martedì 18 agosto 2020

Introduzione a Lucano. XXI parte del poema "Pharsalia". Terzo libro, vv. 298 - 449

Le rovine dell'antica Focea

Introduzione a Lucano. Ventunesima parte del poema "Pharsalia". Terzo libro, vv. 298 - 449

Cesare lascia le mura di Roma trepidante, e, a marce forzate - agmine rapto - , vola al di là delle Alpi nuvolose - nubiferam super evolat Alpem 299 - e attacca la focese Marsiglia che non segue lo svolgersi del destino ma rimane fedele ai patti non Graia levitate (302) non con leggerezza greca.
 Prima di combattere, i Massaliotici parlano 309.
Dicono che non vogliono combattere una guerra empia come quella civile.
Ferite maledette non vengano inflitte da mano alcuna - “tractentur vulnera nulla - sacra manu” (314 - 315).
A Cesare viene offerto di entrare ma senza gli armati. Sit locus exceptus sceleri (333) ci sia un luogo precluso al delitto.

Siamo esuli greci (da Focea, ma Lucano la confonde con la Focide), abbiamo mura di scarsa consistenza e riceviamo gloria solo dalla nostra lealtà. Siamo pronti a soffrire la sete e la fame fino al cannibalismo pur di non arrenderci.
Potremo fare come gli abitanti di Sagunto assediati dai Cartaginesi.

L'ultimo frammento del Satyricon ricorda esempi di cannibalismo nella storia forse per persuadere Gorgia, l'heredipeta con il nome del grande retore, esitante a trangugiare la carne del cadavere del vecchio Eumolpo:"quod si exemplis quoque vis probari consilium, Saguntini obsessi ab Hannibale humanas edere carnes nec hereditatem expectabant. Petelini idem fecerunt in ultima fame, nec quicquam aliud in hac epulatione captabant nisi tantum ut esurirent. cum esset Numantia a Scipione capta, inventae sunt matres quae liberorum suorum tenerent semesa in sinu corpora" (141, 9 - 11), che se tu vuoi che il mio progetto sia avvalorato da esempi, i Saguntini assediati da Annibale mangiarono carne umana e nemmeno si aspettavano un'eredità. Lo stesso fecero i Petelini ridotti alla fame estrema, e in questo banchetto non andavano a caccia di altro che di non morire di fame. Quando Numanzia fu presa da Scipione , si trovarono madri che tenevano in seno corpi mezzi rosicchiati dei propri figlioli.

Segue un’immagine truculenta di bambini che verranno scagliati in mezzo alle fiamme mittentur medios in ignes mentre cercano invano di tirare fuori il latte succhiando mammelle rinsecchite dalla fame - “trahentes - ubera sicca fame” ( Pharsalia, III, 351 - 352). Affronteranno anche loro tali orrori.

Cesare risponde che va di fretta però “Massiliam delere vacatGaudete cohortes” (360), il tempo di ditruggere Marsilia c’è. Questo è un dono del Destino. Per me è un danno non avere nemici hostes mihi deesse nocet, damnumque putamus (365). Imparerete in questo tempo che è il mio che nulla è più sicuro che partecipare alla guerra se duce sono io (372).
La città chiude le mura. Marsiglia è fiera di avere comunque costretto Cesare a una sosta.
Lucus erat (399) c’era un bosco sacro che racchiudeva un’aria oscura con rami intrecciati e nel profondo ombre gelide, esclusi i raggi del sole, et gelidas alte summotis solibus umbras 401
Questo lucus aveva are maledette per i sacrifici umani. Ne avevano paura anche i druidi. Su quei rami hanno orrore di posarsi gli uccelli “illis et volucres metuunt insistere ramis” 407.

Arriano ricorda Aorno (oltre l’Indukush, nel Kashmir) l’inaccessibile rocca “priva di uccelli” (a[orno~) che neppure Eracle aveva conquistato. Lo storiografo non sa se si tratti dell’Eracle di Tebe, di Tiro o dell’Egitto, ma pensa che l’eroe non vi sia mai giunto. Gli uomini quando compiono imprese difficili, accrescono le loro difficoltà (au[xousin aujtw`n th;n calepovthtaAnabasi di Alessandro 4, 28, 2) ed Eracle è stato menzionato ej~ kovmpon tou` lovgou per vantare l’impresa. Alessandro volle emulare Eracle. Quindi avanzò verso l’Indo cacciando elefanti.

Il sito rendeva attonita la gente della regione. Caverne profonde muggivano per terremoti secondo quanto si diceva - fama ferebat - saepe cavas motu terrae mugire cavernas - 418
Pavet ipse sacerdos - accessus (424 - 425)

Ma Cesare comanda che questa foresta cada ai colpi del ferro -
Hanc iubet immisso silvam procumbere ferro. I soldati però ne hanno timore Sed fortes tremuere manus motique verenda –maiestate loci (429 - 430)

Allora Cesare sferra il primo colpo: “credite me fecisse nefas” (437) credete pure che l’atto nefando l’ho commesso io.

Allora la paura dell’ira di Cesare superò quella dell’ira divina. I Galli piansero mentre i Marsigliesi esultarono pensando che l’atto sacrilego non sarebbe rimasto impunito. Ma gli dèi puniscono solo i colpevoli privi di potere: “servat multos fortuna nocentes - et tantum miseris irasci numina possunt” (448 - 449).

Il potere divino o umano che sia è sempre dalla parte di chi ce l’ha.
A chi ha, sarà dato.

giovanni ghiselli

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