano concorrere al potere che in alcune stirpi si tramandavano di generazione in generazione ed era molto difficile per un homo novus ascendere alle più alte cariche
Sentiamo Orwell: “ A ruling group is a ruling group so long as it can nominate its successors”, una classe dirigente continua ad essere tale soltanto fino a quando è in grado di nominare i propri successori”[3].
A proposito del passaggio dalla democrazia all’ oclocrazia, ossia dal potere del popolo a quello della feccia cito Luciano Canfora:"E' un genere di distinzione caratteristico del pensiero antidemocratico nella sua forma più evoluta. Altrimenti vi è il mero rifiuto del regime dei "molti", in quanto di certo "ignari", incapaci di pienamente intendere: è la veduta di Megabizo nel dibattito costituzionale erodoteo, nonché dello pseudo-Senofonte)".
Megabizo è il nobile persiano che vuole l'oligarchia poiché, dice, non c'è nulla di più stupido e insolente di una moltitudine buona a nulla che non ha neppure la capacità di discernimento ("tw'/ de; oujde; ginovskein e[ni", III, 81, 2) siccome non ha imparato da altri né conosce da sé niente di buono.
Un pensiero che troviamo anche nel dramma Un nemico del popolo di Ibsen dove
il dottor Stockmann dice:"La maggioranza non ha mai ragione. Mai, ho detto. Da chi è costituita la maggioranza degli abitanti di un paese? Dalle persone intelligenti, o dagli imbecilli? Saremo tutti d'accordo, credo, nell'affermare che sulla faccia della terra gli imbecilli costituiscono l'enorme maggioranza. Ma non per questo è giusto che gli imbecilli debbano comandare sugli intelligenti!...La maggioranza ha il potere, purtroppo, ma non ha ragione. Io, e pochi altri, abbiamo ragione. Le minoranze hanno ragione...Tutte le verità maggioritarie possono venir paragonate alle conserve dell'anno scorso, a dei prosciutti rancidi[4]".
Ma torniamo a Canfora :"Non a caso l'immagine che, sulla scia delle sue fonti, Polibio propone della forma "non degenerata" di democrazia è in realtà la negazione di quello che nel tardo V secolo a. C. appariva il cardine del regime democratico: il riconoscimento cioè del valore sovrano della volontà popolare (to;n dh'mon pravttein o{ a}n bouvlhtai). "Che il demo possa fare ciò che desidera" è ad esempio, al tempo del processo popolare contro i generali vincitori alle Arginuse, la parola d'ordine con cui vengono liquidate le eccezioni di illegalità contro la procedura adottata (Elleniche , I, 7, 12); ed è appunto la formula che caratterizza, secondo Polibio, la degenerazione della democrazia (VI, 4, 4:"Quando il popolo è padrone di fare quello che vuole"). Alla sovranità popolare ed alla volontà popolare come unica fonte della sovranità e dell'autorità, Polibio oppone-quando tratteggia la "buona" democrazia-la sovranità della legge : è democrazia-osserva- quel regime nel quale, fermi restando l'indiscussa autorità delle leggi e l'impegno a rispettarle, le decisioni vengono prese in base al principio maggioritario (VI, 4, 5), un regime cioè nel quale il prevalere della volontà della maggioranza non pone comunque in discussione, né può intaccare, le leggi esistenti. Vi è insomma "buona" democrazia-secondo Polibio-quando tra volontà popolare e legge (magari preesistente all'affermarsi del regime democratico) prevale la legge"[5].
.
La costituzione romana dunque è la migliore per la collaborazione, il controllo, e la limitazione che i poteri possono esercitare reciprocamente, tuttavia è soggetta al decadimento fisiologico di tutte le altre. Infatti tutti gli esseri sono soggetti alla corruzione e al mutamento ("pa'si toi'" ou\sin uJpovkeitai fqora; kaiv metabolhv", VI, 57, 1) e le costituzioni si corrompono per cause esterne ed interne.
Polibio assisté, tra l'altro alla distruzione di Cartagine, nella primavera del 146, e al pianto del suo amico Scipione Emiliano il vincitore che, citando due versi dell'Iliade [6] con i quali Ettore prevede la caduta di Troia, e riflettendo sul rapido destino delle cose umane, pronunciò il nome della sua patria per la quale temeva.
L’ ajnakuvklwsi" di Polibio (VI, 9, 10), riappare nell’orbis di Tacito [7] , nel "cerchio" di Machiavelli[8] e nell'"eterno ritorno" di Nietzsche[9].
Leopardi lo chiama "circuito" mutuandolo dal circuitus di Cicerone[10]
Per concludere leggiamo alcune parole dello Zibaldone (Del resto s'egli è proprio carattere sì della società primitiva come della più corrotta l'essere ambedue per natura monarchiche di governo, non è questo il solo capo in cui si veda che le cose umane ritornano dopo lungo circuito e dopo diversissimo errore ai loro principii, e giunte (come or pare che siano) al termine di lor carriera, o tanto più quanto a questo termine più s'avvicinano, si trovano di nuovo in gran parte cogli effetti medesimi, e nel medesimo luogo, stato ed essere che nel cominciar d'essa carriera" (3517-3518).
Bologna 24 maggio 2022 ore 9
giovanni ghiselli
p. s.
Statistiche del blog
Sempre1253286
Oggi87
Ieri442
Questo mese8922
Il mese scorso10759
[1] A. Momigliano, La storiografia greca, p. 270.
[2] A. Momigliano, La storiografia greca, p. 61.
[3] G. Orwell, 1984, p. 219.
[4]H. Ibsen, Un nemico del popolo , atto IV. E' un dramma del 1881.
[5]Canfora, op. cit., p. 342.
[6] VI 448-449 dove Ettore dice alla moglie: verrà il giorno in cui andrà distrutta la sacra Ilio (" e[ssetai h'jmar oJvt& a[n pot& ojlwvlh / [[Ilio" iJrh;";) e Priamo e il popolo di Priamo buona lancia.
[7]Annales , III, 55.
[8]Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio , I, 2.
[9]Crepuscolo degli idoli , p. 128. Inoltre : “L’eterno orologio a polvere dell’esistenza viene sempre di nuovo capovolto-e tu con esso, granello di polvere dalla polvere venuto!” (La gaia scienza, n. 341)
[10] De republica (del 51 a. C.) , I, 45.
Nessun commento:
Posta un commento