Sofocle, Edipo re. Versi 1391-1415.
Edipo domanda al Citerone per quale arcano motivo lo abbia salvato, e al palazzo di Polibo perché abbia allevato in lui una bellezza fradicia. Quindi rievoca il trivio imbevuto del sangue di Laio e le nozze incestuose. Le sue azioni sono infami al punto che non devono essere raccontate; piuttosto bisogna portare via, fare sparire dalla vista di tutti un individuo tanto impuro: il mivasma stesso. Un uomo capace del resto di sopportare mali che nessun altro potrebbe soffrire.
vv.1391-1393. ijw;...gegwv"; :"Ahi Citerone perché mi davi ricetto? Perché dopo avermi preso non/mi uccidesti subito, in modo che mai mostrassi/ di me stesso agli uomini da dove ero nato?".
-Kiqairwvn: con la prima apostrofe(ne seguono diverse altre nei versi successivi) il cieco torna al Citerone, il monte che lo ha nutrito come un agnello delle greggi portate lassù a pascolare d'estate, del resto lasciandogli il rammarico di non averlo ucciso
Excursus
Sapienza silenica, Apollineo e Dionisiaco
E' questa una delle tante formulazioni della triste saggezza silenica, la sapienza per cui non essere nati, o morire appena nati, è meglio che vivere.
Nietzsche ne La nascita della tragedia si sofferma su questa aspirazione all'annientamento e la considera caratteristica del greco primitivo che soggiace al terrore dei mostri, all'avvoltoio di Prometeo, al destino spaventoso di Edipo, al matricidio di Oreste, finché non trova la giustificazione estetica dell'esistenza e l'individuazione positiva nell'Apollineo che in termini artistici è la bellezza e la chiarezza delle immagini omeriche, in termini culturali, mitologici e psicologici è il rovesciamento del caos dei Titani nel prevalere del cosmo olimpico:"Per poter vivere i greci dovevano, per una necessità profonda, creare questi dèi: un procedimento che dobbiamo raffigurarci come lo sviluppo, in lenti trapassi, del divino ordine olimpico della gioia, dall'originario titanico ordinamento dell'orrore e dello spavento, in virtù appunto di quell'istinto apollineo della bellezza, come un ciuffo di rose che sbocci da uno spinoso cespuglio" (cap. 3, p.33).
Negli autori classici troviamo varie espressioni della triste saggezza del Sileno: a partire da Erodoto (I, 31) il quale ci racconta la fiaba tragica di Cleobi e Bitone che la dea Era, per ricompensare della loro devozione, fece morire ventenni, mostrando come per l'uomo sia meglio essere morto che vivere; poi ci narra lo strano costume dei Trausi che compiangono il neonato e seppelliscono il morto con manifestazioni di gioia (V, 4):"sedendo attorno al neonato i parenti piangono...enumerando tutte le sofferenze umane; invece scherzano con gioia quando mettono sotto terra il morto, spiegando che si trova in completa felicità, liberato da tanti mali".
L'idea silenica viene ripresa da diversi autori. Ricordo Teognide nella cui Silloge (vv. 425-428) leggiamo:
"La cosa migliore di tutte per quanti vivono sulla terra è non essere nato(mh; fu'nai)/e non vedere i raggi del sole abbagliante,/ma una volta nati al più presto varcare le porte dell'Ade,/e giacere sepolto sotto gran massa di terra".
L'espressione "mh; fu'nai" è usata anche da Bacchilide che nell'Epinicio V fa dire a Eracle:"la cosa migliore per i mortali è non essere nati/ e non vedere la luce/del sole"(160-162).
Ma torniamo a Sofocle che nel suo ultimo dramma, l'Edipo a Colono , fa cantare al coro:"Non essere nati (mh; fu'nai) supera/ tutte le condizioni, poi, una volta apparsi,/ tornare al più presto là/ donde si venne,/ è certo il secondo bene./ Poiché quando uno ha oltrepassato la gioventù/ che porta follie leggere, /quale travagliosa disfatta resta fuori?/ Quale degli affanni non c'è?/Invidia, discordie, contesa battaglie,/ e uccisioni; e sopraggiunge estrema/ l'esecrata vecchiaia impotente,/ asociale, priva di amici /dove convivono tutti i mali dei mali"(vv.1224-1238). Non possiamo mancare di fornire a studenti che sanno di latino qualche formulazione silenica nella lingua di Roma:"non nasci homini longe optimum esse, proximum autem, quam primum mori ", scrive Cicerone, non nascere per l'uomo è di gran lunga la cosa migliore, la seconda, poi, morire al più presto (Tusculane, I, 48).
Seneca, nella Consolazione a Marzia ( cap.22) sillogizza:"Itaque, si felicissimum est non nasci, proximum est, puto, brevi aetate defunctos cito in integrum restitui ", pertanto, se la condizione più fortunata è non nascere, la seconda è, credo, tornare al più presto all'integrità originaria.
