venerdì 20 maggio 2022

Il problema dell’identità nei classici. 6. Sofocle


I protagonisti delle tragedie di Sofocle sacrificano anche la vita per trovare e poi conservare l’ identità, ciascuno la propria.
Partiamo da Edipo.
Bernard Knox afferma che il poeta di Colono "dimentica l'adattamento eschileo dello spirito eroico alle condizioni della polis, e fa ritorno ad Achille che, irriconciliabile, siede corrucciato nella sua tenda. Nei suoi eroi che affermano la forza della loro natura individuale contro i loro simili, la loro polis, e perfino i loro dei, egli ricrea (...) la solitudine, il terrore e la bellezza del mondo arcaico"[1].
Sofocle è da un lato poeta arcaicizzante e omerida siccome ripropone uomini disposti ad affrontare l'estrema rovina pur di non cedere alla pressione della norma e di salvare la propria identità minacciata; dall'altro offre  spunti e suggerimenti agli autori dei secoli successivi.
Come Edipo trova la sua dimensione positiva nella passività di Colono, dopo avere fatto soffrire e avere sofferto assai nella fase dell'attività sconsiderata, così Giovanni Drogo in Il deserto dei Tartari di Buzzati scopre"l'ultima sua porzione di stelle "(p.250) e sorride nella stanza di una locanda ignota, completamente solo, mangiato dal male,  accettando la più eroica delle morti, dopo avere sperato invano, per decenni, di battersi"sulla sommità delle mura, fra rombi e grida esaltanti, sotto un azzurro cielo di primavera". Invece il suo destino si compie al lume di una candela, dove"non si combatte per tornare coronati di fiori, in un mattino di sole, fra i sorrisi di giovani donne. Non c'è nessuno che guardi, nessuno che gli dirà bravo".
Del resto gli eroi della passività nella letteratura moderna sono tanti, da Oblomov  di Gončarov, a Zeno  di Svevo, per dire solo i più noti, e il prototipo può essere considerato l'ultimo Edipo del quale Nietzsche  scrive:
" nell’Edipo a Colono incontriamo un soffio di superiore serenità: contrapposta al vecchio che è oppresso da un eccesso di miseria ed è abbandonato soltanto come sofferente a tutto ciò che lo colpisce , sta la serenità ultraterrena che si irradia dalla sfera divina e ci accenna come l’eroe possa raggiungere con il suo comportamento puramente passivo, la sua più alta attività, che si estende molto al di là della sua vita, mentre tutti i suoi sforzi consapevoli nella vita precedente l’avevano condotto solo alla passività” (La nascita della tragedia, capitolo 9).
La soluzione positiva dunque si trova nell'ultimo dramma, quando il cieco comprenderà di avere agito senza l'uso completo della coscienza (cfr. Edipo a Colono, vv.266-267:" ejpei; tav g j  e[rga mou-peponqovt j ejsti; ma'llon  h] dedrakovta", le mie azioni piuttosto che compierle io le soffersi").  Allora la figlia Ismene gli dice:
 “gli dei che ti avevano abbattuto, ora ri rimettono in piedi” ( nu`n ga;r qeoiv s j ojrqou`si, provsqe d j w[llusanv.394)
Il lunatic king Shakespeare dirà parole simili a quelle di Edipo :I am a man/more sinned against than sinning” (King Lear, III, 2), io sono un uomo contro il quale si è peccato , più che un peccatore.
Nella precedente tragedia Edipo re, il figlio di Laio non si è lasciato fermare da nessuno durante la ricerca frenetica della propria nascita e della propria identità. Non poteva diventare passivo prima di avere scoperto la propria storia e con la sua vera identità.
In questa ricerca dell’identità in questo già pindarico “diventa quello che sei (gevnoio oi|o~ ejssiv", Pitica II  v. 72),  in tale amor fati possono ritrovarsi molti uomini che non si adattano a seguire i gusti imposti al gregge.
 
Bernard Knox segnala un’analogia tra il carattere di Edipo e quello degli Ateniesi come vengono presentati da Tucidide: “Il magnifico vigore di Edipo e la sua fede nell’azione sono spiccate caratteristiche ateniesi (…) Pericle tributa un caldo elogio a quel genere di attività rapida e risoluta che è tipica di Edipo[2]
Quindi Knox cita le parole conclusive dell’ultimo discorso politico di Pericle pronunciato nell’estate del 430, la seconda della guerra del Peloponneso. Dice dunque il grande oratore al suo popolo tormentato dalla peste e dalla seconda devastazione dell’attica guidata dal re spartano Archidamo: “Non mandate ambasciatori ai Lacedemoni, e non mostratevi prostrati dalle sciagure presenti, poiché quelli che durante le congiunture avverse pro;~ ta;~ sumforav~- si affliggono al minimo nello spirito-gnwvmh/ me;n h[kista lupou`mtai- mentre nell’azione tengono duro al massimo - e[rgw/ de; malvista ajntevcousin-, questi sono i più forti, sia tra le città che tra i privati cittadini-ou|toi kai; povlewn kai; ijdiwtw`n kravtistoiv eijsin (II, 64, 6).
 
