Marte |
Introduzione a Lucano. XXVI parte del
poema "Pharsalia". (IV, vv. 391 - 661). La cura di Anteo
Cesare ha
vinto ma gli restano tante battaglie e deve vincere tutte le volte - vincendum
totiens (Pharsalia, IV, 391).
Pure a chi
ha fruito di un Marte favorevole
tot dubiae
restant acies, tot in orbe labores
ut numquam
fortuna labet successibus anceps (390 - 391)
restano
tante battaglie incerte, tante fatiche in rotazione, perché la fortuna a doppio
taglio nei successi non scivoli mai via.
Bisogna
versare sangue in tutte le terre - terras fundendus in omnis - est cruor et
Caesar per tot sua fata sequendus (391 - 392). Bisognava seguire Cesare
attraverso i suoi tanti destini.
Mentre
ondeggiava la rovina del mondo era beato chi sapeva dove potersi posare, cioè i
pompeiani che avevano deposto le armi.
Attendevano
quegli uomini che avevano concluso la guerra coniunx natique rudes et
sordida tecta e sua terra recipit non deductos colonos (396 - 397) la
moglie, figli non sofisticati case modeste e una terra loro, non dove fossero
stati mandati come coloni. Questi sono gli unici soldati cui la Fortuna ha
rimesso le preoccupazioni: non hanno bisogno di alcun favor: Cesare
li ha perdonati, Pompeo li ha comandati. Non devono parteggiare più per
nessuno.
Intanto nella
costa illirica Antonio viene assesiato da Ottavio, ammiraglio pompeiano. Gli
assediati avevano carenza di cibo; la campagna era già stato rosa dai denti
infelici - attonso miseris iam dentibus arvo (413) attondeo,
toso, bruco.
Alcuni
assediati cercano di sfuggire alla stretta con due zattere.
Ottavio, il
pompeiano, li scorge da una torre ma aspetta ad attaccarli come il cacciatore
trattiene clamosa ora i ceffi che abbaiano dell’agile molosso.
Vulteio,
ufficiale cesariano, incoraggia i suoi sulla zattera rimasta impigliata
invogliandoli a morire gloriosamente: “cupias quodcumque necesse est”
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Vuole dare
lo spettacolo di una bella morte ai due eserciti che li vedono dalla
terra. Dent fata recessum - emittantque licet, vitare instantia nolim (514
- 515) anche se i fati dessero un rifugio dove lasciarci andare, io non vorrei
evitare quanto incombe. Solo a chi ha il destino di morte addosso è concesso
agnoscere felix esse mori che è cosa beata il morire. Agli
altri gli dèi lo nascondono ut vivere durent (519). Invogliàti
a combattere ora desideravano la luce del giorno del combattimento. Era giugno:
la nox parva mentre la lux altissima (528),
la luce del sole era la più alta dell’anno.
Era giugno e
il cielo non era pigro a volgere gli astri nel mare.
I cesariani,
rimasti in pochi, pure continuano a combattere senza risparmiarsi: tanta
est fiducia mortis 538, tanto grande è la fiducia nella morte.
Quando sono
oramai sopraffatti, Vulteio chiede ai suoi soldati di ucciderlo.
Loda tutti
quelli che lo hanno colpito, sed eum cui vulnera prima - debebat grato
moriens interficit ictu (546 - 547).
Gli altri si
ammazzano tra loro. Questa strage che porta la guerra civile all’interno dello
stesso partito è paragonata a quella degli Sparti tebani nati dai denti del
drago seminati da Cadmo, cattivo augurio per i fratelli Tebani - dirum
thebanis fratribus omen - 551. Allud, ovviamente, a Eteocle e Polinice.
Altrettanto
avvenne nei campi della Faside in seguito alle erbe ancora inesperte impiegate
da Medea per questo nefas del quale ella stessa ebbe paura - expavit
Medea nefas” 556.
I giovani
cadono dopo avere pattuito la morte reciproca - sic mutua pacti fata cadunt
iuvenes - 556 - 557
Ammazzavano
con un colpo solo: pietas ferientibus una - non repetisse fuit (565
- 566) unica pietas per chi colpiva fu di non dovere ripetere
il colpo.
La zattera è
già carica della strage insanguinata - ratis cumulată strage cruentā (570
- 57)
I cesariani
muoiono per il loro capo che vuole farsi tiranno –ignorantque datos, ne
quisquam serviat, enses - (579), non sanno che le spade vengono date
affinché nessuno sia servo
Il racconto
poi si sposta in Africa Libycis in arvis (582). Curione [1] - cesariano - pone l’accampamento vicino a Cartagine, luoghi quae non vana vetustas - l’antichità
veritiera - vocat Antaei regna (590). E’ la zona dove si svolse la
battaglia di Zama.
Un abitante
della zona spiega la genesi del nome di questa terra.
Il mito di Anteo
La
Terra Tellus nondum effeta non ancora spossata dai
parti post genitos Gigantas 594 concepì un feto terrificante
nelle caverne libiche. Non lo mandò a combattere gli dèi con gli altri giganti
Tifone, Tizio e Briareo.
Inoltre gli
diede la facoltà di rinvigorirsi quando era sfinito, toccando lei, la Terra
stessa Cum tetigere parentem, - iam defecta vigent renovato robore
membra (599 - 600).
Questo
energumeno mangiava i leoni e dormiva per terra (è un incesto!)”viresque
resūmit - in nuda tellūre iacens - . 605.
