Venerdì venticinque dicembre, fin dalle prime ore del pomeriggio, su Bologna, dove lunghi sono gli inverni, cadeva a fiocchi grandi la neve, che in poco tempo rese canuta la terra desertificata dal virus.
Lessi, studiai e scrissi fino a mezzanotte, poi andai a letto.
Dormivo e sentivo suonare il campanello.
Scesi di corsa le scale fino al portone d’ingresso, lo aprii e vidi Helena che mi sorrideva. Mi fermai stupito, senza toccarla, senza invitarla a entrare, senza dire parola: non avevo mai visto una tale unione di inverno e colore di vita variopinta: i capelli bruni bruni, bagnati, a tratti innevati, le scorrevano giù per le spalle come un ruscello montano cupo di gelide ombre, e aspro di pietre biancastre, facendola rabbrividire, ma gli occhi dall’incantevole taglio orientale, neri e brillanti mi versavano addosso una morbida luce che fluiva calda dal cuore. La osservavo in silenzio: la neve cadutole sopra luccicava sulle ciocche scure, come sulle chiome perenni degli abeti montani, e trasformava la luminosa ragazza in una creatura dei boschi: una cerbiatta screziata, oppure una bella baccante che dopo la dolce fatica della corsa sui monti si riassetta la nebride multicolore onorando il dio suo, Bacco, signore della gioia di vivere, della festa lieta, delle grazie tutte, del desiderio. I tanti decenni passati da quando l’avevo vista l’ultima volta mentre saliva sul treno nella stazione orientale di Budapest, non l’avevano mutata se non in meglio.
Mentre nella fredda oscurità della notte precoce contemplavo la vivida fiamma della mia giovane amante, mi riempivo e scaldavo di gioia. Dopo qualche momento di stupito silenzio, Helena disse: “posso entrare gianni? Sento freddo”. Fui felice del fatto che ricordasse il mio nome.
Mi scostai dalla soglia: la ragazza entrò senza indugiare, sdegnò l’ascensore e cominciò a salire i cinque piani di scale spedita, facendo ondeggiare le anche sode sulle cosce robuste molleggiate dai polpacci torniti, dalle caviglie sottili, mentre i piccoli piedi, nella fretta di ascendere i molti gradini di corsa, si appoggiavano e sollevavano con leggerezza, potenza e agilità. Le correvo dietro ammirato e felice.
Tutto era tanto bello che non mi sembrava vero.
Quando fummo arrivati davanti alla porta dell’appartamento, la aprii con la destra un poco tremante, poi con la sinistra le feci segno di precedermi. Ero pieno di desiderio amoroso. Lo sentiva concordemente anche lei, poiché individuò la stanza del nostro matrimonio da rinnovare e procedette fino alla sponda del grande talamo dove si svestì con rapide mosse. Mentre, con i vestiti sul pavimento, cadeva la neve, la splendidissima amante mi chiese di spogliarmi subito e di abbracciarla senza i preamboli solitamente graditi: Puntila, suo marito, un tipo geloso, non poteva crederla a spasso nel caos bianconero della città notturna innevata, né, tanto meno, doveva sospettare che passasse il tempo nell’alcova di un uomo: sicché gli era proprio dovuto che la moglie rientrasse non oltre un’ora dopo la lezione di yoga, terminata da venti minuti.
Intanto ci eravamo spogliati.
Il suo corpo, formato con arte egregia dal demiurgo migliore, incarnava la dignità forte di Fidia e la morbida grazia di Prassitele.
L’abbracciai senza dire parola: il seno si era già intiepidito, anzi conservava gli odori della terra benedetta dal cielo estivo: pensai che non era il tepore domestico a renderla così calda e vivace appena si era sottratta all’iniqua, mortificante stagione, ma piuttosto il suo giovane sangue fervido sotto la pelle ancora abbronzata e profumata dal sole che durante la nuda estate doveva averla baciata con lucida forza amorosa, lasciandole addosso indelebili segni di bellezza, di salute e di gioia. La baciai anche io per succhiare una parte di quel calore, di quella gioventù, di quella vita trionfante su ogni miseria; quindi la distesi sul letto inclinando il mio corpo avido, scuro e magro su quello armonioso di lei: ne trassi piacere e voglia di vivere, eppure pensai a quando le sue magnifiche membra, coperte dall’ultima veste, la nera terra, l’avrebbero fatta fiorire di sanguigni papaveri, o di rose rosse, profumate di carne. Vedevo quei fiori fluttuare ai tiepidi soffi di zefiro, nella luce di aprile. Mi fecero credere nell’eterno ritorno dei giorni felici.
A un tratto Helena si congedò in fretta, uscì senza saluti, e io mi svegliai. Erano le quattro di notte, l’ora consueta dello svuotamento dei liquidi.
Dopo avere urinato, mi guardai allo specchio per vedere se ero rimasto anche io come nell’estate remota di mezzo secolo prima.
No, non era così, nemmeno per sogno.
Quindi mi accostai alla finestra. Fuori la neve continuava a fioccare lenta, lenta, lenta sulla città svuotata dal virus.
Bologna 2 gennaio 2021 ore 17, 33.
giovanni ghiselli
p. s
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Però non li trascorsi tutti dormendo e sognando i quasi 50 anni trascorsi dall’estate del 1971
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