Nell'esodo dell’Edipo re (vv.1221-1530) il secondo messo racconta il suicidio di Giocasta e l'acciecamento di Edipo eJauto;n  timwrouvmeno".
Quindi appare il re sconciato che attribuisce ad Apollo la causa delle sue sofferenze, ma rivendica a sé il coraggio  di essersele inflitte con le proprie mani. Nessun altro mortale avrebbe avuto la forza di sopportare mali tanto grandi. Poi chiede a Creonte che lo faccia tornare sulla sua culla anomala, il Cicerone, e inoltre lo prega perché si prenda cura delle figlie, Antigone e Ismene, per le quali soltanto si accora, trascurando i maschi,  Eteocle e Polinice,  e manifestando ancora un legame di simpatia esclusiva con il mondo femminile, di avversione  con quello maschile. Creonte gli fa toccare per l'ultima volta le bambine, poi gliele toglie e lo congeda.
 
Leggiamo alcuni versi attribuiti a Edipo
“Apollo, era Apollo, o amici
colui che portò a compimento queste cattive cattive mie queste mie sofferenze
Però di sua mano nessuno mi colpì
tranne me infelice.
Perché infatti bisognava che vedessi io
al quale, mentre avevo la vista, nulla era piacevole vedere?" (Edipo re, 1329-1335)
E più avanti:
“E io, dopo avere rivelato tale macchia mia
potevo guardare questi con occhi diritti?
No di certo; anzi, se ci fosse  per giunta una chiusura
della fonte dell'udito tra le orecchie, non mi sarei trattenuto
dallo sbarrare il mio misero corpo
per essere cieco e non udire nulla” (1384-1389)
Edipo ha fatto quanto credeva e sentiva di dovere a se stesso e non rinnega niente. Ha fatto quanto doveva fare per sapere chi era. Quando l’ha saputo, ha punito se stesso e può purificarsi, addirittura andare a santificarsi a Colono. Dalla sua tomba emaneranno influssi benefici per gli Ateniesi
Come il padre suo è Antigone. La mite sorella Ismene cerca di dissuaderla della ribellione nei confronti di Creonte cui Antigone   intende disobbedire dando al fratello Polinice la sepoltura vietata da un decreto del tiranno. Ismene le dice che loro due sono donne e non possono lottare contro degli uomini-pro;~ andra~ (62); allora Antigone risponde che sarà contenta di giacere con il fratello morto- o{sia panourghvsas j (74)  - dopo avere compiuto una trasgressione santa. Ismene quindi obietta: “hai il cuore caldo per dei cadaveri gelati” (88) e Antigone ribatte “ajll j oi\d j ajrevskous j oi|" mavlisq  j aJdei'n me crhv"(v. 89), ma so di piacere a quelli cui prima di tutti è necessario che  vada a genio. Sofocle insegna il coraggio e la fierezza della propria originalità.
 Sono parole di provocazione  e di ostinazione eroica che possiamo trovare anche nell’ultimo discorso di Pericle il quale ribadisce davanti al suo popolo la propria natura nobile, di cittadino amante della povli" e superiore al denaro:"filovpoliv" te kai; crhmavtwn kreivsswn"(II 60, 5), un' identità che non cambia né si lascia intimorire:"kai; ejgw; me;n oJ aujtov" eijmi kai; oujk ejxivstamai: uJmei'" de; metabavllete"(II, 61, 2) io sono lo stesso e non muto; voi invece cambiate.
Un simile  rapporto tra le sorelle Elettra e Crisotemi si trova nella tragedia di Sofocle Elettra.
La colpa di Edipo,  secondo Sofocle, è stata quella della presunzione di poter capire tutto e risolvere ogni difficoltà con la propria intelligenza
Uno dei centri ideologici dell’Edipo re è costituito dai versi 396-398:"arrivato io ejgw; molwvn,/ Edipo, che non sapevo nulla, la feci cessare e[pausav nin/ azzecandoci con l'intelligenza e senza avere imparato nulla dagli uccelli gnwvmh/ kurhvsa" oujd j ajp j oijwnw'n maqwvn -".
Questa affermazione, per Sofocle, poeta tradizionalista e pio, è u{bri", dismisura, prepotenza, cecità intellettuale e morale che fa crescere la mala pianta del tiranno (v.873), il quale è perciò destinato a precipitare nella necessità scoscesa (v.877) del castigo e della espiazione. Nella caduta il tiranno si azzoppa e non può più avvalersi di valido piede- ouj podi; crhsivmw/-crh`tai (878-879). Edipo è zoppo e la zoppia è più di una volta attribuita alla tirannide.
La bestemmia contro il numinoso che, nel poeta di Colono, come in Erodoto, aleggia sulla terra assumendo varie forme, viene ribadita più avanti da Edipo, in complicità scellerata con la regina Giocasta, al grido empio della quale:" O vaticini degli dei, dove siete?- w\ qew'n manteuvmata,-i{n j ejstev" 946-947) , il re fa eco con questa tirata blasfema:" Ahi, perché dunque, o donna, uno dovrebbe osservare/ il fatidico altare di Delfi o gli uccelli/ che schiamazzano in alto? (...) Gli oracoli che c'erano, li ha presi/ Polibo che giace presso Ade, ed essi non valgono nulla"(vv.964- 966 e 971-972).
 
