martedì 11 agosto 2020

Debrecen 1979. 14. La prima lezione dell’estate 1979


La prima lezione dell’estate 1979

Il giorno seguente, 26 luglio, andai alla prima lezione del corso dell’estate 1979. Insegnava lingua ungherese alla classe dalla conoscenza “progredita” una cattiva insegnante che nessuno ascoltava.
Che cosa è una cattiva insegnante? E’ una persona cattiva: impreparata, incolta, egoista: è tale che non sa interessare gli allievi siccome non prova interesse per loro.
A parte l’università estiva di vacanza - studio, nei licei italiani i classici greci e latini si possono insegnare in modo da farli amare o da renderli odiosi: gli stessi autori dagli stessi ragazzi. Per farli amare è necessario averli letti, capiti e amati; poi bisogna ricordarli con precisione e riferirli con forza, con vivacità, con entusiasmo. Un riassunto ben fatto di un testo è la base di una lezione buona, cioè interessante e stimolante. Bisogna spiegare l’opera di un autore con l’opera stessa, poi con le altre opere dello stesso autore, poi con le opere di altri autori utilizzati dall’autore in questione, poi con le successive che risentono dell’opera che presentiamo alla classe o a un pubblico. Un lavoro enorme, molto difficile a farsi del tutto. Già non è facile a dirsi.
Ma passando tanto tempo a studiare, ci si può avvicinare a una bella lezione. Nelle scuole di questo nostro paese confuso pochi sono gli insegnanti che passano gran parte della giornata sui libri. I più rendono falso il loro lavoro riferendo o addirittura leggendo in classe le parole generiche dei manuali. Senza ricordare nulla a memoria. Senza citare le frasi belle che colpiscono la sfera emotiva.  E gli studenti giustamente non li ascoltano siccome si annoiano. Capiscono che tali insegnanti non si sono adoperati per loro, non hanno studiato le opere dell' autore, o non le hanno capite. Comunque non le hanno imparate e non hanno nulla da insegnare.
Per questo motivo noi appunto non ascoltavamo la pessima professoressa di Debrecen: avrebbe dovuto almeno conoscere la lingua italiana per insegnare agli Italiani la lingua ungherese.
Nelle ore di quella docente noiosa dunque, dalle otto alle undici e trenta, non senza un breve intervallo, leggevo e scrivevo, poiché a mio parere non è doveroso ascoltare chi non rispetta gli uditori parlando senza una preparazione decente.
Leggevo la storia romana del Mommsen e scrivevo a Ifigenia. Rievocavo gli intervalli radiosi nel nostro liceo, quando lei ed io, innamorati, fieri di come eravamo, al suono che annunciava la pausa, uscivamo trionfalmente dalle aule cupe e ci incontravamo nel corridoio tetro, irradiandolo con la nostra felicità; poi facevamo le scale per recarci alla macchina delle bibite da dove prendevamo il caffè, guardandoci negli occhi con desiderio reciproco, con stima, con gioia sicura, e con l’orgoglio di essere una coppia bella, fine e rara.
Eravamo felici nella certezza di essere gli amanti più luminosi, intelligenti e innamorati del mondo. Allora, in quella nostra primavera lontana, ne eravamo convinti. Ifigenia, dopo avere bevuto il caffè, allungava le braccia all’indietro e, facendo così, protendeva il seno giovane verso di me, nel suo tipico gesto di fervida oblazione gioiosa: io la guardavo con desiderio, con tenerezza, con ammirazione, e con la volontà di aiutarla a divenire una brava insegnante. Ero felice di esserle maestro e pure allievo suo, oltre che  compagno di vita. Insieme saremmo diventati ottimi dicitori di parole e non meno buoni operatori di fatti. Fu un’illusione, ma, almeno per me, è stata un’illusione benefica. Ancora adesso, quaranta e una primavere più tardi, credo che la chimera di Ifigenia mi abbia aiutato e reso migliore. Poiché i dolori sono passati lasciando l’intelligenza di loro e di quelli degli altri, mentre la gioia è rimasta nel fondo dell’anima dove continua a generare splendidi fiori, a produrre ottimi frutti.
A Debrecen, nell’estate del ’79, dunque ricordavo e rimpiangevo già quei giorni felici dell’ultima primavera passata nella felicità. Li ho ancora nella memoria quei giorni, e grazie a Dio, me ne vengono in mente diversi altri non meno belli.
 Nelle prigioni, nella caserme, quando non si fa niente, negli ospedali in attesa di responsi fatali o dell’operazione che ci squarcerà, o anche in casa quando si è stanchi e  soli del tutto, e per farci un poco di compagnia ci guardiamo nello specchio, o per incoraggiarci un poco stringiamo la mano sinistra con la destra, sono sempre siffatti i ricordi che aiutano a procedere: memorie ridenti dei volti che spargevano e riverberavano luce amorosa. Nell’incontro i due amanti annullano tutte le innumerevoli tribolazioni della breve esistenza umana: i loro difetti, l’invidia degli altri, i morbi probabili, l’inesorabile ictus finale, la morte sicura.
 In quei momenti gli innamorati salgono insieme in un regione elisia, sempre soleggiata e fiorita, dove non arrivano mai le offese del tempo, delle persone cattive, della vecchiaia tremenda, né il decadimento con l’affiochirsi della fiamma vitale, né la caduta nell’abisso finale. Poi l'incanto svanisce, ma non c'è disincanto sufficiente a cancellare dalla memoria quella felicità, a fare appassire quei fiori e marcire quei frutti. E così sia.

giovanni ghiselli  pesaro 11 agosto 2020 ore 17

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