sabato 21 maggio 2022

Il problema dell’identità nei classici. 7. L’identità nella solitudine e nella moltitudine

Il protagonista eponimo della tragedia Filottete (409) di Sofocle  è un uomo che, abbandonato dai compagni d’arme nell’isola deserta di Lemno soffre la solitudine.
 
L’uomo  abbandonato si lamenta, e vedendo sopraggiungere dei Greci chiede compassione per sé: “ a[ndra duvsthnon, movnon,-ejrh'mon w|de ka[filon" ( vv. 227-228), uomo infelice, solo, abbandonato, così e senza amici.
Questo lamento  ritorna più volte nelle descrizioni pietose Filotteta fa di sé:"mh; livph/" m j ou[tw movnon,-ejrh'mon" (vv. 470-471), non lasciarmi così solo, abbandonato, dice a Odisseo; e, poco più avanti, lo prega:"ajlla; mhv m j ajfh'/"-ejrh'mon ou{tw cwri;" ajnqrwvpwn stivbou" (vv. 486-487), non lasciarmi nella desolazione così escluso da ogni traccia di uomini. 
Per l'uomo greco che viveva nella povli"  la solitudine è una condizione innaturale :"benché si muovesse liberamente, l' individuo restava nell'ambito delle determinazioni sostanziali, nello stato, nella famiglia, nel fato "[1].
La solitudine di Filottete dunque è  tipicamemte penosa , come ha notato bene Kierkegaard[2].
 
La Medea di Euripide vede la parte più notevole e dolorosa della sua miseria nella solitudine. Se ne lamenta parlando con le donne corinzie del Coro:" Però non proprio lo stesso discorso va bene per te e per me;/tu hai questa  tua città e la casa paterna/ e  un vantaggio nella vita e compagnia di amici,/io, poiché sono isolata[3] e senza città[4], devo subire oltraggi/dall'uomo, dopo essere stata rapita da una terra barbara/senza avere la madre, né un fratello, né un congiunto/ per trovare un ancoraggio fuori da questa sventura" (Euripide, Medea, vv. 252-258).
 
Sentiamo anche l’Antigone  di Sofocle:
 "Guardate me, o cittadini della terra patria,/mentre percorro l'ultima/via e miro/ l'ultima luce del sole ,/ e non ce ne sarà mai un'altra, ma Ade/ che tutto addormenta mi spinge viva/alla sponda/di Acheronte, esclusa/dalle nozze, né alcun canto/nuziale mai mi festeggiò,/ma ad Acheronte andrò sposa- ajll j
j Acerovnti numfeuvsw-" (Antigone, vv. 806-816) .-
Per i personaggi della tragedia del V secolo, scritte in tempo di democrazia, la solitudine dunque è un male
 
 L'abitudine e il desiderio di stare soli del resto sono già condannati da Omero come disumani nella figura mostruosa del Ciclope[5] e da Menandro[6] nel Duvskolo" Cnemone[7], uomo disumano assai (Knevmwn, ajpavnqrwpov" ti" a[nqrwpo" sfovdra", v. 6).  
Più avanti però, con la degenerazione brutale dei rapporti umani, con la trasformazione delle persone in turba , folla, diventerà non solo dignitoso ma necessario rimanere soli. 
Seneca, tornato dal Circo dove ha assistito a mera homicidia , omicidi veri e propri, scrive:" avarior redeo, ambitiosior, luxuriosior? immo vero crudelior et inhumanior, quia inter homines fui "(Ep. 7, 3), torno a casa più avido, ambizioso, amante del lusso? anzi più crudele e più disumano proprio perché sono stato in mezzo agli uomini. Il consiglio allora è:"recede in te ipse quantum potes ", rientra in te stesso quanto puoi (7, 8).
La posizione si radicalizza nell'incipit di  un'altra lettera: “ Seneca Lucilio suo salutem. Sic est, non muto sententiam: fuge multitudinem, fuge paucitatem, fuge etiam unum” (Ep. 10, 1), Seneca saluta il suo Lucilio. E' così, non cambio parere, evita la folla, evita i pochi, evita anche uno solo.
 
Sentiamo Nietzsche: “C’è da dir male anche di chi soffre per la solitudine-io ho sempre e soltanto sofferto per la moltitudine”[8].
Quindi: “ Ogni uomo eletto mira istintivamente a trovarsi una sua propria rocca, una sua intimità, dove potersi ritrovare libero dalla massa, dai molti, dai più, dove gli sia  sentito dimenticae la regola”uomo”, costituendone egli l’eccezione (…) ogni compagnia è cattiva, ad eccezione di quella con i propri simili”[9].
“Là dove la solitudine finisce, comincia il mercato; e dove il mercato comincia, là comincia anche il fracasso dei grandi commedianti e il ronzio di mosche velenose”[10].
 
