mercoledì 25 maggio 2022

XVII L'dentità di una civiltà che muore.


 

Durante la chiacchierata dei liberti, Seleuco esordisce con un'affermazione contraria alla forma di cultus minima che è il lavarsi:"ego-inquit-non cotidie lavor; baliscus enim fullo est, aqua dentes habet, et cor nostrum cotidie liquescit" (42), io, disse, non faccio il bagno tutti i giorni; infatti il bagno è un lavandaio, l'acqua ha i denti, e il nostro cuore si liquefa ogni giorno. Potrebbe essere una posa di origine cinico-socratica[1]: infatti questo liberto procede con qualche velleità filosofica tornando sul tema della vanitas ispirato da un funerale dal quale è appena tornato:" heu, eheu. utres inflati ambulamus. minoris quam muscae sumus, <muscae> tamen aliquam virtutem habent, nos non pluris sumus quam bullae" (42, 4), ahi ahi, giriamo come otri gonfiati. siamo meno delle mosche; le mosche almeno qualche capacità ce l'hanno, noi non siamo più che bolle.

 

La virtus delle mosche sembra anticipare il cavallo geniale che "matura in Ulrich la convinzione di essere un uomo senza qualità".  Il protagonista del romanzo di Musil "Con meravigliosa acutezza vedeva in sé-ad eccezione del saper guadagnare denaro, che non gli occorreva-tutte le capacità e qualità che il suo tempo apprezzava di più, ma aveva perduto la capacità di applicarle; e poiché in fin dei conti, se ormai anche i giocatori di calcio e i cavalli hanno genio, soltanto l'uso che se ne fa può ancora salvarne il carattere particolare, decise di prendersi un anno di vacanza dalla vita per cercare un uso appropriato delle sue capacità"[2].

Anche questo romanzo di Musil dipinge la fine di una civiltà: la finis Austriae

Sentiamo  anche Huysmans:

“L'autore che amava davvero, che gli faceva bandire per sempre dalle sue letture le roboanti tirate di Lucano, era Petronio. Ecco finalmente un acuto osservatore, un fine analista, un pittore meraviglioso (….) Questo romanzo verista, questa fetta di vita romana tagliata nel vivo, che non si preoccupa, checché si dica, né di riformare né di satireggiare i costumi; che fa a meno d'una conclusione e d'una morale; questa storia senza intreccio, dove non succede nulla, che mette in scena le avventure della selvaggina di Sodoma che analizza con imperturbabile acutezza gioie e dolori di codesti amori e di codeste coppie; che senza che l'autore faccia mai capolino, senza che si lasci andare a un solo commento, senza che approvi o maledica gli atti o i pensieri dei suoi personaggi, dipinge in una lingua da orafo i vizi d'una civiltà decrepita, d'un impero che si va sfasciando-conquideva Des Essaintes, il quale nella raffinatezza dello stile, nell'acutezza dell'osservazione, nel fermo piglio con cui la narrazione veniva condotta, intravvedeva singolari parentele, curiose analogie con i pochi romanzi del tempo suo che non gli dispiacevano"[3].

 

La morte nel Satiricon di “una civiltà decrepita” è ovunque nel Satyricon , e se vogliamo scegliere un epigrafe significativa di quest’opera possiamo usare la frase che il poeta Eumolpo recita davanti al cadavere del monoftalmo, arcipirata Lica, morto annegato :"si bene calculum ponas, ubique naufragium est " (115, 17), se fai bene i conti, il naufragio è dappertutto.

 

L’ultima parte del Satyricon si svolge a  Crotone una specie di anti-città dove  si sono pervertiti i sancti mores e annullati i litterarum studia , come spiega un contadino ai tre sopraggiunti- Encolpio, Eumolpo e Gitone che osservano da un colle non lontano l' oppidum impositum arce sublimi (116, 1), posto sopra un' altura.

 Se siete capaci di mentire sistematicamente, dice il vilicus agli errantes, vi arricchirete:"in hac enim urbe non litterarum studia celebrantur, non eloquentia locum habet, non frugalitas sanctique mores laudibus ad fructum perveniunt, sed quoscumque homines in hac urbe videritis, scitote in duas partes esse divisos. nam aut captantur aut captant" (116, 6-7), infatti in questa città non vengono onorati gli studi letterari, l'eloquenza non ha posto, l'onestà e i pii costumi non fruttano elogi, ma tutti gli uomini che vedrete in questa città, sappiate che sono divisi in due categorie: o sono cacciati o danno la caccia.

