cascata delle Marmore |
II libro (vv. 405-736)
I fiumi
Dall’Appennino
scendono grandi fiumi nei due versanti, orientale e occidentale.
Excursus
Italia trans
e cisappenninica vista da Rima
Tito Livio condanna la pratica del sacrificio dei prigionieri da parte
degli Etruschi come barbarica e vergognosa: dopo un successo militare contro l'incauto console
Fabio, i Tarquiniesi sacrificarono trecentos septem milites romanos,
un supplizio brutale che rese ancora più notevole l'onta subita dal popolo
romano[1].
Ma lo stesso
storiografo racconta che che dopo Canne (216 a. C.) “ex fatalibus
libris sacrificia aliquot extraordinaria facta; inter quae Gallus et Galla,
Graecus et Graeca, in foro bovario sub terram vivi demissi sunt in locum saxo
consaeptum, iam ante hostiis humanis, minime romano sacro, imbutum” (Storie,
XXII, 57, 6), secondo i libri fatali vennero eseguti alcuni sacrifici
straordinari: tra i quali un Gallo e una Galla, un Greco e una Greca, vennero
sepolti vivi nel foro boario, in un luogo recintato da sassi, già
prima insanguinato da vittime umane, con un rito però non romano. E’
una contraddizione con quanto detto sopra sugli Etruschi, ma “i fatti della
storia non sono sillogismi”[2]
Mazzarino ne
ricava una concezione cisappenninica della vera Italia cui consegue l’idea
della exterminatio dei due popoli transappenninici: Galli e
Greci.
Contro i Greci (e i Galli). Appiano e Virgilio
Appiano[3] nell’Annibalica (7,
8) introduce il suo racconto della battaglia del Trasimeno e sostiene che la vera Italia è quella
tirrenica, mentre quella adriatica e ionica è terra di Galli e di Greci.
Dice
che kaqarw'~ jItaliva è quella sulla destra degli
Appennini; quella di sinistra, sullo Ionio è popolata piuttosto da Greci
e sull’Adriatico da Celti. Si chiama lo stesso Italia, come si
chiama Italia l’Etruria, popolata da Etruschi. Ma ancora molti chiamano
l’Italia adriatica jItalivan Galatikhvn.
Nello stesso
anno 216 del resto i decemviri sacris faciundis ricavarono dai
libri sibillini l’ordine di mandare a Delfi Fabio Pittore. Un’altra
contraddizione.
C’era
comunque fino a Canne una questione appenninica: gli antichi intuivano il
contrasto fra l’economia padana e quella appenninica. Virgilio ne risente
ancora: nel terzo canto dell’Eneide Elĕno,
il figlio di Priamo, indovino e
interprete di Febo e nuovo marito di Andromaca, profetizzando il
resto del viaggio ai Troiani, giunti profughi a Butroto in Epiro, consiglia di
evitare le coste e le terre italiche prospicienti, in quanto abitate da
criminali: “cuncta malis habitantur
moenia Grais” (v. 398),
tutte le fortezze sono abitate da malvagi greci. Vengono nominate
la penisola salentina dove
era giunto Idomeneo, Locri,
fondata dai Locresi di Narica, e Petelia in Calabria colonizzata da Filottete.
E’ il
malanimo dei tradizionalisti romani contro i Greci: si pensi a Catone e
a Giovenale. Arrivati
al tempio di Minerva, nel Salento, in effetti, compiuti i riti, Haut mora -racconta Enea
(v. 548)- senza indugio, “Graiugenumque domos suspectaque linquimus arva”
(Eneide, 3, 550), lasciamo le dimore dei Greci e le campagne
sospette.
E’ una forma
di determinismo geografico-coloniale impregnato di razzismo.
Fine
excursus
Nell’Adriatico
cadono velox Metaurus, Crustumiumque rapax, il Pisaurus (Foglia), “Senaque
et Hadriacas qui verberat Aufidus undas” ( Pharsalia,
II, 407), l’Eridǎnus il Po.