Ammazzava
contadini e marinai invictus robore cunctis, - quamvis staret, erat (608
- 609) era invincibile per tutti grazie alla sua forza, anche se restava in
piedi. Ma Tandem vulgata cruenti - fama mali (609 - 610) del
delinquente sanguinario, attirò sulle spiagge libiche Ercole terras
monstris aequorque levantem 610 che liberava terre e il mare dai
mostri. Ercole secondo l’uso di Olimpia unse di olio le membra, Anteo sparse
sabbia sul proprio corpo. Anteo lottando si affaticò molto creber
anhelitus illi - prodidit et gelidus fesso de corpore sudor (622 - 623).
Ercole
dunque se ne accorse e stesee Anteo ma questo ripresee forza. Conflixere
pares, Tellūris viribus ille, - ille suis (636 - 637)
Ora Ercole è
in difficoltà con gioia di Giunone, la saeva noverca (637)
crudele matrigna. Anteo ogni tanto si getta a terra sponte cadit
maiorque accepto robore surgit (642). La madre gli soffia dentro
energie. Ercole capisce e solleva Anteo dalla terra e il petto del gigante è
compresso dal triste gelo della morte iam pectora pigro - stricta
gelu (652 - 653). Da allora l’antichità amante delle favole famosa vetustas, custode
dei tempi passati aevi veteris custos chiamò la regione Antaei
regna (590).
Ma Scipione
rinominò il luogo con la vittoria romana su Annibale, conclude il racconto
l’indigeno il rudis incola (592)
Nel romanzo di Thomas Mann Carlotta a Weimar (1939)
Goethe pensa di sé di essere l’individuo nel quale le
più pericolose tendenze sono state superate e trasfigurate, “uno appena
possibile. Il genio è sempre uno
appena possibile.
Provi uno ad imitarmi senza rompersi il collo! L’originalità è celibato dello spirito,
infeconda follia. Io utilizzo e valorizzo quanto leggo. Voglio la
massima influenzabilità personale.
D’altra parte il topo di biblioteca dovrebbe sentire
sotto le piante dei piedi la terra nuda. La civilizzazione è rovinosa senza la compensazione di Anteo: una
vita sana e attiva in piena natura. Senza questa compensazione c’è la malattia.
Anche Seneca disapprova un approccio
devitalizzante ai testi classici: nel De brevitate vitae[2] il
filosofo sconsiglia di accorciare la vita perdendo tempo in occupazioni che non
giovano allo spirito: "Graecorum iste morbus fuit quaerere quem numerum
Ulixes remigum habuisset, prior scripta esset Ilias an Odyssia, praeterea an
eiusdem esset auctoris, alia deinceps huius notae, quae sive contineas nihil
tacitam conscientiam iuvant, sive proferas non doctior videaris sed molestior"
(13) questa fu una malattia dei Greci, cercare quale numero di rematori avesse
avuto Ulisse, se sia stata scritta prima l'Iliade o l'Odissea, inoltre se siano
del medesimo autore, e successivamente altre notizie di questo tipo, nozioni
che se le tieni per te non giovano per niente al puro fatto di saperle, se le
tiri fuori, non sembri più dotto ma più pedante.
Il classicista Quintiliano vuole escludere l'ombra, la solitudine e la muffa
dall'educazione del ragazzo che deve diventare un buon oratore:"Ante
omnia futurus orator, cui in maxima celebritate et in media rei publicae luce
vivendum est, adsuescat iam a tenero non reformidare homines neque illa
solitaria et velut umbratica vita pallescere. Excitanda mens est et adtollenda
semper est, quae in eiusmodi secretis aut languescit et quendam velut in opaco
situm ducit, aut contra tumescit inani persuasione; necesse est enim nimium
tribuat sibi, qui se nemini comparat "[3] , prima di tutto il futuro
oratore che deve vivere frequentando moltissime persone, e in mezzo alla luce
della politica, si abitui fin da ragazzo a non temere gli uomini e a non
impallidire in quella vita solitaria e come umbratile. Va tenuta sveglia e
sempre innalzata la mente che in solitudini di tal fatta o si infiacchisce, e
nella tenebra prende un certo puzzo di muffa, o al contrario si gonfia di vuoti
convincimenti: è infatti inevitabile che attribuisca troppo a se stesso chi non
si confronta con nessuno.
Il maestro pallido, ossia tedioso, desta una
diffidenza o addirittura una ripugnanza istintiva, anche fisica nel giovane
discepolo.
Fidippide, il figlio di Strepsiade, rifiuta i cattivi
educatori, i maestri lazzaroni della scuola di Socrate anche per il loro colore
giallastro, malsano:"aijboi', ponhroiv g' oi\da. tou;" ajlazovna" - tou;"
wjcriw'nta" tou;" ajnupodhvtou" levgei" (Aristofane, Nuvole, vv. 102 - 103), puah!, quei
furfanti, ho capito. Tu dici quei ciarlatani, quelle facce pallide, gli
scalzi.
Infine rivediamo la prefazione dello Zarathustra [4]: “Vi scongiuro, fratelli, rimanetemi fedeli alla terra fratelli miei (bleibt
mir der Erde teuer, meine Brüder) e non credete a quelli che vi
parlano di sovraterrene speranze. Lo sappiate o no: costoro esercitano il
veneficio. Dispregiatori della vita essi sono, moribondi e avvelenatori essi
stessi. Un tempo il sacrilegio contro Dio era il massimo sacrilegio, ma Dio è morto, e così sono morti
anche tutti questi sacrileghi. Commettere
il sacrilegio contro la terra, questa è oggi la cosa più orribile, e
apprezzare le viscere dell’imperscrutabile più del senso della terra”.
[2] Del 49 ca d. C. La brevità della vita umana ha dato parecchio da dire agli
scrittori e ai loro personaggi:"Scostatevi, vacche, che la vita è
breve", gridava Aureliano secondo in Cent'anni di solitudine di
G. G. Marquez (p. 202).
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