Questi
pensieri provocavano nuove emozioni dalle quali nascevano pensieri
nuovi. E così via per tutto quel pomeriggio remoto con il volgere
delle ore.
Se
Ifigenia era tanto pericolante, e io ero davvero convinto che un
rapporto di fedeltà fosse una cosa buona, non potevo aiutarla? Non
dovevo indurla a correggere i giri viziosi della sua testa secondo
le circolazioni del cielo ?
In
fondo non si era rivolta a me perché dirozzassi la sua natura
tellurica, fatta di terra vulcanica e sismica per giunta?
Ma
come potevo aiutarla se mi faceva soffrire?
Se,
inebetito dal dolore, mi fermavo a fissare il suo abisso, potevo
caderci anche io. Lucido dovevo essere.
Mi
venivano ancora in mente i dolori provati da bambino quando non mi
sentivo amato dalla madre mia, non tanto quanto pensavo di meritarmi.
Eppure
mia madre mi aveva fatto il più grande dei doni, pensavo anche, mi
aveva dato la vita senza la quale non avrei sofferto molto ma nemmeno
goduto e gioito tanto, e l’ anno prima in autunno quella giovane
donna che tacciavo di infamia mi aveva ricaricato di vita in una fase
difficile del mio lavoro, maltrattato com’ero da un preside
fascista, ignorante e assecondato da colleghi servili.
Mi
avevano aiutato gli allievi di una terza liceo persino con
manifestazioni pubbliche, ma soprattutto mi aveva risollevato
Ifigenia, la bella supplente che, appena arrivata, si schierò
coraggiosamente con i pochi docenti che mi sostenevano sfidando l’ira
del burocrate che non mi voleva bene. Anche lei, con l’offerta del
suo amore, mi aveva arricchito di vita. Senza tali due donne
benedette non ci sarebbe stato niente per me: né male, né bene, né
dolore né piacere, perché non ci sarebbe stata la vita. Non potevo
farne a meno.
Pensavo
con simpatia alla vita in generale, a come si era manifestata in me,
quanto l’avevano potenziata le mie donne, e sorridevo pensando alla
vita della madre terra che nutre noi, gli animali, le piante, o a
quella del mare il quale ci fa capire, con il moto ondoso,
che respira anche lui, aspirando ed espirando come gli uomini e gli
animali. L’angoscia mi stava passando. Riuscivo a redimere i
sentimenti cattivi scaturiti dalla telefonata, in amore per la vita e
in gratitudine per chi me l’aveva donata e accresciuta via via.
Molta riconoscenza dovevo alla madre mia, e non poca alle
mie amanti: dalle due Elene, a Kaisa, a Päivi, a Faina, a
Jousiane, di cui ho già raccontato, e ultimamente a Ifigenia pur se
mi stava tradendo. Camminavo nel bosco fitto di alberi antichi; li
ascoltavo mentre sussurravano al vento con
fronde vocali, e osservavo l’acqua del laghetto che sorrideva
immillando i raggi del sole con le sue increspature. Non faccio
metafore: le fronde sussurravano davvero e l’acqua mi sorrideva
davvero.
Contraccambiavo
sussurri e sorrisi pensando alle donne, al solco del loro
corpo che ci mette nella luce, in
luminis oras,
come gli arati solchi della terra fanno nascere grano, pensavo agli
amici a partire da Fulvio, ringraziavo l’artista
creatore di questo mondo vivo, bello e variopinto. Io
volevo contribuire alla stabilità, se possibile all’accrescimento
di tanta bellezza e non dovevo rabbuiarmi spandendo tenebra e
malumore a causa della sceneggiata che avevo immaginato
nella casetta di Rimini. Dovevo prenderla appunto come una farsa
messa in scena per divertirmi e farmi pensare, forse creare. Vedevo
una relazione di simpatia tra tutte le parti del mondo e io non
dovevo “nelle fata dar di cozzo”[1],
andare contro l’ordine dell’universo , se non volevo
innescare l’esplosione che mi avrebbe fatto precipitare
nell’inferno del caos. Capire dovevo, redimere il dolore,
trasformarlo in comprensione e bellezza. Capire quello che ci voleva
per la conservazione e l’accrescimento della vita. Io ero
naturalmente connesso con il cosmo e non dovevo recidere questo
legame, anzi.
continua
giovanni
ghiselli . 7 agosto 2017. Il blog è arrivato a 557951 visite tutte
gradite.
Riveduto
e corretto il 18 agosto del 2020 con il senno di oggi
giovanni
ghiselli. Pesaro 16 agosto 2020, ore 10, 16
p.s.
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