martedì 25 agosto 2020

Ivano Dionigi VI, "Parole che allungano la vita". 6


Michael Sweerts, Peste di Atene
83. Lucrezio lo aveva detto (p. 107)

La storia ama non solo sorprendere ma anche ripetersi.
Si vada alla peste di Atene (430 a. C.) descritta da Lucrezio nel finale del suo poema: vi si trovano consonanze raggelanti con i nostri giorni. Sotto scacco la medicina, allora mostrava tutta la sua incertezza e impotenza: silenziosa e timorosa esitava e balbettava (6, 1179: Mussabat tacito medicina timore)”.
Aggiungo  poche parole tradotte dal latino di Lucrezio.
Avvicinandosi la morte, un gelo saliva dalla pianta dei piedi, poi nari sottili, la punta del naso affilata, gli occhi infossati, le tempie scavate, la gelida pelle indurita, in ore iacens rictus  una fauce spalancata sovrapposta alla bocca.

Provo a indicare delle analogie tra quese pesti e quella di Tebe descritta in più di una tragedia
Si pensi  al rictus, la fauce del v. 94 dell’Oedipus di Seneca , le fauci spalancate e insanguinate della Sfinge, dal volto che ringhia (ringor).
Edipo rivendica il proprio coraggio davanti al mostro:
"Nec Sphinga coecis verba nectentem modis
fugi; cruentos vatis infandae tuli
rictus et albens ossibus sparsis solum" (v. 92 94)
io non sono fuggito davanti alla Sfinge che intricava le parole in ciechi stilemi, ho resistito davanti alle fauci spalancate e insanguinate della mostruosa profetessa e al suolo che biancheggiava di ossa sparpagliate.

Il virus ancora ancora attivo e deleterio si è presentato a cavallo di questi ultimi due anni con la stessa enigmaticità e violenza della Sfinge.
Dopo diversi mesi e decine di migliaia di vittime, girano tuttora interpretazioni contrastanti sulla carica più o meno distruttiva o addirittura sull’esistenza di questo flagello.

Nell’Edipo re di Sofocle (vv 130-131)  Creonte dice:"La Sfinge dal canto variopinto ci spingeva a guardare/quello che era lì tra i piedi, e a lasciare perdere quanto non si vedeva(tajfanh'). I negazionisti di oggi vedono solo l’economia.
Nella Parodo il Coro di vecchi tebani aggiunge “E la città muore senza tenere più conto di questi/e generazione prive di pietà –nhleva - giacciono/ a terra portatrici di morte senza compassione (vv180 – 182).

Torniamo a Dionigi: “Parimenti disarmata e svilita la religione (vv. 1276-1277: Nec iam religio divum nec numina magni/pendebantur): i templi stipati di cadaveri accatastati (vv. 1272-1273: omnia sancta deum delubra replerat/ corporibus mors) e impediti in città perfino i riti della sepoltura (v. 1278: nec mos ille sepulturae remanebat in urbe).

Tucidide racconta che molti si volsero a tipi di sepoltura indecenti per mancanza di oggetti necessari, dato il gran numero di morti: infatti prevenendo quelli che avevano ammucchiato la pira, alcuni ci mettevano sopra i propri  morti, poi davano fuoco, altri vi gettavano  un cadavere che già ardeva, quello di un loro parente. Il lato più terribile della malattia era lo scoraggiamento  deinovtaton de; panto;" h\n tou1 kakou'  h[ te ajqumiva  (II, 52, 4)

Quando il male divenne troppo violento (ujperbiazomevnou ga;r tou' kakou') ,  gli uomini caddero nell’incuria del santo e del divino ejς oligwrivan ejtravponto kai; iJerw̃n kai; oJsivwn oJmoivwς. (II, 52, 3).

Dionigi: “Anche la pietà parentale era messa a dura prova: quanti erano accorsi al capezzale dei loro cari, incorrevano nrl contagio (v. 1243: Qui fuerant autem praesto, contagibus ibant) e quanti si rifiutavano di portare soccorso morivano soli e abbandonati (vv. 1239 sgg. : Nam quicumque suos fugitabant visere ad aegros/ (…)/ poenibat (…) /desertos, opis expertis, incuria mactans).
 Lucrezio: la disgrazia improvvisa e la miseria indussero a orribili cose  "multaque <res> subita et paupertas horrida suasit./ Namque suos consanguineos aliena rogorum-insuper exstructa ingenti clamore locabant "[1]. Infatti con alto clamore gettavano i cadaveri dei congiunti morti sulle cataste erette per i roghi degli altri. Quindi appiccano il fuoco “multo cum sanguine saepe-rixantes” (De rerum natura, VI, 1285-1286) lottando in zuffe cruente
Nella peste di Egina descritta da Ovidio c'è lo stesso tipo di confusione per la medesima caduta di foedera:" Et iam reverentia nulla est,/deque rogis pugnant alienisque ignibus ardent" (Metamorfosi, VII, 609-610), non c'è più alcuna vergogna, lottano per i roghi, e ardono con i fuochi degli altri.

  Leggiamo infine la conclusione di Dionigi che viene ai nostri giorni: “Con i nostri occhi li abbiamo visti i medici supplire con la compassione alla carenza di terapie; le abbiamo viste le chiese diventate cimiteri, piazza San pietro deserta e il Papa, solo, a testimoniare non la potenza del rito ma la passione della croce; li abbiamo visti negli ospedali i mariti separati dalle mogli, i fratelli dai fratelli, gli amici dagli amici. E morire senza potere prendersi la mano e neppure salutarsi” (Parole che Allungano La Vita, p. 107)

giovanni ghiselli

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[1] De rerum natura, VI, 1282-1284.

2 commenti:

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