domenica 9 agosto 2020

Debrecen. 12. Silvia Virág e gianni il perfetto imbecille


Silvia Virág e gianni il perfetto imbecille

La bionda che mi aveva invitato  si chiamava Silvia, aveva venticinque anni, era tedesca, di Berlino est, ma da anni viveva a Budapest dove si era sposata e poi separata da un certo Virág del quale comunque conservava il cognome poiché le piaceva.
Significa “fiore”.
“Virág, fiore, Bloom, come l’Ulisse ebreo ungherese irlandesizzato di Joyce”, pensò subito la mia mente avvezza a vedere le persone, le cose e il mondo intero nella lunga prospettiva formata dalle letture dei classici. La vita imita l’arte. La vita è allieva dell’arte, avevo imparato da Oscar Wilde.
Forse più avanti quella Silvia tentatrice mi avrebbe suggerito delle corrispondenze tra quanto si poteva fare di bello io e lei nella nostra vita mortale e quanto di bello ricordavo dalle mie letture.
 Intanto ci avviammo verso l’Obester, un borozó o vineria, insomma una bettola simpatica, antica d’aspetto: una specie di grotta adibita a cantina dove si potevano bere diversi vini ungheresi, compreso l’egribikavér che al fiuto odorava di buono e al mio gusto sapeva tanto  di finniche ottime, meravigliose.
Mentre lo annusavo e guardavo la bionda accingendomi al brindisi propiziatorio, non sapevo ancora se durante la nostra prima  serata avrei cercato di stuzzicare le nostre libidini per poi sfogare la mia sensualità bestiale e pure divina o se sarei tornato da solo  nel letto casto dove avrei dedicato la dura rinuncia alla mia Ifigenia che forse, chissà, mi era altrettanto fedele.
Dopo l’immancabile prosit ci mettemmo a parlare in inglese.
Si poteva farlo con agio siccome non c’erano violini, né cembali, né, tanto meno, mostruosi apparecchi gracchianti né altri rumori d’inferno che servono a sostituire il silenzio o la chiacchiera vuota delle teste vuote di tutto.
La bionda era meno snella e meno bella di Ifigenia la bella, ma anche molto meno povera di parole e idee interessanti. Aveva infatti una formazione assai più consistente di quella  di colei che, forse, chissà, ancora mi aspettava in Italia. Insomma con la tedesca avevo più argomenti di interesse comune, e Afrodite  poteva farci giocare, o duellare, con le parole, in vista di un letto o di un prato illuminato dai nostri sorrisi, scaldato dai reciproci, frenetici abbracci,  e reso piacevolmente sonoro da  tripudi lieti, pieni di gratitudine al destino santo che ci aveva fatto incontrare quella sera d’estate quando eravamo giovani, lieti e ancora capaci di fare tutto. Una sera che ricordo bene e rimpiango dandomi del perfetto imbecille per non avere acciuffato l’occasione di imparare dell’altro da una femmina umana compiacente e intelligente invece di macerarmi per un mese intero aspettando una lettera che non arrivava mai. Qualche cosa comunque ho imparato: a non volere ciò che non mi viene dato presto, di buon grado, generosamente e amabilmente.

gianni

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