venerdì 7 agosto 2020

Debrecen. 10. La fine dei peregrini amores

Ovidio, Eroidi
Conclusione del 24 luglio del 1979. La fine dei peregrini amores

Non rispondendo al richiamo della tedesca se non con un cenno di cortesia, insomma non raggiungendola e non invitandola a passare la serata e magari la notte con me, realizzavo la fantasticheria della sera remota del dì nel quale avevo scritto diverse pagine della tesi di laurea: a una possibile avventura con una tedesca da aggiungere alla collezione dei peregrini amores avevo preferito una relazione di maggiore durata e impegno con una donna italiana, una bruna, molto bruna.
Poco più tardi salii in camera: sempre la stessa degli anni passati giovanilmente scherzando con gli amici e le amanti: la numero 4 del III piano del II collegio. Sedetti nello studio che divideva le due parti.
In una delle due stanze Alfredo e Silvano, oggi compianti e rimpianti, scherzavano piacevolmente e chiassosamente.
Scrissi a Ifigenia facendole sapere che soffrivo la mancanza di lei e che lì a Debrecen, dove pur non c’era carenza di persone simpatiche, nel sito antico dove mi tenevano compagnia reperti anche belli, ricordi costitutivi di parte almeno della mia identità,  mi sentivo dimidiatus,  dimezzato senza di lei, però grazie a tale temporaneo discidium ero del tutto sicuro di amarla. Tanto che quella sera non ero uscito in compagnia delle persone che a gruppi stavano andando all’Aranybika per bere, parlare, ascoltare  violini e cembali, nella lunga nottata estiva e coribantica: preferivo restare solo a pensare lei, Ifigenia, a desiderare la mia compagna piena di significato, mirabile quanto un’opera d’arte, incarnazione della bellezza stessa. Iperboli di uno stato d’animo eccessivo e trasfigurante.
Il povero Alfredo e il povero Silvano erano più saggi di me quella sera.
Un mese più tardi, dopo averla pensata per l’intero periodo di Debrecen, in termini sempre meno benevoli, in seguito al suo silenzio e alla dura ma giusta sentenza del tempo che, solo, rivela l’uomo giusto[1] e svela pure la donna, togliendole la maschera amabile, la rividi alla stazione di Padova trasfigurata a rovescio.
La donna goffa, impacciata e diffidente che con faccia scura, sguardo perfido, lingua fallace, mi venne incontro non era più Ifigenia, non era credibile, portava in sé menzogna e sciagura. Dovevo staccarmi da lei, liberarmi da quella dipendenza che mi avrebbe reso malato, infelice e cattivo. Ma prima dovevo fare i conti con me stesso e con lei.
E ora torno a raccontare il resto del mese che passai aspettando una risposta: invano e con molto dolore.

giovanni ghiselli . Pesaro 7 agosto 2020, ore 10

p. s.

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[1] Cfr. Sofocle, Edipo re, 614: “solo il tempo rivela l'uomo giusto (crovno" divkaion a[ndra deivknusin movno"). Altre due testimonianze analoghe: il tempo viene invocato quale rivelatore delle trame delle sorelle malvagie da Cordelia, la figlia buona di Re Lear :" Time shall unfold what plaited cunning hides ", Il tempo renderà manifesto ciò che l'intrigo dell'astuzia nasconde"(I, 1). Machiavelli nei Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio  sostiene che nel caso di "occulta cagione" da cui procede "alcuna malignità occulta (...) la fa poi scoprire il tempo, il quale dicono essere padre di ogni verità"(I, 2).

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