Al contrario nessuno riconosce i figli "in hac urbe nemo liberos tollit, quia quisquis suos heredes habet, non ad cenas, non ad spectacula admittitur, sed omnibus prohibetur commodis, inter ignominiosos latitat. qui vero nec uxores umquam duxerunt nec proximas necessitudines habent, ad summos honores perveniunt, id est soli militares, soli fortissimi atque etiam innocentes habentur" (116, 7-8), poiché chiunque abbia i suoi eredi non viene invitato a cene, non a spettacoli, ma viene escluso da tutti i vantaggi e vive nascosto tra i malfamati. Quelli poi che non hanno mai preso moglie e non hanno parenti prossimi, raggiungono le cariche più alte, cioè solo loro sono considerati degli strateghi, solo loro fortissimi e irreprensibili. Qui si vede il fallimento della legislazione augustea che cercava di penalizzare i celibi.

Il poeta Eumolpo è un libertino vecchio e incallito; si fa credere ricco e  può invitare  ad pygesiaca sacra, ai sacri riti delle natiche[4], la speciosissima filia affidatagli da una matrona di Crotone, inter primas honesta, di primissimo rango, una  che  da giovane aveva estorto personalmente multas hereditates, ma poi, divenuta anus et floris extincti, vecchia e appassita, portava i figli a compiacere i vecchi senza eredi et per hanc successionem artem suam perseverabat extendere, e attraverso questa successione continuava a sviluppare il suo mestiere (Satyricon 140).

 

L’ultima parte che ci è giunta di questo romanzo o satira menippea che sia, verte ancora sulla morte

 Nell'ultimo capitolo, tra gli excerpta conclusivi c'è il testamento di Eumolpo:"omnes qui in testamento meo legata habent praeter libertos meos hac condicione percipient quae dedi, si corpus meum in partes conciderint et astante populo comederint" (141, 2), tutti quelli che nel mio testamento hanno dei lasciti , ad eccezione dei miei liberti, riceveranno i beni che ho lasciato a questa condizione, a patto cioè che taglino a pezzi il mio corpo e lo mangino in presenza del popolo.

E poco dopo:"his admoneo amicos meos ne recusent quae iubeo, sed quibus animis devorarint spiritum meum, eisdem etiam corpus consumant" (141, 3), con questo raccomando ai miei amici di non rifiutare le mie volontà ma che con la stessa disposizione con cui mi hanno divorato l'anima mi consumino il corpo.

L'ultimo frammento ricorda esempi di cannibalismo nella storia, forse per persuadere Gorgia, l'heredipeta  con il nome da filosofo esitante, a inghiottire  la carne del cadavere del vecchio Eumolpo:"quod si exemplis quoque vis probari consilium, Saguntini obsessi ab Hannibale humanas edere carnes nec hereditatem expectabant. Petelini idem fecerunt in ultima fame, nec quicquam aliud in hac epulatione captabant nisi tantum ut esurirent. cum esset Numantia a Scipione capta, inventae sunt matres quae liberorum suorum tenerent semesa in sinu corpora" (141, 9-11), che se tu vuoi che il mio progetto sia avvalorato da esempi, ti ricordo che i Saguntini assediati da Annibale mangiavano carne umana e nemmeno si aspettavano un'eredità. Lo stesso fecero i Petelini ridotti alla fame estrema, e in questo banchetto non andavano a caccia di altro che di non morire di fame. Quando Numanzia fu presa da Scipione , si trovarono madri che tenevano in seno corpi mezzi rosicchiati dei propri figlioli.

Questo esempio tripartito ci ricorda che la storia umana è un mattatoio dove si macellano esseri umani di ogni età.

 

Bologna 25 maggio 2022 ore 9, 43

giovanni ghiselli

p. s

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[1] Aristofane fa dire a Strepsiade che nessuno degli uomini del pensatoio di Socrate per economia si è mai fatto  tagliare i capelli o si è unto il corpo o è andato nel bagno a lavarsi:"oujd& eij" balanei'on h'jlqe lousovmeno"" (Nuvole[1] , v. 837). il Coro degli Uccelli [1] più specificamente qualifica Socrate come a[louto" (v. 1553), non lavato.

[2] R. Musil, L'uomo senza qualità , pp. 42-43.

[3] J.K. Huysmans, Controcorrente, p. 43 e sgg.

[4] Cfr l'Ulisse di Joyce:" Ho reso omaggio su quell'altare vivente dove la schiena terminando cambia nome " (p. 737).

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