46 Popolo (p. 70)
Argomento
Il male e il bene dell’isolamento dal popolo
“Popolo: una delle realtà, idee, parole più
problematiche e controverse. Gioverà per orientarci nei giorni nostri, prendere
la rincorsa da lontano, dalla classicità romana. Il popolo è per Cicerone (La
repubblica, I, 39) una comunità (coetus) tenuta insieme dal
riconoscimento del diritto (consensus iuris) e dal bene comune (communio
utilitatis), che in coppia con il Senato (SPQR, Senatus PopulusQue
Romanus) costituiva l’organo legislativo e l’architrave costituzionale
della repubblica.
Alcuni decenni dopo, il popolo, nel passaggio dalla
Repubblica al Principato, da segno positivo diventerà segno negativo: da entità
politica, giuridica e morale si trasforma in una massa informe e manovrabile,
corrotta e corruttrice, che chiede consolazione e non verità”.
Lo stesso era avvenuto in Grecia. Dal Filottete di
Sofocle al Dyskolos di Menandro, l’isolamento e la solitudine
passano dallo stato di male massimo a quello del bene più desiderato.
Nella tragedia di Sofocle Filottete, il protagonista eponimo
depreca la propria solitudine coatta e desolata: abbandonato su un'isola
deserta, lamenta di essere movno" (v. 227), e[rhmo" (…) ka[filo" (v. 228) solo, abbandonato e senza amici.
Nella commedia di Menandro l’anziano protagonista Cnemone è diventato
misantropo - Knhvmwn, ajpanqrwpov" ti" a[nqrwpo"
sfovdra (v. 6), un uomo che si è escluso del tutto dagli
uomini constatando l’opportunismo e l’egoismo della gente la cui presenza gli è
diventata insopportabile.
Quando il servo e l’amico di Sostrato, il ragazzo innamorato della figlia
del vecchio, si avvicinano per parlargli lo sentono gridare con viso accigliato
"quanto era beato Perseo per due ragioni:
poiché aveva le ali
e non si incontrava nessuno di quelli che camminano per terra,
poi perché possedeva un arnese con il quale
trasformava in pietre tutti gli scocciatori".
Si ricorderà che Perseo aveva sandali alati e che impietrava i nemici con
la testa della Gorgone.
Cnemone vorrebbe essere come quel figlio di Zeus :
"Cosa che vorrei capitasse
pure a me! Non ci sarebbe niente di più abbondante
che le statue di pietra da tutte le parti!".
Il vecchio insomma non sopporta di vedere la gente né di sentirla parlare:
"Non si può più vivere, per Asclepio.
Mettono piede nel mio podere e fanno chiacchiere (“lalou's j”) ( Duvskolo", vv. 153 - 161).
Il misantropo di Menandro, quando
vede Sostrato davanti alla porta di casa, invoca il suo bene supremo:
"non è possibile ottenere la solitudine da nessuna parte!"
( ejrhmiva" oujk e[stin oujdamou' tucei'n, Duvskolo", v.169).
Nel corso della commedia tuttavia Cnemone capisce che l’autarchia cui
aspirava non è possibile, e, arrivato - come certi personaggi della tragedia - a
capire attraverso la sofferenza, dà una spiegazione della genesi del proprio isolamento
volontario da sordido anacoreta.
"In una cosa probabilmente ho sbagliato, io che credevo
di essere un autosufficiente (aujtavrkh") e di non avere bisogno di nessuno.
Ma ora che ho visto la fine della vita, rapida,
imprevedibile, ho scoperto che non capivo bene allora.
Infatti deve sempre esserci, ed essere vicino, uno che ti possa aiutare.
Ma per Efesto sono stato così guastato io
vedendo il modo di vivere di ciascuno e i loro calcoli (tou;"
logismouv")
e l'attenzione che hanno per il profitto (pro;" to;
kerdaivnein). Non avrei pensato
che ci fosse tra tutti uno che fosse benevolo a un altro. Questo mi
inceppava il cammino. Il solo Gorgia[1] con
fatica
mi ha dato una prova compiendo un'azione da uomo nobilissimo: infatti ha
salvato me che non lo lasciavo
nemmeno avvicinare alla porta, né lo aiutavo mai in alcun modo,
né gli rivolgevo la parola, né rispondevo con gentilezza.
Un altro avrebbe detto: "non mi lasci avvicinare?
io non ci vengo; tu non mi hai mai fatto un piacere?
neanche io a te". Che c'è ragazzo?[2] Se
io
muoio ora - e lo credo tanto sto male -
e pure se sopravvivo, ti adotto come figlio, e quello che ho,
consideralo tutto tuo. Questa ragazza la affido a te:
procurale un marito. Io, anche se fossi del tutto sano,
non potrei trovarglielo: infatti nessuno mi piacerebbe mai.