Concludo con il cupio dissolvi della Sibilla del Satyricon (48), una volontà utilizzata da Eliot come epigrafe ed emblema di La Terra desolata (1922):"nam Sibyllam quidem Cumis ego ipse oculis meis vidi in ampulla pendere, et cum illi pueri dicerent: Sivbulla, tiv qevlei"; , respondebat illa:" jApoqanei'n qevlw", infatti la Sibilla di sicuro a Cuma, io stesso con i miei occhi, vidi sospesa in un 'ampolla, e dicendole i fanciulli:"Sibilla, cosa vuoi?", rispondeva lei:"morire, voglio".
Noi invece vogliamo vivere e non crediamo che sia questa la quintessenza del messaggio dei classici né di Sofocle in particolare.
Euripide nell'Alcesti fa scattare la sapienza silenica dentro l'anima di Admeto quando questo sente la mancanza della moglie cui aveva chiesto egli stesso di morire per lui:"zhlw' fqimevnou", keivnwn e[ramai,-- kei'n j ejpiqumw' dwvmata naivein"(vv.865-867), invidio i morti , quelli amo, quelle dimore desidero abitare.
L'invidia dei morti (genitivo oggettivo) è silenicamente manifestata anche da Leopardi:" In altri tempi ho invidiato gli sciocchi e gli stolti, e quelli che hanno un gran concetto di se medesimi; e volentieri mi sarei cambiato con qualcuno di loro. Oggi non invidio più né stolti né savi, né grandi né piccoli, né deboli né potenti. Invidio i morti, e solamente con loro mi cambierei...Se mi fosse proposta da un lato la fortuna e la fama di Cesare o di Alessandro netta da ogni macchia, dall'altro di morir oggi, e che dovessi scegliere, io direi, morir oggi, e non vorrei tempo a risolvermi"[1].
Nietzsche (Nascita della tragedia, cap. 4) vede il "mondo apollineo della bellezza e il suo substrato, la terribile saggezza del Sileno" rappresentati nella Trasfigurazione di Raffaello rispettivamente da Cristo che ascende in cielo e dalla "parte inferiore...col fanciullo ossesso, gli uomini disperati che lo reggono, i discepoli angosciati e irresoluti". Cristo- Apollo è la "divinizzazione del principium individuationis ...egli ci mostra, con gesti solenni, come sia necessario un intero mondo di tormenti perché, attraverso di essi, il singolo sia spinto a generare la visione liberatrice...accanto alla necessità estetica della bellezza, corre l'esigenza del:"Conosci te stesso", e del:"Nulla di troppo!", mentre la presunzione di sé e l'intemperanza venivano considerate come i dèmoni propriamente ostili della sfera non-apollinea, cioè come qualità e prerogative dell'epoca pre-apollinea, dell'era dei Titani e del mondo extra-apollineo, ovverosia del mondo barbaro"(p.37).
Sicché Edipo, come Prometeo, è un portatore di dismisura non apollinea:"A causa del suo amore titanico per gli uomini Prometeo dovette essere dilaniato dagli avvoltoi, Edipo precipitare in un labirintico vortice di misfatti a causa della sua eccessiva sapienza che sciolse l'enigma della sfinge: così il dio delfico interpretava il passato della Grecia"(p. 38).
Il dionisiaco è il caos che ritorna redento però dall’arte, dalla capacità dei Greci di intendere e creare bellezza.
In termini artistici è la musica.
Lo stato dorico e l’arte dorica sono il campo di battaglia dell’apollineo.
L’epos omerico è la poesia con cui la cultura olimpica intona il suo canto di vittoria sui terrori per la lotta dei Titani
Un’arte così sdegnosa, un’educazione così guerriera e aspra, uno Stato così crudele e spietato si spiega come baluardo opposto alla natura titanico-barbarica del dionisiaco.
La lotta dell’ordine contro il caos è il tema di tutta la cultura greca arcaica e classica: non solo di quella letteraria, ma pure dell'arte figurativa: le sculture del maestro di Olimpia con la lotta tra Centauri e Lapiti del frontone occidentale del tempio di Zeus;
le metope del Partenone con centauromachia, amazzonomachia, gigantomachia, ora in gran parte nel British Museum di Londra;
la gigantomachia, fregio dell'altare di Pergamo[2] che ora si trova a Berlino, esprimono la stessa idea . Infatti "non esiste…una vita nobile ed elevata senza la conoscenza dei diavoli e dei demoni e senza la continua battaglia contro di essi"[3], contro "giganti e titani, miticamente, gli eterni nemici della cultura"[4].
Dunque secondo Nietzsche abbiamo 5 grandi periodi della civiltà
L’età del bronzo con le sue titanomachie (cfr. la gigantomachia sull’essere del Sofista di Platone) con la sapienza silenica.
