Mi mossi per telefonare. Rispose Ifigenia. Disse solo “Ciao”.
“Ciao - risposi, poi: “Come stai? Se vieni qui volentieri, mi fa piacere”.
“Sei sicuro? Perché tu in mezzo a quei monti diventi strano”.
“Sì è vero, ma devi capire: passo tutto il tempo da solo rimuginando ricordi e pensieri senza poterli comunicare. A lungo andare mi fa male. Venendo mi porterai soccorso e conforto”.
“Va bene. Arriverò alla stazione di Trento domani sera alle nove e diciotto. Partirò dopo una lezione di Gimondi all’Antoniano”, disse, poi tacque. Era la sua scuola di recitazione. Mi aveva detto che quel maestro le piaceva.
La notizia non era delle più rassicuranti. Nemmeno l’orario.
Comunque volli ostentare entusiasmo e dissi: “Ho tanta voglia di vederti, tesoro, averti vicina, abbracciarti”. Speravo che rispondesse: "anche io”.
Invece disse: “d’accordo: alle 21 e 18. Ciao”
Tornai a La Campagnola depresso. Avevo fatto un grosso sbaglio aggredendola per le cugine.
“D’altra parte - pensavo - non sono del tutto cretino né sprovveduto: gli errori li evito, se voglio. Faccio quelli che posso utilizzare per correggere una situazione che non mi piace e mi fa male. Domani vedremo”.
Dopo questo pensiero assolutorio mi addormentai.
La mattina del sei marzo andai a sciare al Laurino. Salivo su un bidone, adagio, tra le ombre gelide del bosco, poi scendevo a precipizio per un pendìo scosceso e poco innevato. La pista ripida al pari di un tetto aguzzo è sovrastata dalla Roda di Vael, una roccia sottile e appuntita come una spada. Più volte mi buttai giù per la precipitosa discesa invocando ogni volta una delle mie amanti migliori perché mi aiutasse a non cadere, anche nelle grinfie dell’ultima tutt’altro che chiara e schietta. A mezzo il dì, quando il sole sembrò sbaragliare le invide nuvole, mi femai sotto la rupe affilata e luminosa. Volevo abbronzarmi mentre mangiavo un panino. Presto però la luce venne soverchiata da fastidiose nubi. Il freddo odioso, nemico mi disturbava parecchio, sicché tornai a Moena. Mentre entravo nel paese forai uno pneumatico e dovetti lasciare l’automobile da un gommista perché forata era anche la ruota di scorta. Mi ero scordato di averla già usata e riposta bucata. Aspettando la necessaria riparazione delle ruote, andai al bar Maria per guardare il gioco delle bocce e ricordare: quando ero bambino mi interessava osservare i giocatori, sentire i commenti loro e quelli del pubblico, imparare fatti e parole che la scuola non mi insegnava, né alcun altro. Era anche un intervallo dalla mia solitudine già allora preponderante. Vidi e riconobbi alcune persone di trent’anni prima. Erano piuttosto invecchiati ma recitavano la medesima parte di allora, con la stessa mimica e le stesse parole.
Dopo avere avere lasciato cadere di mano la boccia, la seguivano, la sgridavano o la incoraggiavano, come si fa con una creatura.
Il più notevole era Micelotto il quale gridava e si muoveva in una farsa seguita dal pubblico con attenzione. L’è bela, l’è bela, diceva quasi ogni volta della propria giocata, consapevole e contento di essere bravo. Lo capivo perché piaceva anche a me fare bene quanto sapevo fare. Lo osservavo con simpatia. Mi chiedevo: “quanti anni può avere?”
Facevo i conti e mi rispondevo “Una cinquantina. Allora era un ragazzo. Gli piace ancora farsi guardare”. Bocciava e recitava bene in effetti. La sua parte migliore nel mondo doveva essere quella. Doveva mostrare al suo pubblico com’è bello giocare a bocce. Certo è meglio che giocare con i sentimenti delle persone. Ciascuno di noi quando fa qualcosa con attitudine e passione, dopo del tempo e dell’esercizio sa farla bene e vuole darlo a vedere. Io già allora sapevo insegnare la letteratura europea a partire da quella greca. Micelotto accarezzava ognuna di quelle creature rotonde come l’Essere di Parmenide o come le natiche di Afrodite callipigia, la faceva uscire dalla mano destra poi la seguiva incoraggiandola come un padre affettuoso o un marito amoroso: se gli sembrava corta, faceva il gesto di spingerla e diceva parole per indurla a proseguire, se lunga, protendeva le mani come per trattenerla e parlava ad alta voce per dissuaderla dal poseguire oltre il boccino. Era un attore consumato oramai. Aveva un repertorio limitato ma lo esguiva con arte. Quando piazzava una giocata ottima, e gli riusciva spesso, risuonavano gli applausi del pubblico che lo ricompensavano con l’aggiunta di un sorso di vino.
“Caro, simpatico Micelotto, mi piacevi quando ero un bambino e tu un ragazzo un po’ rincagnato a dire il vero, ma dallo sguardo espressivo, e mi piace adesso dopo che sono passati trent’anni accanto a noi, come le nuvole sopra la valle di Fassa” pensai.
Tornai dal gommista: l’automobile non era ancora pronta
Bologna 2 giugno 2021 ore 10, 35
giovanni ghiselli
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