Quindi
Lucano racconta il mito di Fetonte che incendiò il cielo con le sue briglie
infuocate e il Po contribuì a spengere l’incendio.
L’Eridano
potrebbe competere con il Nilo se questo non inondasse la Libia e con l’Istro
se il Danubio non ricevesse tanti fiumi.
Poi Lucano
menziona i fiumi che sfociano nel Tirreno: Tevere, il Rutuba (Liguria), il
Volturno Vulturnus celer, il Sarno, il Liri, il Sele, il Magra.
L’Appennino arriva a Crotone fino al tempio di Giunone Lacinia.
Una
volta la Sicilia non era separata dallo stretto.
Caesar in arma furens (439) furibondo nel suo desiderio di
guerra, nullas nisi sanguine fuso/ gaudet habere vias (439-440).
Egli gode
nello spargere sangue, nel mettere le campagne a ferro e fuoco.
Il
popolo è più incline a Pompeo Pronior in Magnum populus (45)
ma ha paura di Cesare. Facilis sed vertere mentes –terror erat
dubiamque fidem fortuna ferebat (460-461) e la fortuna faceva girare
la lealtà malsicura verso Cesare.
I capi
pompeiani in Italia si arrendono a Cesare o fuggono come Varus da Auxĭmon (Osimo). Lentulus
depellitur arce Asculĕa, viene cacciato dalla rocca di Ascoli (Ausculum).
I comandanti fuggono e le truppe passano a Cesare. Scipione lascia la rocca di
Luceria (in Puglia)
Metello
Scipione suocero e seguace di Pompeo. Si uccise nel 46 dopo Tapso.
Domizio Enobarbo (console
nel 54) invece rimane a Corfinio (città
dei Peligni in Abruzzo sotto la Maiella, non lontano da Sulmona).
Enobarbo
venne ucciso mentre fuggiva dopo la battaglia di Farsalo, nel 48 a.C., durante
la quale fu a capo dell'ala sinistra dell'esercito pompeiano. Cicerone,
nella II Filippica, dice che fu lo stesso Marco
Antonio ad ucciderlo. Durante la sua vita Enobarbo fu sempre fedele ai propri
ideali, anche se fu senza scrupoli nei mezzi e contro chi gli si opponesse. Il
poeta Lucano parla molto favorevolmente di
Enobarbo nel settimo libro della Pharsalia,
come unico senatore fedele ai principi repubblicani. Era un antenato di Nerone. Nella guerra civile fu assediato in Corfinio da Cesare,
nelle cui mani cadde prigioniero; graziato, assunse il comando della difesa
di Marsiglia;
comandava l'ala sinistra dei pompeiani nella battaglia di Farsalo e fu ucciso
nella fuga.
Domizio
organizza la difesa di Corfinio, ma Cesare è spinto avanti dalla sua calda
ira calida prolatus ab ira (493). Grida che nessun fiume lo
fermerebbe nemmeno il Gange post Rubiconis aquas (498). Già
la vinea (galleria mobile) si avvicina strisciando alle mura
quando le sue truppe-nefas belli (507) nefandezza di
guerra, consegnano il loro comandante prigioniero a Cesare. Domizio
chiede di venire ucciso.
Cesare lo
risparmia vive, licet nolis, (512) vivi, anche se non vuoi. Poi lo
fa slegare. Vuole mostrare clemenza verso i vinti. Domizio dice a se stesso:
“ rumpe moras”(525).
Intanto Pompeo parla alle coorti
silenziose: o vere Romana manus vero esercito romano , quibus
arma senatus-non privata dedit (532-533)
Cesare viene
equiparato a Catilina e a Sertorio il quale feros movit exul Hibēros (549)
Se Crasso
fosse tornato vivo dai Parti continua
Pompeo, tu Cesare avresti fatto la fine di Spartaco (71). Licet
ille solutum-defectumque vocet anche se quello mi chiama snervato e
sfiancato (560), la mia età non vi spaventi ne vos mea terreat
aetas (559-560). Pompeo era del 106 aveva 57 anni. Cesare, il suocero,
era del 100.
