lunedì 17 agosto 2020

Debrecen 1979. 20. La seconda, tragica telefonata. Attraverso la sofferenza, la comprensione

La seconda, tragica telefonata. Attraverso la sofferenza, la comprensione

Lunedì 30 luglio 1979 fu una giornata dura assai, tuttavia si concluse con speranze e propositi buoni. Ricordo tale superamento delle difficoltà, a me stesso e a voi lettori, siccome non dimenticare la via dei progressi smarrita è un metodo buono per ritrovarla quando, fuorviati, percorriamo una strada che sembra condurre in precipitosi burroni o addirittura a quell’abisso orrido e immenso dove in ogni caso dovremo cadere. Il più tardi possibile però, e dopo avere imparato il massimo .
Exinde quid agi oporteat bonis successibus instruendi [1], quindi dovremo farci insegnare dai buoni successi quello che dovremo fare.
Quel giorno imparai una volta per tutte a redimere il dolore con l’intelligenza dello stesso dolore. Ne avrei avuto una conferma molto autorevole dalla parodo dell’Agamennone di Eschilo: tw'/ pavqei mavqo" (v. 177), attraverso la sofferenza, la comprensione.
Quel giorno dopo le ore di lingua ungherese ascoltate distracta mente, salii sul tram numero uno per cercare un altro contatto almeno telefonico con Ifigenia, La sua posta non era arrivata. Me l’avevano preannunziato alcuni conoscenti al corrente, poi l’avevo constatato io stesso, ego ipse oculis meis [2] scrutando meticolosamente e trepidamente ogni scompartimento della cassetta profonda, divisa per nazioni. Niente di niente per me. Nemmeno una cartolina. Da bambino, quando ero Moena con la zia Giulia, nelle estati dei primi anni Cinquanta aspettavo parole scritte da mia madre, invano, con dolore e con rimpianto della mamma stessa, del mare, del caldo di Pesaro.
Avevo bisogno di sentire la voce di Ifigenia per trarne qualche conforto più o meno sicuro, oppure di un’indubbia disperazione che mi consentisse di cercarmi un altro amore mensile lì a Debrecen dove Eros aveva riunito tanti ragazzi e ragazze di educazione accademica proprio perché si conoscessero. A vicenda e pure ciascuno se stesso, come era accaduto a me in estati felici e lontane.
Entrai nella posta centrale, piena come sempre, di gente non bella né lieta e chiesi la linea. Tra una cosa e l’altra si era fatta l’ora di pranzo, quando Ifigenia probabilmente era in casa a desinare con la madre, il padre e e la sorella minore.
 Rispose la padrona della casetta data in affitto.
Mi chiese di aspettare un momento, ma tornò dopo un tempo non breve.
Disse che gli ospiti non c’erano più: erano partiti la sera prima.
“E’ sicura? - domandai - Sapevo che sarebbero rimasti almeno fino a ferragosto”.
“Certo che sono sicura - rispose - qui non c’è più nessuno, sono andati via tutti”.
Uscii con la testa che mi girava.
Pensavo: “la padrona di casa è andata a chiedere della ragazza ai genitori; questi per non farle rispondere che la figlia era fuori, chissà dove e con chi, l’hanno pregata di dire che erano andati via tutti. Se fossero partiti davvero, l’affittuaria, che viveva nello stesso edificio, me l’avrebbe detto subito, senza bisogno di andare a informarsi.
Se l’assenza fosse stata presentabile decentemente, mi sarebbe stato detto dove era andata la mia compagna. Dunque colei era uscita con un uomo che sicuramente ci stava provando, o già ci aveva provato, non senza successo. Per essere bella era bella. Per consolarmi pensai: “formonsa est: et pavones [3]. Ricorro ancora al soccorso dei classici .
Dopo tale batosta non mi sentii di andare a desinare. Camminavo per il centro di Debrecen in balia di emozioni violente e di pensieri confusi.
La odiavo e amavo come mi succedeva da piccolo con mia madre.
Dai sentimenti contraddittori cercavo di ricavare pensieri utili a minimizzare la pena.
La amavo e la odiavo, ancora una volta, come mi accadeva da bambino con le donne di casa. Dai sentimenti contraddittori e rigurgitati da oscuri fondi antichi cercavo di ricavare pensieri nuovi e chiari.
 Dai fatti dolorosi dovevo risalire alle cause, o addirittura alle ajrcaiv, ai princìpi primi, come ero riuscito a passare dalle noiose tevcnai grammaticali del greco e del latino al pensiero degli autori, a sentire e assorbire la bellezza, la carne sempre viva dei loro testi. 
“Sai quanto potresti crescere meglio se avessi una compagna che ti infondesse stati d’animo buoni e coerenti! Ifigenia che cosa è? Una ragazza geniale e pura, un angelo venuto a elevarmi beandomi, oppure una donna corrotta da vizi turpi che la faranno precipitare nell’abisso del caos traendomi con sé?
O perfino l’una e l’altra cosa?
Mi venne in mente che pochi giorni prima della mia partenza per Debrecen mi aveva detto di essere stata corteggiata e fatta oggetto di proposte poco belle da un cavaliere del lavoro con tanto di Ferrari e yacht, un uomo attempato cui aveva replicato ridendo sonoramente.
“Una risata - avevo pensato - può significare anche consenso o almeno un prendere tempo, soprattutto se è seguita da un sorriso. Insomma non è un rifiuto deciso”. Mi vennero in mente alcune parole e note del Don Giovanni di Mozart - Da Ponte: “Resta, resta! E’ una cosa molto onesta: faccia il nostro cavaliere cavaliera ancora te”. Poi però mi era venuto in mente che alcuni anni prima, nel tempo di Kaisa, la figura del seduttore di donne altrui, di tutte le donne, era il mio ideale e il mio modello. Forse la conversione all’amore serio e monogamico non mi si confaceva. E probabilmente mi meritavo le corna secondo la legge del contrappasso: "rimane saldo, finché Zeus rimane nel trono/ che chi ha fatto subisca: infatti è legge divina"[4], ricordai.

giovanni ghiselli
continua


[1] Parole di Giuliano Auguso nelle Storie di Ammiano marcellino (XXI, 5, 6)
[2] Cfr. Petronio, Satyricon, 48.
[3] Cfr. Seneca, Ep. 76, 9.

[4] Eschilo, Agamennone, 1563 - 1565. Se lo volete in greco: “ mivnmnei, de; mivmnonto" ejn qrovnw/ Dio;" - paqei'n to;n e[rxanta: qesmion gavr”.

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