venerdì 28 agosto 2020

Massimo Cacciari V, "Il lavoro dello spirito". 5


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Massimo Cacciari Il lavoro dello spirito Adelphi, Milano, 2020

 

L’individuo è qui sempre nella posizione del superiorem non recognoscens, si ritiene sempre pars sanior” (p. 22).

E’ allora necessaria “una Autorità politica, la quale, insieme alla capacità di garantire il potere supremo del contratto, sappia ottenere dalla moltitudine degli individui il riconoscimento della coerenza del proprio comando con l’istanza inalienabile della libertà che agita ciascuno”.

Sembra una aporìa che necessita l’intervento di un deus ex machina come la soluzione delle trame intricate di alcune tragedie greche quali il Filottete di Sofocle o l’Oreste di Euripide, per esempio.

 

Weber riteneva che solo un regime democratico-parlamentare potesse permettere il (relativo e sempre in discussione) successo di questo esercizio di altissima alchimia. Aveva tuttavia perfettamente presente che la ‘conciliazione’ tra istanza individuale di libertà e Auctoritas politica avrebbe potuto realizzarsi anche attraveso logiche demagogico-plebiscitarie; la moltitudine degli individui può giungere a sentirsi ‘riconosciuta’ dalla dittatura più che da qualsiasi forma di parlamentarismo”.

 

La figura del demagogo viene denunciata come pericolosa e deleteria in diversi drammi greci: si pensi, rimanendo nell’Oreste di Euripide, a un

uomo dalla lingua senza porta, forte della sua audacia,

ajnh;r ti" ajqurovglwsso", ijscuvwn qravsei-

Argivo non Argivo, imposto per forza,

fidente nel tumulto e nella brutale licenza di parlare

persuasivo per giunta tanto da trascinare  in qualche male:

quando infatti uno piacevole con le parole e dal pensiero malvagio

persuade la folla, per la città è un grande malanno” (vv. 903-908).

Oppure al Paflagone-Cleone dei Cavalieri di Aristofane  chiamato “borborotavraxi” (v. 307), il mescola-fango che si comporta come i pescatori di anguille, i quali le acchiappano, solo se intorbidano l’acqua: “kai; su; lambavnei", h]n th;n povlin taravtth/" (v. 867), anche tu arraffi, se scompigli la città”,  gli fa il rivale salsicciaio.

 

il problema per Weber consisteva nel fatto che una forma di autorità doveva potersi comunque affermare, in un nesso intrinsecamente problematico con la gerarchia di valori dell’epoca, certamente dominata dall’economico”.

 

Euripide punta sull’autorevolezza dell’onesto lavoratore agricolo, il piccolo proprietario terriero, né ricco né povero

Un altro poi alzatosi diceva parole contrarie a costui,

di aspetto non bello, ma uomo animoso,

uno che raramente frequenta la città e il cerchio della piazza,

uno che lavora la terra,- di quelli che soli salvano il paese

intelligente quando vuole muoversi verso un dibattito,

uno integro, che ha condotto una vita irreprensibile (Oreste, vv. 917-922).

 

Nelle Supplici  Euripide aveva  popugnato l’Autorità delle leggi:

 Teseo propugna la democrazia e dice all’araldo tebano mandato da Creonte  che quando c’è un tiranno non esistono più leggi comuni (novmoi- koinoiv, vv. 430-431). E procede: “gegrammevnwn de; tw'n novmwn o{ t’ ajsqenh;~-oJ plouvsiov~ te th;n divkhn i[shn ecei ” (vv. 433-434), quando ci sono le leggi scritte il debole e il ricco hanno gli stessi diritti

nell’Ifigenia in Aulide[1]  il coro delle donne calcidesi lamenterà che sono caduti i valori forti del Valore e della Virtù, mentre regna l’empietà, e ajnomiva de; novmwn kratei' (v. 1095), la licenza prevale sulle leggi.

 

Insomma non c’è democrazia quando la massa aizzata  dai demagoghi pretende di fare quello che vuole come accadrà dopo la battaglia delle Arginuse ( tarda estate del 406 a. C.): il popolo ateniese, nel quale era stato inoculato l'odio per gli strateghi e il desiderio dei capri espiatori, gridava che era grave se qualcuno non permetteva al popolo di fare quanto voleva ("to; de; plh'qo" ejbova deino;n   ei\nai, eij mhv ti" ejavsei to;n dh'mon pravttein o{ a]n bouvlhtai", Senofonte, Elleniche I, 7, 12).

"E' la rivendicazione che riecheggia minacciosamente in assemblea ad Atene durante il processo popolare contro i generali delle Arginuse", è "la formula che caratterizza, secondo Polibio, la degenerazione  della democrazia (VI, 4, 4:" quando il popolo è padrone di fare quello che vuole").[2]

Sentiamo direttamente Polibio:" non è democrazia quella in cui la massa sia padrona di fare tutto ciò che voglia e preferisca; invece quella presso la quale è tradizionale e abituale venerare gli dèi, onorare i genitori, rispettare gli anziani, obbedire alle leggi; presso tali comunità, quando prevale il parere dei più, questo bisogna chiamare democrazia" (Storie , VI, 4, 4).

Oggi del resto la situazione è diversamente complessa.

Concludo questa parte citando di nuovo Massimo Cacciari: “la rete universale dei contratti non solo rimane, infatti, del tutto impotente ad affrontare le grandi crisi internazionale (esse si collocano sempre su un’altra scala rispetto all’ordo oeconomicus), non solo, secondo i suoi stessi pincìpi, non potrà che tutelare con qualche efficacia soltanto i contraenti-ben oltre i limiti, essa appare minata da una contraddizione intrinseca, di fondo: si tratta della sua inabilità a ‘interiorizzare’ nel poprio Ordine il problema da cui scaturisce tutto il movimento dell’epoca, e cioè l’istanza di conciliazione tra la libertà individuale e il sistema politico” (Il lavoro dello spirito, p. 23)   

 

Pesaro, 28 agosto 2020. giovanni ghiselli

 

 


[1] Rappresentata postuma nel 405.

[2] Canfora, Lo Spazio Letterario Della Grecia Antica , Volume I, Tomo II, p. 835.

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