Unter den Linden |
Rimasi solo.
Stavo appoggiato a una ringhiera e osservavo gli altri ballare, oppure volgevo
lo sguardo dalla parte non illuminata dello stadio deserto e della pista dove
correvo ogni giorno sul far della sera con energia, per trovare un motivo di
consolazione all’angoscia che mi aveva assalito di nuovo.
Pensavo:
perché Ifigenia non scrive, non telegrafa, non si fa viva? Da che cosa è
occupata? Da quale vortice di piaceri è risucchiata e portata chissà dove? Oggi
è il primo di agosto: sono passati già dieci dì e dieci notti da quando ci
siamo divisi con un distacco per nulla chiaro.
Sabato
scorso quando è venuta al telefono mi ha detto “ti amo tanto”, dunque la
situazione disperata del tutto non è.
Però ha pure
detto “ti scrivo un espresso”, e da allora sono passati quattro giorni, quattro
tutti interi, più tre ore; ebbene, se lo avesse spedito quella sera stessa,
come avrebbe fatto qualunque donna mortale innamorata, sarebbe già arrivato.
Quella lì mi tormenta.
Confrontavo
la sera sciagurata che stavo vivendo penosamente con la notte meravigliosa
dell’estate remota del 1971 quando mi destreggiavo tra Helena, la
splendidissima finnica già conquistata, e Josiane la diciottenne di Strasburgo
che mi sorrideva con simpatia e mi benediceva. Allora avevo evitato di compiere
un’azione cattiva, e, verso l’aurora, pure Helena, la donna mia scopertasi
incinta di un altro, mi aveva benedetto. Donne benefiche e benedette. Femmine
davvero umane. I loro benefici mi hanno aiutato per tutta la vita seguente.
Questo ricordo mi difendeva. Difendersi dal male è ricordare il bene fatto e
ricevuto. Per immergermi meglio nel praeteritum mio, andai a
camminare nella pista buia delle mie corse ai crepuscoli. Meditavo sulle
intenzioni oscure di Ifigenia. Alternavo pensieri realistici tipo: “non mi ama
di sicuro, se mi amasse avrei già ricevuto almeno tre espressi con parole
inequivocabili”, a illusioni rigurgitate da una specie di istinto di
sopravvivenza di quell’amore già malato a morte: “ma no, vedrai che domani ti
arriva un messaggio pieno di luce”, e pure a meditazioni consolatorie di questo
tipo: “se si è innamorata di un tanghero, tanto meglio. Così mi libero da
questo ceppo doloroso. Speriamo anzi che il nuovo drudo sia un buffone
neozelandese, o un cafone di Macerata finito in galera, così colei sparisce per
sempre!”
Dopo una
mezzora di quel rimuginare vano camminando nel buio, tornai sulla terrazza
della festa e mi appoggiai di nuovo alla ringhiera osservando i giovani che
ballavano lieti, per trarne conforto. Speravo che qualcuno venisse a parlarmi.
Venne
infatti Cornelia, la giovane donna di Berlino est con la quale avevo avuto una
veloce avventura mattutina nell’estate del ’74, poche ore prima di incontrare
Päivi e di innamorarmene tanto da non volere per diversi mesi nessun’altra
donna, e nemmeno una dea immortale.
Perciò con
la ragazza tedesca avevo troncato i rapporti amorosi poche ore dopo averli
iniziati, non senza spiegarle il motivo. Cornelia non l’aveva presa male, anzi
nel 1976 mi ospitò a casa sua con tutti gli onori in un appartamento situato
vicino al Museo di Pergamo, sulla Unter den Linden.
Così il
primo agosto del 1979 la incontravo per la terza volta. Era arrivata da poco.
Venne a salutarmi in maniera amichevole che contraccambiai.
Ci
raccontammo le nostre vicissitudini. Le dissi che amavo una ragazza italiana;
lei mi raccontò che nel frattempo si era sposata due volte e aveva messo al
mondo una bambina.
Dopo tale
aggiornamento sulle nostre vite anomale, Cornelia disse parole semplici,
apparentemente banali eppure dotate di tale forza educativa che voglio
riferirtele caro lettore e raccomandartele.
Il discorso
della verità infatti è semplice e non necessita di artifici scaltri né di
interpretazioni ricamate.
Terminati i
saluti e gli essenziali ragguagli, Cornelia disse che mi aveva notato fin
dall’inizio della festa, ma non era venuta a salutarmi poiché mi aveva visto
prima impegnato a parlare, per giunta con un’altra tedesca, poi le ero apparso
pensoso e scuro in volto, sofferente o sdegnato.