 Sentiamo anche l’esteta decadente Des Esseintes: “Non meno d’un monaco, sentiva un’immensa stanchezza, il bisogno di raccogliersi, il desiderio di non aver più nulla in comune col prossimo; composto ai suoi occhi di profittatori e di imbecilli”[11].
 
 
 C. Pavese scrive :"Maturità è l'isolamento che basta a se stesso" (Il mestiere di vivere , 8 dicembre). E più avanti (15 ottobre, 1940):"Ci sono servi e padroni, non ci sono uguali. La sola regola eroica: essere soli soli soli". E infine (25 aprile 1946):"Ogni sera, finito l'ufficio, finita l'osteria, andate le compagnie-torna la feroce gioia, il refrigerio di essere solo. E' l'unico vero bene quotidiano".  :"Maturità è l'isolamento che basta a se stesso"[12].  Infatti: “Si cessa di essere giovani quando si distingue tra sé e gli altri, quando cioè non si ha più bisogno della loro compagnia”[13].
E più avanti (15 ottobre, 1940):"Ci sono servi e padroni, non ci sono uguali. La sola regola eroica: essere soli soli soli". Infine:"Ogni sera, finito l'ufficio, finita l'osteria, andate le compagnie-torna la feroce gioia, il refrigerio di essere solo. E' l'unico vero bene quotidiano" (25 aprile 1946).
E' pur vero che questo nostro autore si uccise il 18 agosto del 1950. 
 
 
La solitudine è una condizione necessaria, strutturale per l'artista del Novecento il quale tra l'altro ha forse anche bisogno di un  punto di vista esterno da cui "rappresentare l'umano senza prendervi parte",  come Tonio Kröger  [14] di Thomas Mann:" E' necessario essere qualcosa di extraumano, d'inumano, è necessario trovarsi, rispetto all'umano, in una situazione stranamente lontana e neutrale, per essere in grado e anzi solo per sentirsi tentati di farne oggetto di rappresentazione, di giuoco, per raffigurarlo con gusto e con efficacia"[15].
 
Bologna 21 maggio 2022 ore 9, 40
giovanni ghiselli
p. s.
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[1]S. Kierkegaard, Enten-Eller , Tomo Secondo, p. 24 e p. 30.
[2] "La riflessione di Filottete non si sprofonda in se stessa , ed è tipicamente greco che egli si dolga che nessuno è a conoscenza del suo dolore" (Il riflesso del tragico antico nel tragico moderno, in Enten Eller, tomo II, pp.33-34).
[3] e[rhmo" (v. 255): l' aggettivo a due uscite torna, sempre riferito a Medea, al v. 513 (fivlwn e[rhmo", su;n tevknoi" movnh movnoi" , priva di amici, sola con i figli soli)  e al v. 604.  
[4] a[poli"  (v. 255): per un Greco, o per uno che viva in mezzo ai Greci, essere apolide è una tragedia. Sofocle nell'Antigone coniuga la mancanza di città con la carenza di bellezza:"e le leggi della terra unendo/e degli dei la giurata giustizia/è grande nella città (uJyivpoli"); bandito dalla città (a[poli" ) è quello con il quale /coesiste la negazione del bello morale (to; mh; kalo;n) per la sfrontatezza./Non mi stia accanto sul focolare/né abbia lo stesso pensiero/chi compie queste azioni" (vv. 368- 375).-
[5] I Ciclopi non hanno assemblee per consigliarsi né leggi ma vivono sulle cime di alti monti in caverne profonde, ognuno governa i figli e le donne e non si curano l'uno dell'altro (oujd j ajllhvlwn ajlevgousi, Odissea, IX, 112-115).
[6] 342-291 a. C.
[7] Il quale, come vede Sostrato davanti alla porta di casa sua, invoca il suo bene supremo:
"non è possibile ottenere la solitudine da nessuna parte!"( ejrhmiva" oujk e[stin oujdamou' tucei'n, v.169). Sembra un'anticipazione del monachesimo.
[8] Ecce homo, Perché sono così accorto, 10.
[9] Di là dal bene e dal male, Lo spirito libero, 26
[10] F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra, I discorsi di Zathustra, Delle mosche del mercato
[11] J. K. Huysmans, Controcorrente (del 1884) p. 77.
[12]Il mestiere di vivere , 8 dicembre 1938.
[13]  Il mestiere di vivere , 24 novembre 1938
[14] Del 1903.

[15]Tonio Kröger , p.237.

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