Michael Sweerts, Peste di Atene |
83.
Lucrezio lo aveva detto (p. 107)
“La
storia ama non solo sorprendere ma anche ripetersi.
Si
vada alla peste di Atene (430 a. C.) descritta da Lucrezio nel finale
del suo poema: vi si trovano consonanze raggelanti con i nostri
giorni. Sotto scacco la medicina, allora mostrava tutta la sua
incertezza e impotenza: silenziosa e timorosa esitava e balbettava
(6, 1179: Mussabat tacito medicina timore)”.
Aggiungo poche
parole tradotte dal latino di Lucrezio.
Avvicinandosi
la morte, un gelo saliva dalla pianta dei piedi, poi nari sottili, la
punta del naso affilata, gli occhi infossati, le tempie scavate, la
gelida pelle indurita, in ore iacens rictus una
fauce spalancata sovrapposta alla bocca.
Provo
a indicare delle analogie tra quese pesti e quella di Tebe descritta
in più di una tragedia
Si
pensi al rictus, la fauce del v. 94
dell’Oedipus di Seneca , le fauci spalancate e
insanguinate della Sfinge, dal volto che ringhia (ringor).
Edipo
rivendica il proprio coraggio davanti al mostro:
"Nec
Sphinga coecis verba nectentem modis
fugi;
cruentos vatis infandae tuli
rictus et
albens ossibus sparsis solum"
(v. 92 - 94)
io
non sono fuggito davanti alla Sfinge che
intricava le parole in ciechi stilemi, ho resistito davanti alle
fauci spalancate e insanguinate della mostruosa profetessa e al suolo
che biancheggiava di ossa sparpagliate.
Il
virus ancora ancora attivo e deleterio si è presentato a cavallo di
questi ultimi due anni con la stessa enigmaticità e violenza della
Sfinge.
Dopo
diversi mesi e decine di migliaia di vittime, girano tuttora
interpretazioni contrastanti sulla carica più o meno distruttiva o
addirittura sull’esistenza di questo flagello.
Nell’Edipo
re di Sofocle (vv 130-131) Creonte dice:"La
Sfinge dal canto variopinto ci spingeva a guardare/quello che era lì
tra i piedi, e a lasciare perdere quanto non si vedeva(tajfanh').
I negazionisti di oggi vedono solo l’economia.
Nella
Parodo il Coro di vecchi tebani aggiunge “E
la città muore senza tenere più conto di questi/e generazione prive
di pietà –nhleva
- giacciono/ a terra
portatrici di morte senza compassione (vv180 – 182).
Torniamo
a Dionigi: “Parimenti disarmata e svilita la religione (vv.
1276-1277: Nec iam religio divum nec numina
magni/pendebantur): i templi stipati di cadaveri accatastati (vv.
1272-1273: omnia sancta deum delubra replerat/ corporibus
mors) e impediti in città perfino i riti della sepoltura (v.
1278: nec mos ille sepulturae remanebat in urbe).
Tucidide racconta che molti si volsero a tipi di sepoltura indecenti per mancanza di oggetti necessari, dato il gran numero di morti: infatti prevenendo quelli che avevano ammucchiato la pira, alcuni ci mettevano sopra i propri morti, poi davano fuoco, altri vi gettavano un cadavere che già ardeva, quello di un loro parente. Il lato più terribile della malattia era lo scoraggiamento deinovtaton de; panto;" h\n tou1 kakou' h[ te ajqumiva (II, 52, 4)
Quando
il male divenne troppo violento (ujperbiazomevnou
ga;r tou' kakou') , gli uomini caddero nell’incuria
del santo e del divino ejς oligwrivan
ejtravponto kai; iJerw̃n
kai; oJsivwn oJmoivwς.
(II, 52, 3).
Dionigi:
“Anche la pietà parentale era messa a dura prova: quanti erano
accorsi al capezzale dei loro cari, incorrevano nrl contagio (v.
1243: Qui fuerant autem praesto, contagibus ibant) e
quanti si rifiutavano di portare soccorso morivano soli e abbandonati
(vv. 1239 sgg. : Nam quicumque suos fugitabant visere ad
aegros/ (…)/ poenibat (…) /desertos, opis expertis, incuria
mactans).
Lucrezio:
la disgrazia improvvisa e la miseria indussero a orribili
cose "multaque
<res> subita et paupertas horrida suasit./ Namque suos
consanguineos aliena rogorum-insuper exstructa ingenti clamore
locabant "[1].
Infatti con alto clamore gettavano i cadaveri dei congiunti morti
sulle cataste erette per i roghi degli altri. Quindi appiccano il
fuoco “multo
cum sanguine saepe-rixantes”
(De
rerum natura,
VI, 1285-1286) lottando in zuffe cruente
Nella
peste di Egina descritta da Ovidio c'è lo stesso tipo di confusione
per la medesima caduta di foedera:" Et iam
reverentia nulla est,/deque rogis pugnant alienisque ignibus ardent"
(Metamorfosi, VII, 609-610), non c'è più alcuna vergogna,
lottano per i roghi, e ardono con i fuochi degli altri.
Leggiamo
infine la conclusione di Dionigi che viene ai nostri giorni: “Con i
nostri occhi li abbiamo visti i medici supplire con la compassione
alla carenza di terapie; le abbiamo viste le chiese diventate
cimiteri, piazza San pietro deserta e il Papa, solo, a testimoniare
non la potenza del rito ma la passione della croce; li abbiamo visti
negli ospedali i mariti separati dalle mogli, i fratelli dai
fratelli, gli amici dagli amici. E morire senza potere prendersi la
mano e neppure salutarsi” (Parole
che Allungano La Vita, p.
107)
giovanni
ghiselli
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Ottimo .Margherita
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