Silvia Virág e gianni il perfetto imbecille
La bionda che mi aveva invitato si
chiamava Silvia, aveva venticinque anni, era tedesca, di Berlino est, ma da
anni viveva a Budapest dove si era sposata e poi separata da un certo Virág del
quale comunque conservava il cognome poiché le piaceva.
Significa “fiore”.
“Virág, fiore, Bloom, come l’Ulisse
ebreo ungherese irlandesizzato di Joyce”, pensò subito la mia mente avvezza a
vedere le persone, le cose e il mondo intero nella lunga prospettiva formata
dalle letture dei classici. La vita imita l’arte. La vita è allieva dell’arte,
avevo imparato da Oscar Wilde.
Forse più avanti quella Silvia
tentatrice mi avrebbe suggerito delle corrispondenze tra quanto si poteva fare
di bello io e lei nella nostra vita mortale e quanto di bello ricordavo dalle
mie letture.
Intanto ci avviammo verso
l’Obester, un borozó o
vineria, insomma una bettola simpatica, antica d’aspetto: una specie di grotta
adibita a cantina dove si potevano bere diversi vini ungheresi, compreso l’egribikavér che
al fiuto odorava di buono e al mio gusto sapeva tanto di finniche
ottime, meravigliose.
Mentre lo annusavo e guardavo la
bionda accingendomi al brindisi propiziatorio, non sapevo ancora se durante la
nostra prima serata avrei cercato di stuzzicare le nostre libidini
per poi sfogare la mia sensualità bestiale e pure divina o se sarei tornato da
solo nel letto casto dove avrei dedicato la dura rinuncia alla mia
Ifigenia che forse, chissà, mi era altrettanto fedele.
Dopo l’immancabile prosit ci
mettemmo a parlare in inglese.
Si poteva farlo con agio siccome
non c’erano violini, né cembali, né, tanto meno, mostruosi apparecchi
gracchianti né altri rumori d’inferno che servono a sostituire il silenzio o la
chiacchiera vuota delle teste vuote di tutto.
La bionda era meno snella e meno
bella di Ifigenia la bella, ma anche molto meno povera di parole e idee
interessanti. Aveva infatti una formazione assai più consistente di quella di
colei che, forse, chissà, ancora mi aspettava in Italia. Insomma con la tedesca
avevo più argomenti di interesse comune, e Afrodite poteva farci
giocare, o duellare, con le parole, in vista di un letto o di un prato
illuminato dai nostri sorrisi, scaldato dai reciproci, frenetici abbracci, e
reso piacevolmente sonoro da tripudi lieti, pieni di gratitudine al
destino santo che ci aveva fatto incontrare quella sera d’estate quando eravamo
giovani, lieti e ancora capaci di fare tutto. Una sera che ricordo bene e
rimpiango dandomi del perfetto imbecille per non avere acciuffato l’occasione
di imparare dell’altro da una femmina umana compiacente e intelligente invece
di macerarmi per un mese intero aspettando una lettera che non arrivava mai.
Qualche cosa comunque ho imparato: a non volere ciò che non mi viene dato
presto, di buon grado, generosamente e amabilmente.
gianni
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