Lepautre, Atalanta |
L’angoscia della lettera non arrivata e della scatoletta di latta non aperta. La corsa notturna. La vita dal lieto volto ci allieta.
Osservavo le ragazze italiane che cantavano le canzoni
del nostro folklore. Ma continuavo a pensare a quella che non mi scriveva. Mi
faceva aspettare: è la tattica di chi non ama per farsi desiderare di più da
chi ama. Speravo di trovare l’espresso promesso una volta arrivato in collegio.
Uscito dalla corriera guardai il cielo pregando le stelle di farmi trovare la
lettera. Ma queste erano tanto lontane quanto Ifigenia. Salendo le scale
oppresso e desolato, pensavo: “Più di tanto dolore non devi sopportarlo perché
oramai ti infligge una sofferenza che non porta con sé conoscenza alcuna.
Quella donna non è adatta a te: ti fa male; se corrispondesse a te, ti
infonderebbe gioia. La tua sensibilità è delicata molto, ma non malata. Se
soffri per una persona, se questa ti fa soffrire, vuol dire che in lei c’è
qualche cosa di cattivo. Dunque devi asportarla, anche se l’hai resa parte del
tuo modo di vivere, di te stesso. Hai sbagliato: hai inserito una malattia
nella tua anima. Devi liberartene: sarà una resecazione dolorosa, quasi una
mutilazione, ma non ne morirai, anzi: la tua salute rifiorirà”, conclusi
canticchiando note e parole della Traviata per trarre qualche strana
consolazione.
In camera non potevo fermarmi: ero troppo addolorato
sia per leggere sia per dormire, sicché discesi le scale e tornai nell’atrio.
Pensavo, per confortarmi, che la vita nei collegi mi era congeniale: da quelli
di Bologna per quattro anni a questo di Debrecen da una decina di estati. Vita
in comune, comunista, non egoista.
Un’inserviente distribuiva dei sacchetti di carta con
la cena fredda siccome la mensa era chiusa. C’era del pane, un grosso peperone
verde e una scatoletta con fegato d’oca. Sedetti su una poltrona e cominciai da
solo. I ventenni intanto si stavano radunando per andare a mangiare e cantare
sul prato antistante, mentre i miei coetanei si stavano dirigendo all’Aranybika
con delle colleghe per indurle a fare baldoria o chissà, magari pure una
qualche penitenza con loro. Ero stato via via come gli uni e gli altri, ma
quell’acqua era già passata sotto tanti ponti diversi. Dovevo capire. Intanto
mangiavo il pane e il peperone soltanto, perché non sapevo come aprire la
scatoletta. Pensai al poverello di Assisi, al suo giaciglio sul crudo sasso
intra Tevero e Arno. Non escludevo che avrei preso anche io l’ultimo sigillo.
A un tratto mi accorsi che per le scale scendeva una
ragazza bruna, carina e fine. L’avevo notata con interesse giorni prima mentre
correva allo stadio. La salutai. Si fermò davanti a me. Mi alzai. Ci
presentammo. Era Statunitense. Forse di origine ungherese. Si chiamava Sara.
“Un’ebrea magiara”, pensai. Era vestita da corsa.
“Vai a correre a quest’ora?” le domandai. Erano già
passate le undici.
“Sì, anzi mi sbrigo perché per mezzanotte voglio
essere a letto”
E uscì. Il buio non la preoccupava.
“Magnifico - pensai - questa sì che è una donna! E’
Atalanta.”
Salii in camera per prendere le scarpe da corsa.
Ridiscesi le scale a salti, e corsi verso lo
stadio costeggiando l’orto botanico, quello della meravigliosa aurora di tanti
anni prima con Elena beata e bella.
Mi era tornata la voglia di vivere.
Quando arrivai, l’Americana correva nel buio.
“Magnifica - pensai - ogni viltà convien che qui sia
morta!”
Il cielo era tutto sereno ma non c’era la luna.
Le stelle non avevano la luce sovrastata dal fulgore
di lei quando piena sfavilla, ma nemmeno il più bello degli astri bastava a
illuminare la notte.
Iniziai la mia corsa. Dovevo fare attenzione a
schivare gli ostacoli messi qua e là sulla pista. “Ho passato la vita a evitare
o saltare gli ostacoli - problhvmata in greco”,
pensai. Ogni tanto superavo Sara che aveva comunque un buon ritmo. Finiti i
5000 metri che mi ero assegnato, sedetti su uno scalino di legno. La ragazza
continuava a correre. La vedevo passare ogni due minuti nel tratto visibile
davanti ai miei occhi. Ammiravo la sua forza nell’affrontare metodicamente la
buia via della pista. I suoi movimenti regolari, ordinati somigliavano a quelli
del cielo. L’aria calda odorava di alberi. Si sentivano versi di cani, o cagne,
nell’ombra. Non erano cupi ululati ma suoni chiari e vivi. “La terra è in mezzo
alle stelle - pensai - e c’è dappertutto tanta bellezza”. Anche se Ifigenia
fosse scomparsa andando via con un altro in un altro paese o se pur fosse
morta, la vita avrebbe sconfitto il dolore. Dopo l’angoscia dell’espresso non
arrivato, probabilmente nemmeno spedito né scritto, dopo l’effetto depressivo
del pane e peperone, senza neanche il fegato d’oca della scatoletta che non
avevo saputo aprire, la vita mi aveva indicato la sua bellezza con lieto volto
e mi aveva allietato. Così andò a finire quel sabato 4 agosto.
giannetto il poverello di Pesaro. Pesaro 31 dicembre
2019. Buon anno ai miei lettori
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Saranno un
milione entro il 2020, se Dio vorrà.
Riveduto e
ritoccato il 27 agosto 2019 ore 16, 45
giovanni
ghiselli
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