Adolfo De Carolis, Edipo re |
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Sommario
Il Corifèo respinge tutte le accuse di Edipo e lamenta che i Tebani non siano nemmeno stati aiutati da Febo nella ricerca del colpevole. Il figlio di Laio ribatte che gli dei non possono essere costretti a fare quanto non vogliono. Quindi il portavoce del coro consiglia di mandare a chiamare Tiresia, e il re risponde che l'ha già fatto due volte. Il corifèo accenna a notizie antiche secondo le quali Laio venne ucciso da alcuni viandanti. Edipo le aveva sentite, ma afferma la supremazia della vista come fonte informativa. Il coro ribadisce la forza della parola, poi annuncia l'ingresso di Tiresia manifestando piena fiducia nel profeta.
Traduzione 276-281
Coro
Come mi hai preso con la maledizione, così, signore, parlerò:
non l'ho ucciso io infatti, né posso indicarti l'uccisore.
Era compito di Febo che ha mandato l'ordine della ricerca
dire questo: chi è stato a compiere il misfatto allora.
Edipo
Hai detto bene; ma costringere gli dei 280
a quello che non vogliono, nessun uomo potrebbe.
276-ajrai'on=soggetto all'ajrav.
Il coro accetta la sfida: io parlo sotto la maledizione che non temo in quanto non mi riguarda. Ai vv.644-645 Creonte invoca la maledizione su di sé, tanto è sicuro di essere incolpevole delle accuse che Edipo gli ha lanciato contro. Nell'Antigone invece, la protagonista si sente investita, quasi impregnata dell'ajrav ereditata dai genitori con i quali scende a coabitare"ajrai'o", a[gamo""(v.867), maledetta e senza nozze.
Anche nell'Oreste di Euripide la maledizione è un'eredità orribile: Elettra la fa risalire all'assassinio di Mirsilo gettato nelle onde da Pelope:" o{qen dovmoisi toi'" ejmoi'"/h\lq j ajra; poluvstono"", donde sulla mia famiglia cadde la maledizione dal lungo pianto (995-996).
I Pelopidi e i Labdacidi sono le due stirpi maledette presenti in molte tragedie.
Orazio fa discendere su tutto il popolo romano la maledizione dell’assassinio di Remo da parte del fratello Romolo: il poeta di Venosa prevede cupamente che saranno gli stessi Romani a distruggere la loro città che i tanti nemici esterni non riuscirono a vincere: “impia perdemus devoti sanguinis aetas "(Epodo 16, v. 9), la distruggeremo noi, generazione empia nata da un sangue maledetto
Questo epodo fu composto probabilmente quando Sesto Pompeo nel 38 a. C. riprese la sua guerra sul mare, minacciando di affamare l'Italia.
Credo che sul parlamento italiano incomba ancora la maledizione di Aldo Moro che deputati e senatori lasciarono uccidere, quasi unanimemente, nel maggio del 1978
277ga;r=spiega perché è disposto a parlare dopo la maledizione.-278dei'xai: con il verbo deivknumi(all'infinito dell'aoristo) il coro (e il poeta) manifestano il desiderio di una indicazione precisa, e, più avanti, una volontà educativa. Nel secondo stasimo i coreuti canteranno :"Non mi recherò più all'intangibile/ ombelico della terra a pregare/ né al tempio di Abe, /nè ad Olimpia,/ se queste parole indicate a dito (ceirovdeikta) /non andranno bene a tutti i mortali(vv.897-902).
“In latino la radice deik- (attestata nella forma arcaica deico>dico) si chiude in dic-”[1] . Da questa radice dico, dicto, dictator, iudex, digitus. Imparentato con deivknumi è anche l’inlese to teach, “insegnare”. Teach allied to Gk. deivk-numi-( Walter Skeat, Op. cit., voce Teach). “Delle tre parole più usate in questi due orribili anni, pandemia è greca, virus e vaccine sono latine” (Ivano Dionigi, Benedetta parola, La rivincita del tempo). Pandemia è chiaramente una parola greca. Ma ce ne sono tantissime altre meno dichiaratamente greche nelle lingue che paliamo. Noi l’italiano, soprattutto e l’inglese. Ebbene, se perdiamo la conoscenza del greco e del latino, mutiliamo la nostra coscienza linguistica, la stessa identità nostra: “la mancanza o la mutilazione della parola negano l’identità, confinano alla solitudine e riducono allo stato animale” (I. Dionigi, Opera citata).
“ Il composto lat. iu-dex implica il fatto di mostrare con autorità. Se questo non è il senso costante del gr. deíknumi, il fatto è dovuto a un indebolimento della radice *deik-in greco. Tutta la storia del lat. dicere mette in luce un meccanismo di autorità, solo il giudice può dicere ius (…) Ecco l’ultimo tratto del significato di *deik-: mostrare quello che deve essere, una prescrizione che interviene sotto la forma, per esempio, di una sentenza giudiziaria”[2].
278 zhvthma=oggetto di pevmyanto".
278-279-h\n Foivbou=genitivo di pertinenza. In queste parole c'è l'affidarsi quasi provocatorio alla responsabilità del dio che non può rimanere latitante o contumace in un processo nel quale egli è giudice supremo. Nel secondo Stasimo, alla divinità viene chiesta esplicitamente la confutazione esemplare dei rei, poiché se essa non sopraggiunge con piena evidenza, l'opera stessa del poeta e il teatro vengono vanificati:"Se infatti tali azioni sono onorate,/ perché devo eseguire la danza sacra?"(vv.895-896).
279 -ei[rgastai: il perfetto (di ejrgavzomai) significa la presenza deleteria del misfatto. L'interrogativa indiretta è avviata da tovde prolettico.
280-281:Edipo prima consente con il coro, poi risponde in maniera due volte negativa: alle cose che(a}n=a{ a[n) non vogliono (nessuno(oujd j a[ ei|"=oujdei;" a[n duvnaito=ottativo potenziale) potrebbe costringere (ajnagkavzw costruito con il doppio accusativo) gli dei.
Troviamo forse un'eco di queste parole nel virgiliano"desine fata deum flecti sperare precando "(Eneide, VI, 376). Il contesto però è del tutto diverso: nell'Eneide parla la profetessa, svelando il volere dei numi; qui è la paura della colpevolezza che fa auspicare al re il silenzio del dio. D'altra parte, se un reo fosse rintracciabile, Edipo stesso vorrebbe trovarlo con le sue capacità umane.
Bologna 15 maggio 2022 ore 11
giovanni ghiselli continua
[1] G. Ugolini, Lexis, p. 166.
[2] E. Benveniste, Il vocabolario delle istituzioni
indoeuropee, p. 364.
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