Da questa si sviluppò il mondo omerico pervaso dall’istinto apollineo della bellezza
Questa magnificenza “ingenua” rischiò di essere inghiottita dal fiume dirompente del dionisiaco orgiastico e barbarico.
Di fronte a questa nuova potenza si elevò nella rigida maestà dell’arte dorica e della visione dorica del mondo.
Ma il vertice e il fine di quegli impulsi artistici non è l’arte dorica bensì la tragedia attica e il ditirambo drammatico come meta comune dei due istinti, l’apollineo e il dionisiaco greco, il cui connubio ha generato questa strana creatura “che è insieme Antigone e Cassandra” (La nascita della tragedia, cap. 4)
"Con il termine "dionisiaco" si esprime: un impulso verso l'unità, un dilagare al di fuori della persona, della vita quotidiana, della società, della realtà, come abisso dell'oblio…un'estatica accettazione del carattere totale della vita…la grande e panteistica partecipazione alla gioia e al dolore, che approva e santifica anche le qualità più terribili e problematiche della vita…Col termine apollineo si esprime: l'impulso verso il perfetto essere per sé, verso l'"individuo" tipico, verso tutto ciò che semplifica, pone in rilievo, rende forte…La pienezza della potenza e la moderazione, la più alta affermazione di sé in una bellezza fredda, aristocratica, ritrosa…Nel fondo del Greco c'è la mancanza di misura, la caoticità, l'elemento asiatico: la prodezza del Greco consiste nella lotta con il suo asiatismo: la bellezza non gli è donata, non più della logica, della naturalezza dei costumi-esse sono conquistate, volute, strappate- sono la sua vittoria"[5].
Su Apollineo e Dionisiaco torna C. G. Jung:"Esaminiamo i concetti di apollineo e dionisiaco nelle loro caratteristiche psicologiche… Prendiamo in considerazione anzitutto il dionisiaco. Secondo la descrizione di Nietzsche è chiaro che esso indica un espandersi, uno zampillare e uno scaturire…E' una fiumana di sensazioni paniche di grande potenza che erompe irresistibile e inebria i sensi come un vino gagliardo. E' ebbrezza nel significato più elevato del termine…Si tratta quindi di una estroversione di sentimenti indissolubilmente legata all'elemento sensoriale…Per contro, l'apollineo è la percezione delle immagini interiori della bellezza, della misura e di sentimenti armonicamente disciplinati. Il paragone con il sogno chiarisce il carattere dello stato apollineo: è uno stato d'introspezione, di contemplazione rivolta verso l'interno, verso il mondo di sogno delle idee eterne, quindi uno stato d'introversione"[6].
Fine excursus
vv.1394-1396.:"O Polibo e Corinto e gli antichi /palazzi paterni di nome, quale bellezza/ fradicia dentro dunque allevaste con me".
-lovgw/: Edipo non rivendica alcun possesso; la reggia di Corinto è paterna solo di nome. Movimento contrario si trova nell'Eracle di Euripide (vv.337-338) dove Megara, a proposito del palazzo di Tebe occupato dall'usurpatore Lico, dice:"patrw'/on ej" mevlaqron, ouJ' th'" oujsiva"- a[lloi kratou'si, to; d j o[nom j e[sq jhJmw'n e[ti", nella casa paterna della quale altri hanno la proprietà, ma il nome è ancora nostro.
- u{poulon: è il marcio che si trova sotto la cicatrice (oujlhv). Il re di Tebe con le sue rivincite era riuscito nell'intento di cicatrizzare le varie ferite che la sorte gli aveva inflitto, a cominciare da quella dei piedi, e aveva acquistato anche una bellezza esteriore (kavllo"), ma gli errori e i delitti commessi per conseguire i trionfi sono rimasti attivi sotto gli orpelli (cfr. vv.874-880), e, come germi patogeni, hanno fatto suppurare le piaghe celate.-
v.1397.:"Ora infatti mi trovo a essere infame e nato da infami".
La conclusione della seconda apostrofe è il marchio di infamia che il disgraziato imprime, e non per la prima volta (cfr.v.1360) su se stesso e su chi l'ha messo al mondo.
