Honecker |
Conclusione della giornata del 26 luglio 1979
La sera del 26 luglio tornai all’Obester con Silvia Virág. Riprendemmo a
parlare di politica, ossia della vita nelle poleis dove ciascuno di noi
lavorava. La tedesca bionda ribadiva che la Germania Orientale, Berlino Est in
particolare, era schiacciata dal tallone del tiranno Honecker tenuto
in piedi del resto dall’esercito sovietico.
Io ribattevo che l’Italia non stava meglio siccome era raggirata e
inebetita dall’ignobile, rozza pseudolibertà del capitale il cui fine è che la
gente non pensi, non ami, e consumi di tutto ingordamente con le fauci
spalancate e il cervello chiuso.
“Da noi - dicevo - imperversa una gioventù intruppata in branchi rumorosi,
ottusi, faziosi, oppure in greggi pigri, queruli, flebili.
Intanto, nel vuoto di cultura, di idèe, di sentimenti forti e buoni,
proliferano vizi quali la malafede, l’egoismo, la droga, la violenza. Sintesi e
simbolo di tutto questo sono le stragi metodicamente programmate ed eseguite da
dieci anni, sempre da terroristi ignoti o anonimi o ambigui. I giovani sono sciancati
nell’anima, gli adulti incoscienti, oppure coscienti e silenti. C’era stato un
intellettuale coraggioso, Pier Paolo Pasolini, che aveva denunciato
la complicità di parti dello Stato nelle stragi ed era finito massacrato di
botte da un branco di sicari nel novembre del 1975”.
Silvia tornò a lamentare la censura e l’assenza nelle librerie di tanti
autori europei, introvabili a Berlino. Era meno difficile reperirli in Ungheria
dove c’erano maggiori sperequazioni economiche ma più libertà culturale.
Tornato in collegio, in camera mia senza Silvia, ripensai alla serata.
Quella donna diceva parole che mi facevano pensare, come succede dopo un film
interessante o una lettura significativa.
Ifigenia invece mi obbligava a pensare con il silenzio, ed erano pensieri
cattivi che non avevo la forza e l’intelligenza di troncare attraverso una
relazione con quell’altra o con un’altra comunque.
Oramai nella mia povera testa pullulavano ipotesi pessime. Sapevo che
nell’amore il dubbio di non essere corrisposto è certezza, lo sapevo per averlo
provato, ma quella volta volevo coltivarlo e soffrirlo fino in fondo per
imparare dell’altro dal dolore che sentivo ogni giorno davanti all’assenza di
messaggi per me.
Tornato in Italia, potei constatare in presenza di Ifigenia che il mio
pathos doloroso non era parto di un cervello malato, bensì era parte
dell’intelligenza che voleva capire prima di rinunciare.
Infatti Ifigenia mi fece un racconto caotico e contraddittorio delle sue
avventurose vacanze e disse che non mi aveva scritto perché temeva il mio
giudizio sul suo stile. In realtà non aveva niente di buono da dirmi e non
poteva rivelarmi la verità sulle sue faccende poco limpide. Almeno dal mio
punto di vista, viziato, forse, dal moralismo. Decidi tu, lettore.
Il fatto è che non sapevo o non volevo godermi la vita siccome cercavo di
ingabbiarla negli schemi dentro i quali mi trovavo incarcerato io stesso dopo
la mala educazione ricevuta da familiari, preti e professori.
Mi avevano indotto a cercare la donna della vita, la donna per sempre.
Solo verso i cinquanta anni ho compreso che questa per me non esiste e pure
se esistesse non farebbe al caso mio. Ho sempre funzionato meglio con la donna
precaria, la donna impossibile, la straniera estrema, o la moglie di un altro.
Insomma la non sposabile
Mi avrebbero aiutato i classici a capire, a rompere i serrami. Nel campo
amoroso soprattutto Ovidio.
Pesaro 14 agosto 2020, ore 11. giovanni ghiselli
p. s
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