Ovidio, Eroidi |
Non
rispondendo al richiamo della tedesca se non con un cenno di cortesia, insomma
non raggiungendola e non invitandola a passare la serata e magari la notte con
me, realizzavo la fantasticheria della sera remota del dì nel quale avevo
scritto diverse pagine della tesi di laurea: a una possibile avventura con una
tedesca da aggiungere alla collezione dei peregrini amores avevo
preferito una relazione di maggiore durata e impegno con una donna italiana,
una bruna, molto bruna.
Poco più
tardi salii in camera: sempre la stessa degli anni passati giovanilmente
scherzando con gli amici e le amanti: la numero 4 del III piano del II
collegio. Sedetti nello studio che divideva le due parti.
In una delle
due stanze Alfredo e Silvano, oggi compianti e rimpianti, scherzavano
piacevolmente e chiassosamente.
Scrissi a
Ifigenia facendole sapere che soffrivo la mancanza di lei e che lì a Debrecen,
dove pur non c’era carenza di persone simpatiche, nel sito antico dove mi
tenevano compagnia reperti anche belli, ricordi costitutivi di parte almeno
della mia identità, mi sentivo dimidiatus, dimezzato
senza di lei, però grazie a tale temporaneo discidium ero del
tutto sicuro di amarla. Tanto che quella sera non ero uscito in compagnia delle
persone che a gruppi stavano andando all’Aranybika per bere, parlare,
ascoltare violini e cembali, nella lunga nottata estiva e
coribantica: preferivo restare solo a pensare lei, Ifigenia, a desiderare la
mia compagna piena di significato, mirabile quanto un’opera d’arte,
incarnazione della bellezza stessa. Iperboli di uno stato d’animo eccessivo e
trasfigurante.
Il povero
Alfredo e il povero Silvano erano più saggi di me quella sera.
Un mese più
tardi, dopo averla pensata per l’intero periodo di Debrecen, in termini sempre
meno benevoli, in seguito al suo silenzio e alla dura ma giusta sentenza del
tempo che, solo, rivela l’uomo giusto[1] e svela pure la donna, togliendole
la maschera amabile, la rividi alla stazione di Padova trasfigurata a rovescio.
La donna
goffa, impacciata e diffidente che con faccia scura, sguardo perfido, lingua
fallace, mi venne incontro non era più Ifigenia, non era credibile, portava in
sé menzogna e sciagura. Dovevo staccarmi da lei, liberarmi da quella dipendenza
che mi avrebbe reso malato, infelice e cattivo. Ma prima dovevo fare i conti
con me stesso e con lei.
E ora torno
a raccontare il resto del mese che passai aspettando una risposta: invano e con
molto dolore.
giovanni
ghiselli . Pesaro 7 agosto 2020, ore 10
p. s.
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[1] Cfr. Sofocle, Edipo re,
614: “solo il tempo rivela l'uomo giusto (crovno" divkaion a[ndra
deivknusin movno"). Altre due
testimonianze analoghe: il tempo viene invocato quale rivelatore delle trame
delle sorelle malvagie da Cordelia, la figlia buona di Re Lear :" Time
shall unfold what plaited cunning hides ", Il tempo renderà
manifesto ciò che l'intrigo dell'astuzia nasconde"(I, 1). Machiavelli nei Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio sostiene
che nel caso di "occulta cagione" da cui procede "alcuna
malignità occulta (...) la fa poi scoprire il tempo, il quale dicono essere
padre di ogni verità"(I, 2).
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