Quanto a me, se vivo, lasciate che viva come voglio (zh'n
eja'q j wJ" bouvlomai)" (vv. 713 - 735).
Toniamo a Dionigi: “Dura la confessione di Seneca: “Quanto più numeroso è
il popolo con cui mi mischio, tanto più grande è il pericolo (Lettera 7,
1); terribile il suo j’accuse: “Il popolo non si fa scrupolo di
affidare il potere al peggiore,/ e ne gode” (Fedra vv. 983 - 984: Tradere
turpi fasces populus/ gaudet)
Seneca una volta tornato dal Circo dove ha assistito a mera
homicidia omicidi veri e propri, commenta:" avarior redeo,
ambitiosior, luxuriosior? immo vero crudelior et inhumanior, quia inter homines
fui ", torno a casa più avido, ambizioso, amante del lusso? anzi
più crudele e più disumano proprio perché sono stato in mezzo agli uomini (Ep.
7, 3). Il consiglio allora è:"recede in te ipse quantum potes ",
rientra in te stesso quanto puoi (7, 8).
La posizione si radicalizza nell'incipit di un'altra lettera: “ Seneca
Lucilio suo salutem. Sic est, non muto sententiam: fuge
multitudinem, fuge paucitatem, fuge etiam unum” (Ep. 10, 1), Seneca
saluta il suo Lucilio. E' così, non cambio parere, evita la folla, evita i
pochi, evita anche uno solo.
Altri casi
di misantropia.
Vediamo il misantropo Timone.
Plutarco nella Vita
di Alcibiade (16) racconta che Tivmwn oJ
misavnqrwpo~ , mbattutosi un giorno in Alcibiade che tornava
dall’assemblea popolare soddisfatto per un successo, non lo scansò come era
solito fare con gli altri, ma anzi gli andò incontro, gli strinse la destra e
gli disse: “fai bene ragazzo a crescere in potenza: mevga ga;r
au[xei kako;n a{pasi touvtoi~, così accresci di molto il male a tutti questi.
Nel Timone d'Atene (1607) di Shakespeare il
protagonista diventato misantropo per l’ingratitudine umana dice: All’s
obliquy; - there is nothing level in our cursed natures - but direct
villainy. Therefore be abhorred - all feasts, societies, and throngs of
men - His semblabl yea himself, Timon disdains - Destruction fang
mankind. IV, 3, 18 - 24), tutto è storto, non c’è niente di diritto
nella nostra natura maledetta, se non la malvagità diretta al male. Perciò sono
da detestare tutte le feste, compagnie e folle di uomini. Timone disprezza il
suo simile, anzi se stesso. Che la distruzione azzanni l’umanità.
Un'eco in Nietzsche:
“c'è da dir male anche di chi soffre per la solitudine - io ho sempre e
solamente sofferto per la moltitudine”[3].
E poi: “ogni compagnia è cattiva, ad eccezione di quella con i propri simili”[4].
Des Esseintess di Huysmans desidera
la lontananza dalla “sconcia folla”.
“Non meno d’un eremita, egli era maturo per l’isolamento, affranto
dalla vita, più nulla attendeva da essa. Non meno d’un monaco, sentiva
un’immensa stanchezza, il bisogno di raccogliersi, il desiderio di non aver più
nulla in comune col prossimo: composto, ai suoi occhi, di profittatori e
d’imbecilli. Insomma (…) nutriva una vera simpatia per il frate che si chiude
in un convento, per il monaco perseguitato da un’astiosa società che non gli
perdona né il sacrosanto disprezzo che egli ha per essa, né la volontà ch’egli
professa di riscattare, d’espiare col silenzio la sempre crescente
sfacciataggine dei suoi vaniloqui stupidi e assurdi”.[5]
C. Pavese scrive:
"Maturità è l'isolamento che basta a se stesso" (Il mestiere di
vivere , 8 dicembre 1938). E più avanti (15 ottobre, 1940):"Ci
sono servi e padroni, non ci sono uguali. La sola regola eroica: essere soli
soli soli". E infine (25 aprile 1946):"Ogni sera, finito l'ufficio,
finita l'osteria, andate le compagnie - torna la feroce gioia, il refrigerio di
essere solo. E' l'unico vero bene quotidiano". E' pur vero che questo
nostro autore si uccise il 18 agosto del 1950.
Sentiamo la conclusione di Dionigi: “Durante la
Repubblicasi moriva per la causa del popolo, durante l’Impero si muore a causa
del popolo. Conoscere la storia non risolve e tanto meno salva, ma può aiutare
e confortare quando certi fenomeni si ripetono” (Parole che Allungano La
Vita, 46. Popolo, p. 70)
Pesaro 28 agosto 2020, ore 17, 20. giovanni ghiselli
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[1] Il figlio di primo letto della moglie. I due avevano lasciato Cnemone
che viveva con la figlia e una vecchia serva
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