La dea Anankē - Necessità |
Il
potere supremo della Necessità dalle mani d’acciaio
Quei
giovani contenti, festivi, e pure educati, suscitavano la mia
simpatia, oramai quasi paterna. Sentivo anche una certa malinconia
siccome non ero più capace di provare le scosse emotive che mi
avevano dato negli anni passati le tre finlandesi di cui ho
raccontato le storie: la forza dei miei sensi amorosi era tutta
impiegata nel tentativo di risolvere gli enigmi di quella sfinge
lontana che mi occupava l’anima intera: le sue parole ambigue, i
suoi ostinati silenzi mi impedivano di interessarmi ad altre persone.
Pensavo
che Ifigenia equivalesse alla Necessità che ha la forza suprema,
l’Ananche sulla quale neppure Zeus può averla vinta. Senza
quella donna in quel tempo mi sarei trovato nel vuoto di pensieri
concreti, di desideri forti, di impegni reali. Gli amori mestruali
con le straniere, o con le italiane in vacanza, non mi interessavano
più. Nemmeno la luce della luna che faceva brillare i capelli
odorosi delle ragazze, rischiarava le alte chiome delle querce
antiche e illuminava i rami contorti degli alberi strani mi
commuovevano, né mi facevano sentire vivo come il pensiero di
Ifigenia che mi invadeva l’anima. Se lei mi avesse spedito tre
righe, povero me, mi avrebbe reso felice più di una vittoria
olimpica o di un trofeo letterario. Non ero ancora abbastanza pratico
della vita per avere capito che se volevo essere privo di turbamenti
non dovevo fare dipendere il mio benessere dal favore di un’ altra
persona, chiunque, qualunque ella sia. Ora lo so. Sentivo solo che in
ogni maniera, spogliandosi davanti a me, certo, ma anche non
scrivendomi e non facendosi trovare in casa, quella donna
mi emozionava e disannoiava. Perciò mi sforzai di pensare che non mi
stesse tradendo, che presto, la mattina seguente, avrei ricevuto la
posta agognata. Del resto, anche se mentiva, tradiva, non mi
scriveva, nell’anno di grazia 1979, era lei, solo lei,
la persona che poteva farmi procedere, metodicamente, sulla mia
via[1].
Se non fosse stato così, non ne avrei sofferto la mancanza in quella
maniera. Pensavo pure, e questo realisticamente, che Ifigenia, anche
se, come probabile, non mi amava, non mi avrebbe lasciato, siccome
nel suo opportunismo capiva che il mio bisogno di lei era anche una
necessità di darle una mano della quale la giovane supplente aveva
necessità. E ne faceva gran conto. Con tali pensieri cercavo di
smaltire la pena. Mi vennero in mente i momenti migliori dei mesi
belli passati insieme, quando la gioia incrementava e potenziava le
vite nostre, reciprocamente. Non dovevo rinnegare tanta grazia
ricevuta da quella creatura e da Dio, chiunque egli fosse, per una
lettera che ritardava. Non volevo, e non potevo drizzare la prua
della mia vita contro l’onda del fato.
“Sii
nobile - mi dissi alla fine di tanto rimuginare - ama il demone tuo.
Tu sei il tuo destino. E lei ne fa parte. Non puoi non amare il tuo
fato se ami te stesso. A un certo punto non ci saranno più dubbi e
allora sarà tutto finito, ma ora i giochi non sono chiusi per
sempre. Tu hai ancora bisogno di lei e lei di te, altrimenti ti
avrebbe già liquidato, come fece con il suo ex quando ti ha
conosciuto”.
Intanto,
mentre i giovani fusi per herbam , raggruppati per
lingua e nazione, cantavano a turno le canzoni dei loro flolclori
nazionali e l’amabile luna seminava una rugiada di perle sui
capelli, sulle braccia e sulle gambe abbronzate delle fanciulle, io
avevo annientato ogni angoscia autorizzando il mio istinto con
l’esperienza, con l’intelligenza e con il doloroso amore
della vita, la mia e quella dell’universo.
giovanni
ghiselli, detto gianni, il poverello di Pesaro. 20 agosto 2020 ore 9
ricco
però di questo
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