Le rovine dell'antica Focea |
Introduzione a Lucano. Ventunesima parte del poema "Pharsalia". Terzo libro, vv. 298 - 449
Cesare lascia le mura di Roma
trepidante, e, a marce forzate - agmine rapto - , vola al di là delle
Alpi nuvolose - nubiferam super evolat Alpem 299 - e attacca la
focese Marsiglia che non segue lo svolgersi del destino ma rimane fedele ai
patti non
Graia levitate (302) non con leggerezza greca.
Prima di combattere, i
Massaliotici parlano 309.
Dicono che non vogliono combattere
una guerra empia come quella civile.
Ferite maledette non vengano
inflitte da mano alcuna - “tractentur vulnera
nulla - sacra manu” (314 - 315).
A Cesare viene offerto di entrare
ma senza gli armati. Sit locus exceptus sceleri (333) ci sia un
luogo precluso al delitto.
Siamo esuli greci (da Focea, ma
Lucano la confonde con la Focide), abbiamo mura di scarsa consistenza e
riceviamo gloria solo dalla nostra lealtà. Siamo pronti a soffrire la sete e la
fame fino al cannibalismo pur di non arrenderci.
Potremo fare come gli abitanti di
Sagunto assediati dai Cartaginesi.
L'ultimo frammento del Satyricon ricorda
esempi di cannibalismo nella storia forse per persuadere Gorgia, l'heredipeta
con il nome del grande retore, esitante a trangugiare la carne del cadavere del
vecchio Eumolpo:"quod si exemplis quoque vis probari consilium,
Saguntini obsessi ab Hannibale humanas edere carnes nec hereditatem
expectabant. Petelini idem fecerunt in ultima fame, nec quicquam aliud in hac
epulatione captabant nisi tantum ut esurirent. cum esset Numantia a Scipione
capta, inventae sunt matres quae liberorum suorum tenerent semesa in sinu
corpora" (141, 9 - 11), che se tu vuoi che il mio progetto sia
avvalorato da esempi, i Saguntini assediati da Annibale mangiarono carne umana
e nemmeno si aspettavano un'eredità. Lo stesso fecero i Petelini ridotti alla
fame estrema, e in questo banchetto non andavano a caccia di altro che di non
morire di fame. Quando Numanzia fu presa da Scipione , si trovarono madri che
tenevano in seno corpi mezzi rosicchiati dei propri figlioli.
Segue un’immagine truculenta di
bambini che verranno scagliati in mezzo alle fiamme mittentur medios in
ignes mentre cercano invano di tirare fuori il latte succhiando mammelle
rinsecchite dalla fame - “trahentes - ubera
sicca fame” ( Pharsalia, III,
351 - 352). Affronteranno anche loro tali orrori.
Cesare risponde che va di fretta
però “Massiliam delere
vacat. Gaudete cohortes” (360),
il tempo di ditruggere Marsilia c’è. Questo è un dono del Destino. Per me è un
danno non avere nemici hostes mihi deesse
nocet, damnumque putamus (365). Imparerete in questo tempo che è il
mio che nulla è più sicuro che partecipare alla guerra se duce sono io (372).
La città chiude le mura. Marsiglia
è fiera di avere comunque costretto Cesare a una sosta.
Lucus erat (399)
c’era un bosco sacro che racchiudeva un’aria oscura con rami intrecciati e nel
profondo ombre gelide, esclusi i raggi del sole, et gelidas alte
summotis solibus umbras 401
Questo lucus aveva are
maledette per i sacrifici umani. Ne avevano paura anche i druidi. Su quei rami
hanno orrore di posarsi gli uccelli “illis et volucres
metuunt insistere ramis” 407.
Arriano ricorda Aorno (oltre l’Indukush, nel Kashmir) l’inaccessibile
rocca “priva di uccelli” (a[orno~) che
neppure Eracle aveva conquistato. Lo storiografo non sa se si tratti
dell’Eracle di Tebe, di Tiro o dell’Egitto, ma pensa che l’eroe non vi sia mai
giunto. Gli uomini quando compiono imprese difficili, accrescono le loro
difficoltà (au[xousin aujtw`n th;n
calepovthta, Anabasi di Alessandro 4,
28, 2) ed Eracle è stato menzionato ej~
kovmpon tou` lovgou per vantare l’impresa. Alessandro volle emulare
Eracle. Quindi avanzò verso l’Indo cacciando elefanti.
Il sito rendeva attonita la gente
della regione. Caverne profonde muggivano per terremoti secondo quanto si
diceva - fama ferebat - saepe cavas motu terrae mugire cavernas -
418
Pavet ipse sacerdos -
accessus (424 - 425)
Ma Cesare comanda che questa
foresta cada ai colpi del ferro -
Hanc iubet immisso
silvam procumbere ferro. I soldati però ne hanno timore Sed fortes
tremuere manus motique verenda –maiestate loci (429 - 430)
Allora Cesare sferra il primo
colpo: “credite me
fecisse nefas” (437) credete pure che l’atto nefando l’ho commesso io.
Allora la paura dell’ira di Cesare
superò quella dell’ira divina. I Galli piansero mentre i Marsigliesi esultarono
pensando che l’atto sacrilego non sarebbe rimasto impunito. Ma gli dèi
puniscono solo i colpevoli privi di potere: “servat multos fortuna
nocentes - et tantum miseris irasci numina possunt” (448 - 449).
Il potere divino o umano che sia è
sempre dalla parte di chi ce l’ha.
A chi ha, sarà dato.
giovanni ghiselli
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