“Qui è
vecchio il duce, là i soldati aggiunge”.
Cesare
dunque è pieno di baldanza per la Gallia ma è fuggito dal Reno e territa
quaesitis ostendit terga Britannis (572) ha mostrato le spalle
spaventate ai Britanni che si era andato a cercare
Poi Pompeo
ricorda i suoi successi: contro i pirati, contro Mitridate (132-63) che fuggiva profugum
per Scythici divortia ponti, attraverso la terra che biforca il mare
scitico (la Crimea). Io-dice Magno- spinsi alla morte indomitum regem
Romanaque fata morantem (581) l’indomabile re –Mitridate appunto-che
cercava di ritardare il destino di Roma “ad mortem Sullā felicior ire coegi” (580)
e fui più felix di Silla
Pompeo
continua: mi conobbero Colchi noti erepto vellere (591),
i Cappadoces mea signa timent, et dedita sacris incerti
Iudaea dei, e la Giudea dedita alla religione di un dio indefinito
(misterioso
e inopinato cfr. Mimesis di Auerbach, capitolo La cicatrice di
Ulisse).
Quindi
Pompeo ricorda i pirati Cilici.
L’esercitò
non reagì con clamori e Pompeo pensò che fosse meglio ritemprare le forze come
fa un toro battuto dal rivale. Quindi attraversò l’Apulia e si ritirò dentro le
rocche di Brindisi ben difese. Brindisi era una colonia cretese. Di qui si
parte per Corcyra (Corfù) o Epidamno (Durazzo)
Pompeo si
rivolse al figlio: gli chiede di andare a raccogliere truppe in Oriente:
vengano a combattere i popoli che ho sottomesso dall’Egitto ai monti Rifei,
dalla palude Meotide all’Armenia. Poi manda i consoli in Epiro e di lì in
Macedonia perché raccolgano forze nuove.
Cesare è
impaziente di tregue: Caesar in omnia praeceps-nihil actum credens cum
quid superesset agendum,-instat atrox (656-658), corre a precipizio
dappertutto e credendo che nulla sia stato fatto quando c’è ancora qualcosa da
fare, incalza implacabile.
Cesare cerca
di ostruire il mare con massi e con tronchi per impedire le partenze da
Brindisi. Le bocche di mare vengono ristrette da intere foreste, abbattute per
fare le zattere. Come fece il superbo persiano Serse quando ammucchiò materiali
che fungessero da strada per passare da Abido a Sesto e fece marciare
l’esercito sul vorticoso Ellesponto (cfr. i Persiani di
Eschilo)
Pompeo fa
spezzare quelle barriere. Era la fine dell’estate del 49 e le navi dei
pompeiani riescono a salpare pur con fatica. Cesare si vergogna della vittoria
troppo piccola costituita dalla fuga del nemico: “heu pudor, exigua est
fugiens victoria Magnus”. Solo due navi della retroguardia vennero
catturate
Così le
Simplegadi che trattennero solo un piccolo pezzo della nave Argo partita da
Pagase e diretta nella Colchide.
Pompeo è
salpato ma non ha la buona fortuna con sé: lassata triumphis descivit
Fortuna tuis (727-728) stanca dei tuoi trionfi la Fortuna si
allontanò.
Pompeo se ne
va come un esule incontro a un crollo indegno di sé. La spiaggia di Faro lo attende: parcitur Hesperiae (734).
All’Italia si risparmia questa vergogna: Romanaque tellus-immaculata
sui servetur sanguine Magni (735-736), si conservi immacolata del
sangue del suo Magno
[1] Storie, VII, 15. Siamo
negli anni del IV secolo a. C. successivi all’invasione gallica, intorno al
364 a. C.
[3] Vissuto nel secondo secolo d.
C. scrisse una Storia di Roma in greco in 24 libri. Sono
conservati 11 libri con il prologo, la vicenda di Annibale, le guerre civili.
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