giovedì 20 agosto 2020

Debrecen 1979. 24. Altre riflessioni. La corsa nello stadio

Altre riflessioni. La corsa nello stadio

In quel luogo dove il destino mi aveva inviato già tante volte non ci si odiava siccome lì prevaleva la concordia, al punto che perfino l’antipatia contrastava con l’atmosfera e appariva come una nefandezza agli occhi dei più.
Siamo dunque arrivati al 31 luglio del 1979. Un forte risucchio, del fato stesso, mi riporta a Debrecen, a quell’estate quando preparavo il futuro con il meditare, impiegando la mente come ventre di donna, perché nascesse qualche cosa di nuovo, attraverso il pensiero fecondatore.
Di mettere al mondo un figlio di carne con quella compagna malsicura non era il caso. Il compito era un altro: assecondare il demone mio, il destino stesso, dargli quanto gli dovevo con disciplina e con fatica, magari una fatica gioiosa,  altrimenti sarei rimasto un guscio vuoto, uno spettro sia pure abbronzato, un’ esteriorità logora, priva di significato.
Ora che sono vecchio mi ritrovo con l’io guardingo verso il passato, dove cerco prefigurazioni del presente e del futuro in modo da formare una visione coerente, un’immagine non deforme, tale che giustifichi la mia esistenza dandole un senso o per lo meno un verso. Quando affondiamo le radici nel tempo, carichiamo  la nostra vita di significati.

Quel giorno dunque facevo raffronti con le tre finlandesi del mio passato amoroso e pensavo che dopo di loro non avevo più incontrato donne tanto fini, espressive, ricche di senso negli sguardi e nelle parole piene di coscienza, cultura, serietà e pure ironia. Helena dal seno profondo, dalle bianche braccia, era bruna, bella e sicura di sé, in un certo senso maestosa; Kaisa dagli occhi azzurri,  era piccola e bella, colta e appassionata; Päivi era splendidamente chiomata di rosso, istruita, intelligente e decisa. Poi si rivelò una bipede leonessa.
 Ciascuna di loro significava anche senza parlare. Quando dicevano parole conte, ognuna di queste aggiungeva un’idea e faceva pensare. Perdute loro, prima di Ifigenia, avevo trovato misere cose, gusci vuoti appunto e avevo rischiato di svuotarmi anche io di ogni sostanza buona.  L’involucro di Ifigenia era ancora chiuso. Dentro poteva trovarsi muffa o gheriglio.

Verso sera, sazio di ricordi e pensieri, andai a correre i 5000 metri allo stadio, pregando il dio sole al tramonto di farmi capire qualcosa.
Mi chiedevo se l’ultima amante che non scriveva lettere, non telegrafava, non si faceva trovare al telefono, pensasse purtuttavia che il nostro rapporto era favorevole allo sviluppo di entrambi, che la disciplina, la tenacia, il metodo mio potevano dare un ritmo, segnare una via ai suoi impulsi forti, però intermittenti,  sporadicamente anche geniali, ma poco chiari e quasi sempre privi di uno scopo adeguato alle capacità, le  sue e le mie.
  Tentavo la prova dei cinque chilometri in meno di venti minuti.
 Correvo impiegando gran parte della mia lena.  Il respiro si affrettava e
 aggiungeva lucidità alla mente.  Già dopo il primo chilometro percorso in 3 minuti e 55, pensavo che quanto stavo facendo in quella vacanza estiva a quasi trentacinque anni era parte del culto dovuto a me stesso se volevo piacere alla vita che mi piaceva molto, più di ogni cosa. Correvo metodicamente, leggevo, non perdevo tempo con persone insipide, insignificanti. Volevo potenziarmi nel corpo e nella mente. Dovevo coltivare dentro di me il seme vitale, farlo crescere. In favore della vita dico che mi avrebbe contraccambiato attraverso una donna della mia levatura.
Intanto l’amabile luce dell’infaticabile dio dal volto gioioso illuminava la sera. A metà percorso mi domandai dove volevo arrivare. Una volta Ifigenia, che mi aveva osservato compiaciuta mentre correvo, disse che avevo l’aria di inseguire l’immortalità. No, non volevo diventare un dio, non potevo, ma un educatore di grande formato sì, un suscitatore di energie mentali e morali nei ragazzi, talora  bellicosi, maneschi, disordinati, e nelle ragazze più sensibili, intricate e riflessive. Più simili a me tutto sommato. Una volta Claudio disse “gianni non è un uomo, è una donna, ha la sensibilità di una femmina”. Gli chiesi come mai allora mi piacessero tanto le donne. “Che ne so - fece lui - sarai lesbica!”.   
Replicai che, senza pretese, volevo solo  conferire al divenire il carattere dell’essere. “Battuta da femmina intellettuale”, replicò lui, “la più insopportabile di tutte”.
La strenua danza in onore del dio al tramonto era intanto arrivata a metà in meno di dieci minuti. 

Pesaro 20 agosto 2020, ore 18, 10. giovanni ghiselli

p. s.
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