L’io dei vincitori pindarici è eroico e acquista, poi conferma la sua identità vincendo le gare. L’archetipo di questi eroi è Pelope che non si ritira davanti al rischio, anzi lo considera un test da affrontare per mettere alla prova la propria identità.
Pindaro è un cantore della vita strenua, al punto che considera indegna di essere vissuta l'esistenza ingloriosa e insignificante dei deboli e vili ignari di aretá.
Leggiamo alcuni versi dell’Olimpica I che celebra la vittoria di Ierone tiranno di Siracusa nella gara del cavallo montato durante la settantaseiesima Olimpiade del 476.
Pelope, prima della la gara con il terribile Enomao, che sconfiggeva poi uccideva i pretendenti della figlia Ippodamia, prega Poseidone.
“Andato vicino al mare canuto, solo nella tenebra,
invocava il dio del tridente
dal grave rimbombo; quello gli
apparve vicino al piede.
Allora gli disse:" Se i cari doni di Cipride
rimangono in qualche modo nella tua gratitudine,
avanti, Poseidone, inceppa la lancia di bronzo di Enomao (pevdason e[gco~ Oijnomavou cavlkeon),
e fammi giungere in Elide sul carro
più veloce, e avvicinami alla vittoria.
poiché dopo avere ucciso tredici
pretendenti, procrastina le nozze
della figliola. Il grande pericolo
non prende un uomo imbelle (oJ mevga~ de; kivnduno~ a[nalkin ouj fw'ta lambavnei).
Per chi è necessario morire, perché dovrebbe
smaltire invano una vecchiaia anonima seduto nell'ombra
senza parte di tutte le cose belle? ( ajpavntwn kalw'n a[mmoro~) Ma questa gara giacerà sotto di me: tu dammi propizio l'evento".
Così diceva; né lo toccò con parole
senza effetto. E il dio onorandolo
gli diede un cocchio d'oro e cavalli
infaticabili per le ali (71-88).
Il frontone orientale del maestro di Olimpia raffigura negli agonisti l’attesa del via alla gara che Pelope vincerà.
Nella IV Pitica-dedicata ad Arcesilao IV, re di Cirene vincitore con il carro a Delfi nella trentunesima Pitiade del 462- il poeta tebano racconta la conquista del vello d'oro da parte degli eroi Argonauti nei quali la dea Era attizzava la voglia di non essere lasciati presso la madre a smaltire una vita senza rischio “ ta;n ajkivndunon para; matriv mevnein aijw`na pevssont j” (vv. 186-187).
Il rischio di morire nella gara dei carri viene raccontato nell’Elettra di Sofocle dal pedagogo che inganna Clitennestra descrivendole l’inventata, immaginaria morte di Oreste dovuta all’estremo rischio affrontato Delfikw`n a[qlwn cavrin (682) per vincere le gare delfiche.
Platone scrive: “kalo;ς ga;r oJ kivndunoς” (Fedone, 114d), bello è infatti il rischio. È il rischio di credere nei miti relativi alla sorte delle anime, dato che è chiaro che l’anima è immortale.
I miti sull’aldilà - dice Socrate in questo dialogo - non si addicono a un uomo che abbia senno (ouj prevpei nou`n e[conti ajndriv) ma, siccome è chiaro che l’anima è immortale, mi si addice pensare che le cose relative all’anima vadano così o in maniera simile, con il giudizio dei morti e tutto il resto.
Fedone racconta a Echecrate le ultime ore di Socrate.
Nell’Ifigenia in Tauride di Euripide (414 o 413 a. C.), che quest’anno viene rappresentata dall’INDA nel teatro greco di Siracusa, Oreste propone a Pilade di tornare sulla nave e scappare da quel paese barbaro-l’attuale Crimea dove si praticavano i sacrifici umani-, ma l’amico gli risponde –tou;~ povnou~ ga;r ajgaqoi;-tolmw`si, deiloi; d j eisi;n oude;n oujdamou` (vv. 114-115), di fatto quelli bravi osano affrontare le difficoltà, mentre i vili sono delle nullità e non prendono parte.
Oreste gli dà ragione: tolmhtevon (121), dobbiamo osare. Affrontare il rischio.
E’ quanto dice anche la Medea di Euripide in un monologo nel quale prima vacilla, poi però conferma la sentenza di morte nei confronti dei figli ( tolmhtevon tavd ' , Medea, v. 1051, bisogna osare questo!) per non essere derisa lasciando impuniti i nemici.
Bologna 19 maggio 2021 ore 10, 21
giovanni ghiselli
p. s.
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