Edipo e Giocasta dunque sono rappresentanti di quel pensiero laico-sofistico cui Sofocle si oppone con tutta la sua produzione poetica, e più che mai con questo dramma, dove il coro, portavoce dell'autore, durante il secondo stasimo, domanda:"Se infatti tali azioni sono onorate eij ga;r aij toiaivde prevxei" tivmiai,/ perché devo eseguire la danza sacra? tiv dei' me coreuvein; "(vv.895-896). Se gli oracoli vanno in malora e Apollo è dimenticato, tutti gli dei tramontano, vanno in malora ( e[rrei de; ta; qei'a v.910); allora la stessa rappresentazione tragica, che fa parte della liturgia religiosa, perde ogni significato e diviene assurda.
Il re di Tebe non ha compreso quale misera cosa sia la sua intelligenza cui rivendica in esclusiva la vittoria sulla Sfinge (vv.397-398). Pecca di u{bri" come Aiace  che nella  sua tragedia (Aiace vv.768-769) aveva espresso l'arrogante certezza di conquistare la gloria senza l'aiuto degli dei.
 
Con tali affermazioni questi personaggi manifestano tutta la loro colpevolezza, e la critica che attribuisce a Sofocle il compianto per il dolore degli innocenti presi di mira da dèi crudeli, non comprende Sofocle e non se ne intende.
Edipo a Colono capisce il suo errore: da cieco ha imparato ad ascoltare le parole degli uomini e segni del cielo e, ascoltando ha  pure veduto, anche senza occhi: fwnh'/ ga;r oJrw ” (v. 139), alla voce infatti vedo.
Re Lear di Shakespeare suggerisce di vedere dalla voce, quando dice al cieco Gloster:"A man may see how this world goes, with no eyes. Look with thine ears" (King Lear, IV, 6), un uomo può vedere come va il mondo anche senza occhi. Guarda con gli orecchi.
 
Aiace viene punito da Atene con la pazzia che lo rende ridicolo e gli fa perdere la sua identità di eroe. Allora diventa anche lui punitore di se stesso e si uccide dopo avere detto a Tecmessa: “ ajll j h] kalw'" zh'n h] kalw'" teqnhkevnai-- to;n eujgenh' crhv" ma il nobile deve o vivere con stile, o con stile morire ( Aiace, vv.479-480)
 
Similmente Antigone dice a Ismene: ma lascia che io e la pazzia che spira da me/soffriamo questa prova tremenda: io non soffrirò/nulla di così grave da non morire nobilmente"peivsomai ga;r ouj-tosou`ton oujden w{ste mh; ouj kalw`~ qanei`n ( Antigone, vv. 95-97).
 
L’identità eroica  non può vivere fuori dalla bellezza e dalla nobiltà.
Lo dice anche Polissena quando affronta la morte nell’Ecuba di Euripide: 
La principessa troiana antepone una morte dignitosa a una vita senza onore:"to; ga;r zh'n mh; kalw'~ mevga~ povno~, ( v. 378),  vivere senza bellezza è un grande tormento".
La giustificazione estetica della vita umana,  il culto della bellezza, è un'altra delle ragioni per cui i Greci sono nostri padri spirituali.
Con questo passiamo a Euripide
Bologna 20 maggio 2021 ore 18, 43
 
giovanni ghiselli
p. s
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[1] L'eroe sofocleo in La tragedia greca, guida storica e critica, a cura di C. R. Beye, pag.85
[2] Bernard M. Knox L’eroe sofocleo  in La tragedia greca. Guida storica e critica a cura di Charles R. Beye; Laterza, Roma-Bari, 1974, pagina253.
 

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