lunedì 24 agosto 2020

Introduzione a Lucano. XXV parte del poema "Pharsalia". (IV, vv. 391-661). La cura di Anteo

Marte

Introduzione a Lucano. XXVI parte del poema "Pharsalia". (IV, vv. 391 - 661). La cura di Anteo

Cesare ha vinto ma gli restano tante battaglie e deve vincere tutte le volte - vincendum totiens (Pharsalia, IV, 391).

Pure a chi ha fruito di un Marte favorevole
tot dubiae restant acies, tot in orbe labores
ut numquam fortuna labet successibus anceps (390 - 391)
restano tante battaglie incerte, tante fatiche in rotazione, perché la fortuna a doppio taglio nei successi non scivoli mai via.
Bisogna versare sangue in tutte le terre - terras fundendus in omnis - est cruor et Caesar per tot sua fata sequendus (391 - 392). Bisognava seguire Cesare attraverso i suoi tanti destini.
Mentre ondeggiava la rovina del mondo era beato chi sapeva dove potersi posare, cioè i pompeiani che avevano deposto le armi.
Attendevano quegli uomini che avevano concluso la guerra coniunx natique rudes et sordida tecta e sua terra recipit non deductos colonos (396 - 397) la moglie, figli non sofisticati case modeste e una terra loro, non dove fossero stati mandati come coloni. Questi sono gli unici soldati cui la Fortuna ha rimesso le preoccupazioni: non hanno bisogno di alcun favor: Cesare li ha perdonati, Pompeo li ha comandati. Non devono parteggiare più per nessuno.

Intanto nella costa illirica Antonio viene assesiato da Ottavio, ammiraglio pompeiano. Gli assediati avevano carenza di cibo; la campagna era già stato rosa dai denti infelici - attonso miseris iam dentibus arvo (413) attondeo, toso, bruco.
Alcuni assediati cercano di sfuggire alla stretta con due zattere.
Ottavio, il pompeiano, li scorge da una torre ma aspetta ad attaccarli come il cacciatore trattiene clamosa ora i ceffi che abbaiano dell’agile molosso.
Vulteio, ufficiale cesariano, incoraggia i suoi sulla zattera rimasta impigliata invogliandoli a morire gloriosamente: “cupias quodcumque necesse est” 487
Vuole dare lo spettacolo di una bella morte ai due eserciti che li vedono dalla terra. Dent fata recessum - emittantque licet, vitare instantia nolim (514 - 515) anche se i fati dessero un rifugio dove lasciarci andare, io non vorrei evitare quanto incombe. Solo a chi ha il destino di morte addosso è concesso agnoscere felix esse mori che è cosa beata il morire. Agli altri gli dèi lo nascondono ut vivere durent (519). Invogliàti a combattere ora desideravano la luce del giorno del combattimento. Era giugno: la nox parva mentre la lux altissima (528), la luce del sole era la più alta dell’anno. 

Era giugno e il cielo non era pigro a volgere gli astri nel mare.
I cesariani, rimasti in pochi, pure continuano a combattere senza risparmiarsi: tanta est fiducia mortis 538, tanto grande è la fiducia nella morte.
Quando sono oramai sopraffatti, Vulteio chiede ai suoi soldati di ucciderlo.
Loda tutti quelli che lo hanno colpito, sed eum cui vulnera prima - debebat grato moriens interficit ictu (546 - 547).

Gli altri si ammazzano tra loro. Questa strage che porta la guerra civile all’interno dello stesso partito è paragonata a quella degli Sparti tebani nati dai denti del drago seminati da Cadmo, cattivo augurio per i fratelli Tebani - dirum thebanis fratribus omen - 551. Allud, ovviamente, a Eteocle e Polinice.

Altrettanto avvenne nei campi della Faside in seguito alle erbe ancora inesperte impiegate da Medea per questo nefas del quale ella stessa ebbe paura - expavit Medea nefas” 556.
I giovani cadono dopo avere pattuito la morte reciproca - sic mutua pacti fata cadunt iuvenes - 556 - 557
Ammazzavano con un colpo solo: pietas ferientibus una - non repetisse fuit (565 - 566) unica pietas per chi colpiva fu di non dovere ripetere il colpo.
La zattera è già carica della strage insanguinata - ratis cumulată strage cruentā (570 - 57)
I cesariani muoiono per il loro capo che vuole farsi tiranno –ignorantque datos, ne quisquam serviat, enses - (579), non sanno che le spade vengono date affinché nessuno sia servo

Il racconto poi si sposta in Africa Libycis in arvis (582). Curione [1] - cesariano - pone l’accampamento vicino a Cartagine, luoghi quae non vana vetustas - l’antichità veritiera - vocat Antaei regna (590). E’ la zona dove si svolse la battaglia di Zama.