“A che cosa
pensavi, se hai voglia di dirmelo?”
Se fosse
stata una possibile preda, avrei risposto: “a te, e a chi se no? A che
cos’altro potevo pensare dopo avere visto la grazia di una dea? Volevo venire a
chiederti se tu fossi Cipride o Artemide, ma temevo il tuo sdegno di creatura
più che mortale per il tentativo di approccio da parte di un pover’uomo quale
sono io.”
Invece
risposi: “ Alla ragazza italiana che amo. Anche lei, credo, mi ama, eppure
talvolta ne sento la mancanza in modo innaturale: opprimente e penoso. Talora
temo che non sia della mia razza spirituale. Nel dubbio in amore la risposta è
sempre, quasi sempre, quella deprecata”.
Intanto ci
eravamo voltati dalla parte dello stadio e del buio.
I ragazzi
che ballavano lieti li avevamo alle spalle.
“Com’è la tua
italiana, bella e bruna? Päivi, ricordo era rossa. Tutt’altro che italiana
infatti”.
Accennai a
un sorriso quasi di scusa, poi risposi:
“Sì, bruna,
bella assai, e giovane molto. Ha diversi anni meno di me, una decina. Non sono
certo che sappia quello che vuole. E’ laureata da poco. Ha cominciato a
insegnare in ottobre e non se la cava benissimo. La vivo un po’ come allieva,
un po’ come figlia. Da quando ho perso la bambina che Päivi aspettava, visto
che l’hai ricordata tu, nella donna tendo a cercare una figlia. Mi manca molto
una figlia”.
Cornelia
aveva una trentina d’anni all’epoca, quattro o cinque meno di me.
Alta, troppo
magra e troppo bionda per i miei gusti. Però mi piaceva il suo sguardo
intelligente. Poi parlava umanamente, precisamente e concretamente, non in modo
astratto e generico come fanno i più cui niente sta a cuore davvero. Nel
comportamento manifestava una naturalezza signorile, priva di quell’artificio pretensioso
che è caratteristico dell’eterna plebe.
Conclusi
dicendo che ero in pensiero, come amante, non come maestro, né come padre:
soffrivo perché non ricevevo posta.
Cornelia
ascoltava e mi guardava con attenzione. Tacque un momento, poi mi domandò: “è
buona?”
“Spero di
sì, ma non ne sono sicuro. Adesso so solo che non mi scrive e con il suo
silenzio mi causa dolore ogni giorno. Io poi ne soffro al di là del normale:
come non vedo arrivare la posta che aspetto, sento riaprirsi l’antica ferita
che senza accorgersene mi infliggeva mia madre quando in agosto mi affidava a
sua sorella Giulia la quale da Pesaro mi portava lontano, a Moena, in Val di
Fassa, nel Trentino, dove ogni giorno aspettavo dalla mamma lettere e cartoline
che non arrivavano mai. Allora pregavo Dio che la inducesse a scrivermi, e
andavo a osservare per decine di minuti l’acqua dell’Avisio che scorreva sui
sassi lisci e rotondi. Aspettavo di vedere i salti nell’aria, i tuffi a
rovescio delle trote picchiettate di rosa. Li prendevo come segni buoni.
Passavo il tempo così perché non avevo amici a Moena negli anni Cinquanta”.
“Lascia
perdere tua madre, la zia, la tua infanzia e le tue nevrosi antiche. Credi
ancora di essere una specie di Edipo, il bambino che sopravvive alle
malevolenze parentali, poi da adulto diventa un eroe che tuttavia porta i segni
delle ferite ricevute da piccolo? La posta può avere ritardo, comunque non deve
determinare il tuo stato d’animo. Almeno finché non arriva qualche notizia
precisa. Cerca piuttosto di capire se la tua compagna è buona, e se lo è ,
tiella da conto, Gianni; non chiederti quanto sia bella o ricca, o quanto
prestigio ti dia, o quanto assomigli o non assomigli a tua madre. Tu devi
invece capire, con il cuore prima che con il cervello, quanto sia sensibile,
onesta e generosa. La persona buona possiede tutte le altre qualità di cui tu hai
bisogno”.
Tali parole
alleviarono il mio dolore poiché erano autentiche, vere e intelligenti più dei
miei pensieri penosi.
Perciò la
guardai con fiducia piena, con ammirazione, e le dissi: “ Vai avanti Cornelia,
ti prego parlami ancora di questo: le tue parole mi curano l’anima”.
Pesaro, 21
agosto 2020, ore 17, 15 giovanni ghiselli
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