Altre
riflessioni. La corsa nello stadio
In
quel luogo dove il destino mi aveva inviato già tante volte non ci
si odiava siccome lì prevaleva la concordia, al punto che perfino
l’antipatia contrastava con l’atmosfera e appariva come una
nefandezza agli occhi dei più.
Siamo
dunque arrivati al 31 luglio del 1979. Un forte risucchio, del fato
stesso, mi riporta a Debrecen, a quell’estate quando preparavo il
futuro con il meditare, impiegando la mente come ventre di donna,
perché nascesse qualche cosa di nuovo, attraverso il pensiero
fecondatore.
Di
mettere al mondo un figlio di carne con quella compagna malsicura non
era il caso. Il compito era un altro: assecondare il demone mio, il
destino stesso, dargli quanto gli dovevo con disciplina e con fatica,
magari una fatica gioiosa, altrimenti sarei rimasto un
guscio vuoto, uno spettro sia pure abbronzato, un’ esteriorità
logora, priva di significato.
Ora
che sono vecchio mi ritrovo con l’io guardingo verso il passato,
dove cerco prefigurazioni del presente e del futuro in modo da
formare una visione coerente, un’immagine non deforme, tale che
giustifichi la mia esistenza dandole un senso o per lo meno un verso.
Quando affondiamo le radici nel tempo, carichiamo la
nostra vita di significati.
Quel
giorno dunque facevo raffronti con le tre finlandesi del mio passato
amoroso e pensavo che dopo di loro non avevo più incontrato donne
tanto fini, espressive, ricche di senso negli sguardi e nelle parole
piene di coscienza, cultura, serietà e pure ironia. Helena dal seno
profondo, dalle bianche braccia, era bruna, bella e sicura di sé, in
un certo senso maestosa; Kaisa dagli occhi azzurri, era
piccola e bella, colta e appassionata; Päivi era splendidamente
chiomata di rosso, istruita, intelligente e decisa. Poi si rivelò
una bipede leonessa.
Ciascuna
di loro significava anche senza parlare. Quando dicevano parole
conte, ognuna di queste aggiungeva un’idea e faceva pensare.
Perdute loro, prima di Ifigenia, avevo trovato misere cose, gusci
vuoti appunto e avevo rischiato di svuotarmi anche io di ogni
sostanza buona. L’involucro di Ifigenia era ancora
chiuso. Dentro poteva trovarsi muffa o gheriglio.
Verso
sera, sazio di ricordi e pensieri, andai a correre i 5000 metri allo
stadio, pregando il dio sole al tramonto di farmi capire qualcosa.
Mi
chiedevo se l’ultima amante che non scriveva lettere, non
telegrafava, non si faceva trovare al telefono, pensasse purtuttavia
che il nostro rapporto era favorevole allo sviluppo di entrambi, che
la disciplina, la tenacia, il metodo mio potevano dare un ritmo,
segnare una via ai suoi impulsi forti, però
intermittenti, sporadicamente anche geniali, ma poco
chiari e quasi sempre privi di uno scopo adeguato alle capacità,
le sue e le mie.
Tentavo
la prova dei cinque chilometri in meno di venti minuti.
Correvo
impiegando gran parte della mia lena. Il respiro si
affrettava e
aggiungeva
lucidità alla mente. Già dopo il primo chilometro
percorso in 3 minuti e 55, pensavo che quanto stavo facendo in quella
vacanza estiva a quasi trentacinque anni era parte del culto dovuto a
me stesso se volevo piacere alla vita che mi piaceva molto, più di
ogni cosa. Correvo metodicamente, leggevo, non perdevo tempo con
persone insipide, insignificanti. Volevo potenziarmi nel corpo e
nella mente. Dovevo coltivare dentro di me il seme vitale, farlo
crescere. In favore della vita dico che mi avrebbe contraccambiato
attraverso una donna della mia levatura.
Intanto
l’amabile luce dell’infaticabile dio dal volto gioioso illuminava
la sera. A metà percorso mi domandai dove volevo arrivare. Una volta
Ifigenia, che mi aveva osservato compiaciuta mentre correvo, disse
che avevo l’aria di inseguire l’immortalità. No, non volevo
diventare un dio, non potevo, ma un educatore di grande formato sì,
un suscitatore di energie mentali e morali nei ragazzi,
talora bellicosi, maneschi, disordinati, e nelle ragazze
più sensibili, intricate e riflessive. Più simili a me tutto
sommato. Una volta Claudio disse “gianni non è un uomo, è una
donna, ha la sensibilità di una femmina”. Gli chiesi come mai
allora mi piacessero tanto le donne. “Che ne so - fece lui - sarai
lesbica!”.
Replicai
che, senza pretese, volevo solo conferire al divenire il
carattere dell’essere. “Battuta da femmina intellettuale”,
replicò lui, “la più insopportabile di tutte”.
La
strenua danza in onore del dio al tramonto era intanto arrivata a
metà in meno di dieci minuti.
Pesaro
20 agosto 2020, ore 18, 10. giovanni ghiselli
p.
s.
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