József Attila |
Primo agosto. La festa sulla terrazza
La
sera del primo di agosto c’era una festa sulla terrazza del
casinetto di fianco allo stadio. Si beveva e si ballava. C’erano
tutti i miei conoscenti e amici di quell’anno 1979 e pure quelli
rimasti vivi degli anni passati. C’era anche la bella slava Giulia
in forma splendente: i suoi occhi azzurri e i capelli biondi,
radiosi, facevano venire in mente il mare di Grecia illuminato dal
sole. Mi venne l’idea di farle la corte e di piacerle poiché
Ifigenia continuava a non scrivere infliggendomi una ferita ogni
giorno, quando, dopo la scuola, andavo a vedere se c’era posta per
me. Una piaga, un’ulcera che mi bruciava dentro e fuori. Ogni
giorno di più.
La
posta c’era sempre solo per altri. L’ulcus si
aggravava e uccideva l’amore.
Pensai
dunque che potevo prepararmi il terreno con una corte fatta a regola
d’arte in modo da essere in grado di prendermi una vendetta allegra
se colei continuava a negarmi il conforto di qualche riga. Un farmaco
necessario oramai.
C’era
pure Silvia Virág che mi corteggiava e gratificava dicendo che le
piacevo siccome ero molto diverso dagli altri. Le sorrisi e la
ringraziai, ma prima di darle una risposta mi chiesi se la stravaganza
fosse davvero un’ottima cosa. Allora non avevo le idee chiare su
questo. Ora rispondo che essere soli e diversi non è bene e non è
pienamente umano se è vero che siamo animali politici e linguistici,
ma quando la nostra specie si spoliticizza e diviene brutale o
vegetale, quando il prossimo è formato da profittatori e imbecilli,
allora stare da soli a leggere, riflettere, scrivere è la maniera
per salvare quanto rimane della propria identità umana e politica
lavorando per gli uomini dell’avvenire. “Essi saranno la mitezza
e la forza”, ha scritto un poeta ungherese del Novecento, József
Attila.
A
Silvia poi dissi che non mi spiaceva essere differente dagli altri,
anche se tale difformità mi era costata solitudini lunghe e
difficili. Il corso di Debrecen, aggiunsi, era un ambiente strano e
consolatorio, siccome frequentato da studiosi di materie umanistiche
provenienti da quasi tutte le Università europee e vi si potevano
trovare persone inclini al pensiero e curiose di imparare; mentre,
invece, frequentare la gente usuale diseducata dalla
pubblicità e dalla propaganda, infarcita di luoghi comuni, ascoltare
banalità e menzogne, significava perdere tempo, il bene più
prezioso di questa breve esistenza. Di qui la mia solitudine cronica
e la mia diversità da anacoreta.
“Tuttavia
non dispero che un giorno, forse in seguito a qualche catastrofe
espiatoria e catartica, o all’opera di un demiurgo geniale, rinasca
un ethos politico tra la gente comune, che dalle rovine del ’68 o
magari dai testi della Grecia classica, risorga un popolo capace di
pensare e sentire umanamente; allora la preparazione che sto
costruendo in me stesso, con anni di lavoro solitario, forse potrò
impiegarla in favore delle donne e degli uomini tornati umani”.
“Dovresti
scrivere - disse la ragazza tedesca mal maritata con un ungherese e
separata da lui. Un’altra possibile vendetta allegra.
“Ci
penserò. Lo farò di sicuro quando avrò qualcosa di preciso da dire
se allora avrò a arricchito il mio linguaggio, trovato uno stile mio
e ne sentirò la necessità”, risposi.
giovanni
ghiselli
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