v.1398-1399:"O tre vie e valle nascosta e boscaglia e stretto passaggio nella triplice strada,..."navph..drumov": la terza apostrofe inizia in maniera che sembri indirizzata a un luogo ameno dove si ambienta una favola bella; poi invece un poco alla volta si stringe, si abbuia diventa una gola adatta a racchiudere un delitto efferato con un ribaltamento che è rappresentativo della vita di Edipo ed è tipico dei drammi di Sofocle.-trei'" kevleuqoi:cfr.vv.716,730,800-801.-stenwpo;": è una passaggio angusto circondato da una boscaglia (drumov") formata forse da piccole querce (dru'").Cfr. Seneca, Oedipus, v.277:" calcavit artis abditum dumis iter ", percorse un sentiero nascosto da cespugli serrati. Le strade erano tre, ma confluivano in una strettoia che non permise a Edipo di passare senza scontrarsi con Laio.-
vv. 1400-1401:"che il mio sangue dalle mie mani/beveste, quello del padre, vi ricordate di me ancora..."-toujmo;n(to; ejmovn)..patrov": il sangue di Laio era anche quello di Edipo che pertanto commise un omicidio-suicidio.-
vv.1402-1403.:"quali misfatti avendo compiuto contro di voi, poi venuto qua/quali facevo di nuovo? O nozze o nozze..."-uJmi;n: con i breve. E' un dativus incommodi poiché l'omicidio sporca e offende la terra con il sangue di una sua creatura.- -e[prasson au\qi": l'imperfetto significa aspetto durativo con riferimento all'incesto. E' una nuova offesa alla natura con l'aggravante del prolungarsi nel tempo dell'azione turpe.
vv. 1404-1405."ci avete generato, e dopo averci generato un'altra volta/avete fatto venire alla luce lo stesso seme...". L'ultima apostrofe contiene una rievocazione del caos nella generazione: un solco di corpo di femmina umana impregnata da un seme genera un frutto, poi il medesimo solco fecondato dal seme di quello stesso frutto ne fa venire alla luce altri.-
vv.1406-1408:"padri fratelli figli, sangue della stessa famiglia/ragazze mogli madri e quante/sono le azioni più infami tra gli uomini".
Dal solco di Giocasta seminato da Laio e da Edipo viene fuori una messe aggrovigliata di padri fratelli figli ragazze mogli madri in un orrendo pasticcio di legami sessuali e sanguigni
con le infamie più turpi(ai[scist j(a)) che comprendono gli omicidi. E' inutile cercare di dipanare la matassa volutamente imbrogliata. L'Anonimo del Sublime (23) commenta questa apostrofe sostenendo che "il plurale cade con maggiore grandiosità e ottiene rilievo con il peso stesso del numero.
v. 1409. :"Ma via, poiché non è bello dire ciò che neppure fare è bello..." Non si deve parlare di azioni sconce.
vv. 1410-1412. :"al più presto, per gli dei, fatemi sparire lontano/ da qualche parte, oppure ammazzatemi o gettatemi/in mare dove non mi vedrete mai più”.
Edipo chiede di essere allontanato oppure ammazzato, secondo quanto aveva prescritto l'oracolo a Creonte (vv.100-101).-
Un desiderio di sparizione nel mare si trova in Eliot: The love song of J. Alfred Prufrock :" I should have been a pair of ragged claws /scuttling across the floors of silent seas "(vv. 73-74), Il canto di amore di Alfred Prufrock, avrei voluto essere un paio di ruvidi artigli che corrono sul fondo di mari silenziosi. Eliot torna sull'argomento nella quarta sezione di The waste land: Death by water, La terra desolata, La morte per acqua.
Il tema è trattato anche da J. Joyce nell'Ulisse, quando Stephen Daedalus, stretto dal rimorso per avere lasciato morire la madre malata di cancro senza avere fatto un gesto di conciliazione, pensa:"Un uomo che annega. I suoi occhi umani mi urlano dall'orrore della sua morte...Trasformazione marina...Morte marina, la più mite di tutte le morti note all'uomo"(p.64 e p.70). Forse non è inutile ricordare che alle spalle di questo c'è la Canzone di Ariele de La Tempesta (I, 2) di Shakespeare.
v. 1413- 1415"Avanti, degnatevi di toccare un uomo disgraziato;/
date retta, non abbiate paura: infatti i miei mali/nessuno dei mortali è capace di sopportarli tranne me".-
Edipo rivendica a sé tutte le sue sofferenze poiché esse sono andate a costituire la sua persona.
E' un "vindicare se sibi ", un senechismo prima di Seneca.- Con queste parole il cieco afferma che il suo essere impuro verrà riscattato dal vigore morale con il quale egli sa sopportare le sue disgrazie per quanto smisurate. Mentre la sua intelligenza, capace di risolvere gli indovinelli, si è rivelata fallace, al contrario la forza d'animo di chi segue il volere del fato è una straordinaria potenza che rende l'uomo simile agli dei. L'autocoscienza, il possesso di sé, è uno straordinario punto fermo nelle grandi crisi.
Così la Medea di Seneca afferma la propria sopravvivenza:"Medea superest "(v.166); così l'Antonio di Shakespeare:"I am Antony yet ", io sono ancora Antonio, Antonio e Cleopatra ,III,13.
Pesaro primo agosto 2022 ore 11, 39
giovanni ghiselli
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L’estate volge al termine. Tre consolazioni:
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