mercoledì 9 ottobre 2024

Ifigenia CLXXVII. La Malga Peniola con Flavio “lo strullo”, idiota geniale.


 

Il tre marzo sciai di mattina; nel pomeriggio, per variare le

interminabili ore di solitudine, camminavo verso la Malga Panna.

Quando ci fui arrivato, continuai per il sentiero sdrucciolevole che

porta alla Malga Peniola. Era una giornata calda, quasi afosa: il

cielo appariva gonfio di nuvole giallognole e acquose; la neve,

corrosa da un vento dolciastro, si liquefaceva.

Procedevo guardando gli alberi madidi e la terra fangosa: cercavo

visioni belle e confortanti: invano. A un tratto vidi il cadavere di una scarpa. Nell'anima  gocciava l'angoscia. L'ultima telefonata non era valsa ad ammazzare i tarli del mio cervello: continuavo a pensare che di Ifigenia non

potevo fidarmi. Tuttavia noi due dipendevamo l’uno dall’altro in maniera scabrosa e oscura. Nessun ragionamento potente o sottile, diritto o

contorto, valeva a correggere un sentimento così negativo e

profondo. Un sentimento ragionato a lungo: razionale e reale secondo il mio storicismo amoroso e angoscioso.

Sbucato dal bosco in una radura, vidi la Malga e la piccola chiesa

contigua. La prima volta, forse nel '52, mi ci avevano portato le zie. Mi

avvicinai alla cappella. L'uscio era chiavato di sotto, ma l'interno si poteva

vedere da una finestrina quadrata, chiusa soltanto da due sbarre di

ferro arrugginite e disposte a formare una croce: dentro il


minuscolo tempio, di fronte alla rugginosa inferriata, c'era

un'immagine della deipara vergine.

"La vergine madre – pensai –, sempre la storia dell'imene. Mentre

siamo bambini indifesi e suggestionabili, i preti ci impongono un tale orrore contro natura. La madre perfetta fa i figli senza

l'amore. Se li prendi sul serio, quelli ti inibiscono la gioia amorosa

o te la rovinano con il rimorso. Vogliono dire che mettere al

mondo un figliolo secondo natura, con piacere e amore, è

debolezza e peccato. In parrocchia e in famiglia mi avevano inculcato che è la cosa più sporca del mondo. Per offuscare il mio istino, la mia intelligenza e sottomettermi.

 Hanno fatto di tutto perché odiassi l'amore, me stesso e l’umanità  calunniando, insozzando  ogni nascita e generando  confusione dentro di me".

A un tratto, dalla malga uscì un giovane uomo di pelle e capelli rossicci;

mi osservava e sorrideva come si fa con un conoscente, poi

mi venne vicino e domandò se avessi bisogno di qualche cosa.

"No, guardo soltanto".

Continuava a sorridermi. Mi accorsi che lo conoscevo: riconobbi una simpatica immagine della mia infanzia.

Venticinque anni prima era un bambino un pò ritardato.

"Ciao Flavio – gli feci –, come stai? ti ricordi di me?"

"No, chi sei?"

"Sono Giannetto di Pesaro; negli anni Cinquanta venivo a Moena in

agosto; abitavo in via Damiano Chiesa 11. Facevamo le corse intorno

alla fontana del Turco. Eravamo piccoli allora. Che strano

rivederci qui da adulti!"

Continuava a sorridere. Teneva le mani in tasca. La stessa

espressione, lo stesso atteggiamento di allora. Probabilmente

anche io: in quel tempo ero un bambino triste; sembravo

sempre in procinto di piangere, dicevano alle due zie.

"Ti posso offrire un bicchiere di vino, Giannetto?"

"Sì grazie, volentieri." Entrammo nella malga deserta e ci

sedemmo. Mi mostrò una bottiglia: Terodelgo Rotaliano , vino del

concilio di Trento. Pensai alla carneficina dei miei sensi e sentimenti

amorosi, ai roghi degli autadafè, al Grande Inquisitore dei Fratelli Karamazov,  ma dissi che andava bene, che mi piaceva molto. Flavio riempì

due bicchieri.

"Raccontami qualcosa di te e degli altri che giocavano con noi. Tu che hai fatto in questi anni?"

Balbettando rispose che aveva servito come facchino in un paio di

alberghi e aveva visto molta gente, persone per bene. Anche allora non diceva male mai di nessuno. Le zie lo definivano "lo strullo" e mi consigliavano di non frequentarlo.

A me nvece non dispiaceva: mi insegnava qualcosa con quel suo perpetuo sorriso.

Rimasi là un paio di ore: mi raccontò alcune storie di nostri coetanei

moenesi, ex compagni di giochi. Non sentii una parola

malevola. Gli dissi di me, del mio lavoro con i bambini che mi

curano l'anima5.

 Poi gli chiesi se potevo invitarlo a cena, non in

via Damiano Chiesa purtroppo, ché non abitavo più in quella casa.

Rispose che doveva restare lì: custodiva la malga Peniola e la

chiesa.

Camminando verso l'albergo mi domandavo se quello "strullo"

non fosse migliore e meno infelice di me.

Però poi camminando verso Moena vollo ironizzare su questa mia infelicità intermittente: mi venne in mente uno studente del tempo dell’università che fissando la mia fronte abbronzata sotto i capelli neri ogni tanto diceva: “Zitto,  Ghiselli: sono di un infelice!”. Era un omosessuale lamentoso e buffo.  

 

Pesaro 9 ottobre 2024 ore 11, 35 giovanni ghiselli

p. s

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