Un abitante della zona spiega la genesi del nome di questa terra.
Il mito di Anteo
La Terra Tellus nondum effeta non ancora spossata dai parti post genitos Gigantas 594 concepì un feto terrificante nelle caverne libiche. Non lo mandò a combattere gli dèi con gli altri giganti Tifone, Tizio e Briareo.
Inoltre gli diede la facoltà di rinvigorirsi quando era sfinito, toccando lei, la Terra stessa Cum tetigere parentem, - iam defecta vigent renovato robore membra (599 - 600).
Questo energumeno mangiava i leoni e dormiva per terra (è un incesto!)”viresque resūmit - in nuda tellūre iacens - . 605.
Ammazzava contadini e marinai invictus robore cunctis, - quamvis staret, erat (608 - 609) era invincibile per tutti grazie alla sua forza, anche se restava in piedi. Ma Tandem vulgata cruenti - fama mali (609 - 610) del delinquente sanguinario, attirò sulle spiagge libiche Ercole terras monstris aequorque levantem 610 che liberava terre e il mare dai mostri. Ercole secondo l’uso di Olimpia unse di olio le membra, Anteo sparse sabbia sul proprio corpo. Anteo lottando si affaticò molto creber anhelitus illi - prodidit et gelidus fesso de corpore sudor (622 - 623).
 Ercole dunque se ne accorse e stesee Anteo ma questo ripresee forza. Conflixere pares, Tellūris viribus ille, - ille suis (636 - 637)
Ora Ercole è in difficoltà con gioia di Giunone, la saeva noverca (637) crudele matrigna. Anteo ogni tanto si getta a terra sponte cadit maiorque accepto robore surgit (642). La madre gli soffia dentro energie. Ercole capisce e solleva Anteo dalla terra e il petto del gigante è compresso dal triste gelo della morte iam pectora pigro - stricta gelu (652 - 653). Da allora l’antichità amante delle favole famosa vetustas, custode dei tempi passati aevi veteris custos chiamò la regione Antaei regna (590).
Ma Scipione rinominò il luogo con la vittoria romana su Annibale, conclude il racconto l’indigeno il rudis incola (592)

Nel romanzo di Thomas Mann Carlotta a Weimar (1939)
Goethe pensa di sé di essere l’individuo nel quale le più pericolose tendenze sono state superate e trasfigurate, “uno appena possibile. Il genio è sempre uno appena possibile.
Provi uno ad imitarmi senza rompersi il collo! L’originalità è celibato dello spirito, infeconda follia. Io utilizzo e valorizzo quanto leggo. Voglio la massima influenzabilità personale.
D’altra parte il topo di biblioteca dovrebbe sentire sotto le piante dei piedi la terra nuda. La civilizzazione è rovinosa senza la compensazione di Anteo: una vita sana e attiva in piena natura. Senza questa compensazione c’è la malattia.

Anche Seneca disapprova un approccio devitalizzante ai testi classici: nel De brevitate vitae[2] il filosofo sconsiglia di accorciare la vita perdendo tempo in occupazioni che non giovano allo spirito: "Graecorum iste morbus fuit quaerere quem numerum Ulixes remigum habuisset, prior scripta esset Ilias an Odyssia, praeterea an eiusdem esset auctoris, alia deinceps huius notae, quae sive contineas nihil tacitam conscientiam iuvant, sive proferas non doctior videaris sed molestior" (13) questa fu una malattia dei Greci, cercare quale numero di rematori avesse avuto Ulisse, se sia stata scritta prima l'Iliade o l'Odissea, inoltre se siano del medesimo autore, e successivamente altre notizie di questo tipo, nozioni che se le tieni per te non giovano per niente al puro fatto di saperle, se le tiri fuori, non sembri più dotto ma più pedante.

 Il classicista Quintiliano vuole escludere l'ombra, la solitudine e la muffa dall'educazione del ragazzo che deve diventare un buon oratore:"Ante omnia futurus orator, cui in maxima celebritate et in media rei publicae luce vivendum est, adsuescat iam a tenero non reformidare homines neque illa solitaria et velut umbratica vita pallescere. Excitanda mens est et adtollenda semper est, quae in eiusmodi secretis aut languescit et quendam velut in opaco situm ducit, aut contra tumescit inani persuasione; necesse est enim nimium tribuat sibi, qui se nemini comparat "[3] , prima di tutto il futuro oratore che deve vivere frequentando moltissime persone, e in mezzo alla luce della politica, si abitui fin da ragazzo a non temere gli uomini e a non impallidire in quella vita solitaria e come umbratile. Va tenuta sveglia e sempre innalzata la mente che in solitudini di tal fatta o si infiacchisce, e nella tenebra prende un certo puzzo di muffa, o al contrario si gonfia di vuoti convincimenti: è infatti inevitabile che attribuisca troppo a se stesso chi non si confronta con nessuno.
Il maestro pallido, ossia tedioso, desta una diffidenza o addirittura una ripugnanza istintiva, anche fisica nel giovane discepolo.

Fidippide, il figlio di Strepsiade, rifiuta i cattivi educatori, i maestri lazzaroni della scuola di Socrate anche per il loro colore giallastro, malsano:"aijboi'ponhroiv goi\da. tou;" ajlazovna" - tou;" wjcriw'nta" tou;" ajnupodhvtou" levgei" (AristofaneNuvole, vv. 102 - 103), puah!, quei furfanti, ho capito. Tu dici quei ciarlatani, quelle facce pallide, gli scalzi. 

Infine rivediamo la prefazione dello Zarathustra [4]: “Vi scongiuro, fratelli, rimanetemi fedeli alla terra fratelli miei (bleibt mir der Erde teuer, meine Brüder) e non credete a quelli che vi parlano di sovraterrene speranze. Lo sappiate o no: costoro esercitano il veneficio. Dispregiatori della vita essi sono, moribondi e avvelenatori essi stessi. Un tempo il sacrilegio contro Dio era il massimo sacrilegio, ma Dio è morto, e così sono morti anche tutti questi sacrileghi. Commettere il sacrilegio contro la terra, questa è oggi la cosa più orribile, e apprezzare le viscere dell’imperscrutabile più del senso della terra”.




[1] Curione è laetatus dal racconto Pharsalia, IV, 661
[2] Del 49 ca d. C. La brevità della vita umana ha dato parecchio da dire agli scrittori e ai loro personaggi:"Scostatevi, vacche, che la vita è breve", gridava Aureliano secondo in Cent'anni di solitudine di G. G. Marquez (p. 202).
[3] Institutio oratoria I, 2, 18.
[4] Terminato nel 1885

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